venerdì 25 novembre 2005

Luzi: la poesia deve includere il presente


La vocazione innata di Mario Luzi è di elevare a sensi generali la sua esperienza autobiografica. Anche quando non inscena la sua vicenda personale (ma si tratta di escogitazioni, come quando inneggia a una donna ideale e irreale, perché nulla di sé mai dice che non sia sotto il patronato del sentimento comune) egli offre al mondo la propria visione delle cose in un atteggiamento cristiano di testimonianza di fede, ma soprattutto di fiducia e di ottimismo.
E’ da questa apertura d’animo nei confronti del Creato e dunque dell’uomo che Luzi deriva quel senso di bellezza del mondo che trapunta l’intera sua opera poetica e che, giunto l’autore fiorentino all’età di novant’anni, non è mai stato aduggiato da barlumi di umore nero e di scontento. 
La sua poesia, klimtiana e versicolare, di vaghe risonanze teocritee e di gusto parenetico, documenta una professione di vita mai tentata dall’abiura, fortificata nel calore di una spiccata tensione intellettuale e di una irriducibile passione per la vita delle cose, tra ditirambo ed elegia, presenza e assenza, militanza e diserzione, in un gioco di rimandi continui e incessanti tra le illecebre dell’ordo naturalis della vita e l’elleboro dell’amor fati della morte; e più ancora tra impegno e disimpegno: come quando rimanda la pubblicazione di Dal fondo delle campagne per dare spazio all’antitetico Nel magma che testimonia la sua partecipazione al dolore del mondo. Il suo è, visto dalla sommità della sua vasta e variegata opera, un instancabile viaggio di circumnavigazione della vita, dedotta in principio come “aliena presenza”, osservabile solo da una posizione di distacco, che fosse quella offerta da una “barca” ancorata a distanza dal mondo o l’altra prestata dalle “rovine incenerite” della città; una vita dedotta in seguito come perpetuazione della realtà quotidiana, nel dilemma tra un nulla e un tutto, tra il vuoto terreno di ispirazione cristiana e il pieno di una dottrina reificante. 
L’interrogativo che ha tormentato Luzi per tutta la vita è se la nostra esistenza sia un attimo nel confronto con l’eternità, l’equivalente di niente, o invece tutto ciò che abbiamo. La risposta è nella scoperta del valore della vita fissato nelle sue forme semplici e quotidiane e apprezzabile solo al momento della perdita. Ma è una risposta che non lenisce il senso di inquietudine che sovrasta da sempre il poeta inducendolo di età in età a fare la spola tra sé e il mondo, scendendo in campo contro le storture della contemporaneità per poi assumere lo sguardo del pastore e osservare da lontano lo sconquasso del mondo e da vicino invece il florilegio naturale, la “fisica perfetta”, dove magari rintracciare, in uno stimolo onirico, l’elemento fiabesco e dantesco, i fili di una weltanschauung che Giudici ha indicato nella ricerca di un “discorso naturale”. 
A novant’anni, esplorati tutti i sentieri tra terra e cielo, Luzi (al quale la Regione Toscana ha dedicato una serie di iniziative pubbliche, mentre Interlinea pubblica Toscana mater, con testi luziani, e Passigli pubblica due libri: La ferita dell’essere e Vita fedele alla vita) si ritrova sulla strada del ritorno alle posizioni originarie, in direzione della sua “barca”: senonché un incarico pubblico di senatore lo risospinge adesso a impegnarsi in un presente che ha tentato sempre di marginare. 
Dottrina dell’estremo principiante (Garzanti, pp. 191, euro 18,50), il libro che ossimoricamente ha il senso di una palinodia, arriva nel momento di una inattesa ripartenza, una nomina parlamentare che suona per Luzi come un invito a esperire il mondo. Ancora una volta. 
Il libro Dottrina dell’estremo principiante può essere visto nei modi di una sintesi, se non di una summa, della sua poetica? O è la proposizione di un quarto Luzi, dopo quello dell’assenza nella Barca, quello della presenza in Onore del vero e poi quello terzo della ricerca spirituale e dell’interrogazione del piano divino?
Mi è sempre difficile fare queste demarcazioni, però è chiaro che più che a una sintesi preferisco che si pensi a una specie di riacquisto della semplicità, una semplicità che vorrebbe essere iniziale, quella appunto del principiante. Il cui mondo è integro nel suo mistero, come poi tale rimane nonostante tutto. Anche avendo fatto molte altre esperienze, alla fine, il mondo, la vita e il complesso dei fenomeni fisici mostrano questa meravigliosa e anche terribile incognita di fronte alla quale il grado più alto di maturità che possiamo aver raggiunto è l’umiltà: quell’umiltà degli uomini che si siano convinti di avere un limite molto piccolo, di essere creature diverse ma analoghe a tutte quelle che popolano il pianeta. Non so dunque se questa è una sintesi o una summa. Certamente è un passaggio. Ed è quanto ho realizzato nel ritrovare la semplicità del primum. 
I temi sono quelli che riprendono il suo più riconoscibile orizzonte: il paesaggio, l’ideale femminino, i luoghi della memoria, i “perpetui accadimenti”. Non c’è più il fuoco della controversia, la testimonianza, ma ritorna il sentimento per la realtà quotidiana, quasi che fosse risalito sulla “barca” da dove guardare il mondo. Un ritorno alla base dunque?
Sì, ma con tutta la consapevolezza che gli anni mi hanno fornito. Ripartire dalla base, come dice lei, ma con il richiamo pure al mio primissimo libro e alle poesie che sono state da poco ritrovate.
In questa nuova silloge il verso è ancora più franto e disunito che in passato. E gli interrogativi sono ancora più ricorrenti: come se il suo perenne stato di inquietudine continuasse a non trovare né risposte né riposo.
Parlerei più precisamente di ansia. Mi vedo come teso in avanti non a registrare ma a chiedere, a indagare. E’ questa la venatura del libro.
In tempi trascorsi lei fu accusato di disinteresse verso la vita politica, di una intenzione a eludere il presente, un po’ come Calvino e com’è nella prima maniera degli ermetici. E a ricercare una presenza di tipo religiosa fuori dal tempo, estranea al corso del mondo. Oggi, la nomina a senatore sconfessa l’imputazione, ma forse le procura qualche disagio.
Quella di una maniera ermetica appartata era un po’ un’idea di comodo. Anche volendo riassumere come concetto legittimo l’ermetismo, esso non era così disinteressato come si diceva del presente. Forse dialetticamente lo rifuggiva, ma c’era eccome la sofferenza del tempo. Poi, quando è caduto il Fascismo, dopo la guerra che ha rivoluzionato un po’ tutto, l’intesa tra quotidiano e avvenimenti minimi o importanti si è manifestata abbastanza chiaramente.
Ma lei si è liberato da quell’imputazione?
Avevo scritto su “Poesia” una pagina che oggi vedo ogni tanto. Lì dicevo che la poesia include il presente e l’attualità perché per forza una poesia non può che esprimere il suo tempo, quel presente in cui si trova ad agire. Anche quello politico. Io non credo di dover prendere posizione pubblica, barricadera: questo atteggiamento non è richiesto da nulla ed è forse effimero, mentre il senso di sofferenza, di rispecchiamento, e l’uso consensuale degli avvenimenti del presente sono elementi di necessità, sono fattori inclusi.
In realtà in almeno due sue opere teatrali, Ipazia e Il messaggero, lei dà conto di quella che è stata chiamata “l’eventualità continua del mondo”, nel senso che l’uomo di ogni tempo è sempre contemporaneo.
Infatti. Pensi a Il fiore del dolore in memoria di don Puglisi: mi sono intestato una “quaestio”, fin’anche quasi giudiziaria, ma ho creduto di rispecchiare lo spirito della collettività.
Quindi il poeta è sempre contemporaneo?
Vede, delle volte nascono questo genere di problemi, che sono astrusi e non hanno fondamento. Si tratta di piccoli miti, errori, mitologie, ideologie improvvisate. Per questa strada si arriva a “strapaese” e “stracittà”. Ora, se uno ci pensa e ci lavora dentro, ci passa la vita. Qualcuno mi ha detto che l’unica poesia che ha dato un’interpretazione della morte di Moro l’ho scritta io. Ma, per dire la verità, io non avevo nessuna intenzione di interpretare e l’emozione mi è nata di contraccolpo rendendo il fatto, non so davvero se bene o male, in una poesia di Al fuoco della controversia.
C’è stato un decennio, tra gli anni Ottanta e Novanta, in cui lei ha vissuto con forza il suo presente, la contemporaneità, le violenze e le passioni del tempo. Oggi il suo atteggiamento sembra più defilato, più distaccato. Eppure il mondo brucia più di prima.
Più defilato rispetto a ieri? Non saprei. C’è anche un fatto in fondo: a prevalere su tutto, andando avanti negli anni, è il prodigio o miracolo della vita nel senso pieno e totale, che è più grande della storia, più grande di noi e che certamente ci scavalca. Si serve di noi ma ci sovrasta. Questo convincimento si fa strada sempre più autorevolmente e via via che si invecchia e ci si avvicina alla perdita della vita si sente di più questa grandezza, per cui anche l’arte a un certo punto si defila rispetto al prodigio degli eventi. Ed ecco quello che è “l’incompiuto” dei grandi vecchi, di quelli che sono arrivati. Cosa resta da fare? Resta da trovare il primum della vita, salva la maestria che raggiunge l’arte.
Lei ha lungamente insistito sul confronto, la “questione” l’ha chiamata, tra vita e morte individuando in essa il senso del poetare. E di questi misteri filosofici che deve occuparsi pur’anche il poeta del terzo millennio?
Io penso che il tema dell’“umanità umana”, un’umanità fornita cioè di humanitas, sia un motivo di fondo, ineliminabile. Saranno variabili nell’accento e nella sottolineatura, secondo le condizioni anche oggettive della società o dei singoli, ma questi problemi rimarranno: rimarrà la voce dell’umanità, sospesa tra questi silenzi e questo clamore.
Che deve fare il poeta? Presenziare al corso del mondo non significa rinunciare alla ricerca dell’opera del mondo negli atti quotidiani semplici e ricorrenti, ciò che lei ha perseguito?
Non metterei questo principio come precetto. Dipende tutto dall’indole individuale. Anche nei lirici greci ci sono questi e quelli. Fin dal principio ci sono state insomma varianti.
Ma oggi lei è un poeta dell’assenza o della presenza?
Assenza da cosa? Io voglio essere presente negli eventi. In questo mi sento presente, magari ancora per poco tempo. Certo, oggi la sento di più questa condizione dell’uomo inserito nel vivente, parte del processo grandioso dell’universo. Che poi, dentro tutto questo, ci sia anche l’incontro con un onorevole, vuol dire che capita l’occasionale. E comunque sono proprio le tante occasioni a fare il clima del tempo.