Le serie Tv, che prima si chiamavano sceneggiati a puntate e soap opera, secondo tecniche di ripresa, argomento e ambientazione, starebbero conquistando il mercato soppiantando non solo i film e i telefilm ma anche il romanzo. E questo perché il loro sviluppo anche tecnologico è diventato tale da riuscire gradevolissime e preferibili.
Ci si potrebbe chiedere che c’entri il romanzo, che è una forma scritta di narrazione, ma pare che il riferimento sia fondato, a stare almeno alle riflessioni di Gabriele Romagnoli e del pachistano Mohsin Hamid apparse ieri su Repubblica. In sostanza il romanzo sarebbe di per sé una serie perché composto di episodi legati fra di essi da un nesso di causalità: distinguendosi perciò dal racconto, fondato sulla singolarità della vicenda, e avvicinandosi alla serie Tv (oltre che all’ultima nata: la serie Web) per la consecutività della trama.
Segnando il superamento del canonico telefilm, caratterizzato dalla presenza di un numero fisso di personaggi e dalla discontinuità delle vicende narrate, il genere come tale punterebbe dritto appunto al cuore del romanzo, per il quale sarebbe rintoccata per l’ennesima volta l’ora del de profundis.
Se le cose stessero davvero così non ci sarebbe partita, perché un conto è seguire un film o un suo surrogato e un altro leggere un libro, che richiede non solo maggiore fatica ma anche maggior tempo. Senonché sarebbe proprio l’impiego di un tempo molto più lungo, necessario a seguire un film o un telefilm, a caratterizzare la serie Tv facendone un doppio del romanzo e una sua concorrente. Dove la lunghezza del tempo impegnato significherebbe anche una ricchezza di forme e contenuti che solo il romanzo in effetti può avere, se solo si pensa che nessun film che sia trasposizione di un romanzo potrà mai restituirne il respiro e l’ampiezza. Ma le cose non stanno affatto così.
Innanzitutto non si comprende perché i diversi generi di narrazione (televisiva, scritta, orale, radiofonica, audiovisiva…) debbano essere messi in concorrenza tra di loro in un rapporto ad excludendum. Sarebbe come pensare che le ricette di cucina si guerreggiassero per affermarsi sulle altre. Trattandosi di gusto - e il gusto è anche estetico - tutti i piatti possono convivere semplicemente alternandosi: sebbene possano tuttavia anche primeggiare per ragioni circoscritte e comunque temporanee. Così è anche per i romanzi, i telefilm, i Dvd, le serie Tv e quelle Web, perché se così non fosse si potrebbe arrivare al paradosso per cui se in una comitiva qualcuno si offrisse per raccontare una storia, sarebbe zittito in ragione del fatto che solo se l'avrà trasmessa a puntate una televisione quella storia potrà essere ascoltata.
Hamid è tuttavia convinto che il problema esista e che dunque il romanzo debba cercarsi un altro luogo di residenza per lasciare il suo posto alla serie Tv. Non solo. Dovrà anche inventarsi un diverso stato. E chiama a testimoniare la canadese Sheila Heti (pressoché una sconosciuta), la quale suggerisce al romanzo di fare come la pittura che all’apparire della fotografia si trasformò in arte astratta ritrovando uno smalto che andava perdendo. Secondo la Heti, chi vuole oggi trame, storie e personaggi li trova in abbondanza nelle serie Tv che tecnicamente - ed è vero - hanno di gran lunga migliorato il prodotto sotto il punto di vista anche della resa cromatica, della risoluzione video e della struttura della trama: ragione per cui gli autori di romanzi, essendo tutti diventati narratori, solo che inventino storie, non importando il mezzo di divulgazione o pubblicazione, dovrebbero convertirsi a una nuova religio. Quale però non lo dice, né Hamid ha un’idea sua. Non può averla.
Il romanzo, che così come lo conosciamo nasce in alternativa alla tragedia perché reso in prosa e non in rima, non nasce nel Cinquecento con Cervantes né nel secondo secolo con Apuleio o nel primo con i vangeli, né si può dire che esploda e abbia successo con il Romanticismo e la prosaicizzazione della letteratura. Il romanzo, come mezzo per raccontare una storia articolata, infinita se vogliamo perché modificabile, nasce con l’uomo la prima volta che egli racconta a qualche altro qualcosa di complesso che gli è avvenuto. Ed è molto probabile che racconti menzogne, mettendo in essere quello che in realtà è lo spirito della letteratura.
Il giorno in cui un raccoglitore o un coltivatore, gente stanziale, ospitarono nella loro grotta un cacciatore divennero destinatari e fruitori di storie di avvenimenti accaduti altrove. Nacquero così i lettori e i narratori. Nacquero per esempio i miti e le gesta degli eroi. Nacquero l’Iliade e l’Odissea. E nacquero le storie da raccontare e da modificare in molteplici varianti. Nacque insomma il romanzo come possibilità data all’uomo di immaginare la realtà nel tentativo di inverarla deducendola anche dalla menzogna o dalla reticenza o ancora dall’approssimazione o dall’inverosimiglianza. Sono dunque romanzi i disegni nelle caverne, i racconti orali, le epigrafi, i geroglifici, le stele, i papiri e via via fino al cinema, alla televisione e al web. Che altro non sono se non mezzi di espressione e di divulgazione, strumenti tecnici, mentre rimane nella sua essenza inalterato il racconto. Oggi per esempio leggiamo un libro su carta o su un ebook e siamo certi che stiamo comunque leggendo sempre un libro.
Dunque anche la serie Tv è un romanzo. E su questo convengono Hamid, Romagnoli e la Heti. Al punto da sottendere che la serie Tv sia diventata il nuovo romanzo. Così però non è. Torniamo all’evoluzione del mezzo nei secoli. Il romanzo offre, proprio per il carico di inverosimiglianza che possiede, la possibilità al fruitore, che sia l’ascoltatore o il lettore o lo spettatore di figure inanimate, un dipinto o una sequenza di foto, di ricreare il romanzo stesso risceneggiandolo: leggendolo può plasmarne i personaggi, immaginarne le scene e gli ambienti, correggerne i colori e soprattutto stabilirne le inquadrature, possibilità questa preclusa e inimmaginabile prima dell’avvento del cinema.
Fino agli inizi del Novecento lo spettatore conosceva infatti solo un’inquadratura: quella frontale, che vedeva realizzata a teatro e negli ultimi tempi nei dagherrotipi. Non aveva quindi possibilità alcuna, leggendo un romanzo o assistendo a una tragedia, di diversificare i piani di ripresa, passare da un campo lungo a una soggettiva o a un campo americano. Un altro tipo di inquadratura era quello che vedeva ricreato nelle pitture, a volte anamorfiche, irreali, disanalogiche. Ma si trattava pur sempre di una sola e unica inquadratura, che poteva al massimo tradursi in una prospettiva o scorcio, come si chiamò con Giotto. Allo spettatore è stato sempre impossibile concepire una scena nella quale qualcuno guardi un altro negli occhi "inquadrandolo", cioè vedendolo in primo piano. Ma con il cinema lo spettatore muta in sé anche il lettore e si dota della facoltà di creare non solo le scene quanto di decidere pure da quale angolatura osservarle. E’ una vera e propria rivoluzione. Senonché il cinema quando scopre i romanzi e impara a riprodurli, animandoli, cioè trasponendoli, priva il lettore di quel romanzo della prima facoltà, quella di sceneggiarlo. Lo spettatore è costretto ad accettare che i personaggi abbiano l’aspetto deciso dal regista quando ha scelto gli attori e deve prendere atto che gli ambienti sono quelli che vede e non quelli che ha immaginato.
A questo punto romanzo e cinema non possono più essere lo stesso mezzo nella percezione del lettore-spettatore ed avviene la separazione che non si farà che acuire. Il lettore resta tale quando legge un romanzo e diventa spettatore quando vede un film. Non cambia nemmeno quando il film è la trasposizione cinematografica o l’adattamento televisivo del romanzo che ha letto. Il lettore rifiuta il regista perché lo è già lui. Lo spettatore lascia il lettore a casa e si affida al regista. Del resto il romanzo non ha le preoccupazioni del cinema di dover rappresentare la realtà o farla credere tale. Non ha motivo di presentarsi come “tratto da una storia vera”. Essendo il lettore il regista può decidere lui se reputarla vera e fino a che punto. Insieme all’autore del romanzo è egli stesso coautore: sia pure di una versione unica, valida solo per sé e per chi la vorrà ascoltare da lui.
Dividendosi la strada, romanzo e cinema si dividono anche i campi di influenza e con essi i destinatari. Ancorché possiamo vestire la doppia condizione di lettori e spettatori, siamo noi stessi che svolgendo in entrambe le vesti funzioni diverse ci caliamo nell’una e nell’altra: possiamo essere sia lettori che spettatori spogliandoci della prima natura al cinema e della seconda in poltrona. Possiamo perciò preferire la serie Tv al film e al telefilm e trovarla migliore e più godibile. Ma non possiamo sostituirla al romanzo. E su questo Hamid alla fine è d’accordo, così come Romagnoli. La ragione che loro non dicono è quella che abbiamo indicato: non possiamo che tenere distinti i due stati perché il cinema ci ha insegnato a essere, a differenza dei lettori dei secoli passati, sceneggiatori e registi. Leggendo un romanzo lo riscriviamo. Vedendo un film o oggi una più sofisticata serie Tv, lunga quanto un romanzo, non possiamo invece che “leggerlo” come fosse un file di sola lettura, cioè immodificabile.