mercoledì 26 ottobre 2005

La Sicilia tra croce e mezzaluna



"Un sultano a Palermo" (espressione che ricorre anche come titolo originale del romanzo di Tariq Ali edito da Baldini Castoldi) mutua una attribuzione corrente già nello stesso mondo arabo-siciliano, che - secondo quanto ci dice Denis Mack Smith - assegnava l’epiclesi a un «personaggio» della famiglia dei Kalbiti, la casa sotto il cui dominio si dispone la scena politica nel decimo secolo: personaggio in riferimento al quale - quando il capoluogo siciliano è chiamato «al Madinah» e dopo che la cultura musulmana ha sopraffatto ormai quella greco-bizantina - si parla appunto di «sultano di Palermo».
Nel secolo successivo, con l’istituzione del Regnum e il progressivo calo del peso saraceno, la popolazione musulmana chiamerà re Ruggero ancora «sultano», titolo spettato anche al padre, suo predecessore. Ma con il figlio Guglielmo l’elemento arabo entrerà ancor più pesantemente nel cono di regresso che lo porterà entro la fine del secolo a scomparire del tutto sicché del «sultano di Palermo» non rimarrà più traccia.
A questo punto viene fatto di chiedersi perché Tariq Ali, scegliendo un titolo che designa una precisa stagione, ha inteso raccontare gli ultimi anni del regno di Re Ruggero II: perché coincidono con quelli di Al-Idrisi, che è il vero protagonista del romanzo, o perché sono quelli che preparano il tramonto della dominazione araba in Sicilia?
C’è una terza ipotesi: che proposito dell’autore pachistano sia quello di denunciare (non senza una sottile intenzione detrattrice) i soprusi della chiesa cattolica che, in una febbre da crociata volta a conquistare con qualsiasi mezzo l’ecumene, incoraggia l’espulsione degli arabi dalla Sicilia attraverso i vescovi e i baroni cui non fa velo alcuno servirsi di lombardi e normanni per perpetrare stragi ed esecuzioni sommarie degne della incombente Inquisizione. Non a caso episodio centrale del romanzo è la condanna a morte di Filippo, un valoroso comandante navale caro al sultano, convertito al cristianesimo, ma nicodemicamente rimasto di fede islamica, così come gli eunuchi di palazzo. 
La chiesa cristiana, che vuole la Sicilia libera dai saraceni non meno che il sacro sepolcro, costringe il re-sultano a mandarlo sul rogo in forza di accuse pretestuose e inconsistenti, avanzate unicamente allo scopo di abbattere un araldo dell’etnia islamica. L’episodio è attestato da documenti storici, come lo è in fondo quasi tutto il romanzo, senonché è il trattamento che risulta viziato da un giudizio fazioso.
Gli arabi sono infatti visti da Ali come la parte perseguitata e vessata, secondo un modello narrativo collaudato che divide buoni e cattivi e offre una luce migliore a quelli anziché a questi: tant’è che tra il normanno Ruggero e l’arabo Al-Idrisi è il secondo a stare di più sulla ribalta e a finire per prendere la mano all’autore che su di lui restringe sempre più lo sguardo fino a tenerlo fisso sulla sua vicenda strettamente privata, mentre la figura del sultano dissolve nel romanzo e muore non visto in una Palermo che digrada a vantaggio di Siracusa e dei primi moti di rivolta araba contro i misfatti cristiani.
In questo quadro, «credenti» per antonomasia non sono chiamati da Ali i cristiani ma i musulmani, i cui sentimenti di sgomento e rabbia ci giungono come grida di dolore e invocazioni di martiri. Nelle quinte, mai chiamati sul proscenio, agiscono invece i vescovi e i baroni cristiani che appunto perché tenuti nell’ombra ci appaiono in taccia di odiosi aguzzini e di spregiudicati conquistatori. Delle cui ragioni nulla ci dice Ali, che tuttavia li sbeffeggia fino all’umiliazione nell’episodio delle scorregge di alcuni amir presenti al processo contro Filippo. In questo teatro di marionette è perciò Al-Idrisi a primeggiare, il geografo che tiene un rapporto privilegiato di amicizia con Re Ruggero, amicizia che gli vale onori e ricchezze oltre che protezione e prestigio sociale. 
Ma si tratta di un rapporto nel quale è il re ad apparire sottomesso al maestro, che può permettersi non solo di farlo aspettare ma anche di avere incontri sessuali con una sua favorita e di farci pure una figlia. Nel declino delle sorti arabe, Al-Idrisi è tra i pochi musulmani ad avere chiaro lo scenario che il caso Filippo schiude. Muore undici anni dopo Ruggero in tempo per assistere alla rivolta baronale e al sacco di Palermo, segnalato dalla storia per la strage forsennata di musulmani, la prima della serie. 
Ma il romanzo si chiude prima del 1165 (salvo un epilogo che dà conto della nascita di Lucera, l’enclave che un secolo dopo nascerà nella Magna Grecia nel segno di una effimera rinascenza), quando Idrisi decide di lasciare la Sicilia, come Ibn Hamdis ottant’anni avanti. Va a Bagdad, meta verso la quale Ali lo accompagna con parole finali gravide di significato e corroborate da un’anafora esplicita: «Sarebbe andato a Bagdad, la città che sarà sempre nostra. La città che non cadrà mai. La città che non cadrà mai».
Scritto negli anni dal 2001 al 2004, nel pieno delle guerre in Afghanistan e in Iraq, l’intento tirtaico e antioccidentale del romanzo si presta a pochi dubbi. Evocando un’epopea d’oro della civiltà araba, nel tempo in cui sarebbe bastato che le navi di Allah fossero state più determinate e intraprendenti nel solcare il Tirreno per prendere anche Roma, Ali risveglia i sentimenti razziali e religiosi per innestarne il frutto migliore nell’età di Ruggero, in una Sicilia dove si crea uno stato di convivenza che è pacifica sì ma sbilanciata decisamente a favore del primato della cultura araba. Il re normanno piace ad Ali, che lo dipinge con tratti mesti e curiali (giustificando anche l’ordine di condannare Filippo, dato in nome di una malposta ragione superiore, diretta a salvare la presenza araba), perché è un «sultano», perché vuole che Idrisi ammaestri l’rrequieto figlio Guglielmo, perché veste abiti arabi e perché dà ascolto allo scienziato.
Tale è l’opera di assimilazione tra cultura araba e normanna che la figlia illegittima di Idrisi, Eleonore, gli dice che anche «il padre» legittimo, Ruggero, le ha raccontato la storia del regno evocando le stesse gesta ascoltate da lui: con la differenza che non viene mai citato un solo poeta cristiano degno di essere letto mentre sono quelli arabi muhdathun, cioè moderni, ma anche quelli della qasida - il poema preislamico - , da Hamdis a Ibn Quzman, a influenzare il gusto estetico nel momento stesso in cui affermano, con l’insidia del wasf, la poesia descrittiva, anche uno spirito ideologico, determinando quindi l’indirizzo dello stato e la coscienza sociale.
Se così stanno le cose può trovare ora risposta l’interrogativo di prima: il romanzo, che non è privo di begli effetti soprattutto nella resa del clima di sollazzo in un tempo di mezzaluna, più che intonare un epicedio a una civiltà ne vuole cantare gli ultimi splendori. Per farcela rimpiangere.