martedì 11 marzo 2014

L'altra metà del cielo resta meno della metà



La pretesa trasversale e consociativa delle parlamentari italiane di dividersi con i colleghi maschi i posti nelle liste elettorali, avanzata come un diritto irrinunciabile e quindi, una volta respinta, denunciata come violazione di una sacrosanta rivendicazione, maschera un problema sicuramente malposto e affrontato ancor peggio. 

Supponendo a buona ragione che siano stati gli uomini a votare ieri contro l’emendamento, si può argomentare che abbiano avuto più buon senso a dire no alla parità di genere: perché se una parità tra maschi e femmine è imposta per legge significa che nella realtà, cioè nel Paese reale, non esiste, nulla contando che sia introdotta in quello legale. Ora non può essere ammessa nessuna legge che sia ottriata e che non sia intesa a consolidare uno stato di fatto. Se dunque nell’economia reale, nelle relazioni sociali, nella stessa famiglia tale parità è vista dalle donne ancora come un obiettivo e quindi in via di sviluppo, il Parlamento non può anticiparne l’esito dichiarandola raggiunta. Commetterebbe un sopruso. 
A questo motivo di fondo per cui la Camera ha bocciato la proposta se ne aggiunge un altro collaterale, che involge un tema di carattere generale: se una condizione sociale di parità, che vagheggia di diventare politica e quindi istituzionale, viene richiesta da pochi anziché riconosciuta da tutti vuol dire non solo che non c’è ma che è destinata a rimanere in una dimensione di minorità, ancorché sancita da una legge. E questo non perché, nel nostro caso, si avrebbe un Parlamento sbilanciato nel presupposto, certamente del tutto infondato, che gli uomini sarebbero nel Paese più capaci delle donne e meriterebbero quindi una maggiore rappresentanza, ma perché una donna eletta parlamentare solo perché il posto spetta non a lei ma al suo sesso non afferma un principio di parità ma una causa di ingiustizia. 
Ma c’è più: la parità di genere imposta per legge non si traduce in una quota solo rosa ma anche in una azzurra, che è altrettanto bloccata, cosicché vale anche per gli eletti maschi il rischio di dover ammettere in Parlamento, quando si tratti di ultimi eletti, candidati che vincono in forza della quota: cosa che determinerebbe motivi di ingiustizia, quanto al potere di rappresentanza, ancora più gravi di quelli creati dalle liste dei nominati anziché dei preferiti. Alla fine l’emendamento bocciato non avrebbe introdotto la quota rosa ma allo stesso tempo anche quella azzurra, che però nessuno ha richiesto e a cui nessuno ha pensato.
La questione va posta invece in termini elementari. In sostanza è ragionevole convenire che una donna non merita le stesse chances di un uomo perché è la legge a conferirgliele, ma le merita in quanto persona che nulla ha di meno – ma nemmeno di più – di un uomo. A ben vedere, porre il problema di una rappresentanza femminile egualitaria significa fare regredire l’emancipazione femminile di mezzo secolo e soprattutto accettare che un tale problema sia sentito come presente e urgente. Così non è.
Certo, giocano a favore di questa prospettiva alcune dinamiche oggi del tutto anacronistiche e diventate stereotipi: i rigurgiti femministi, la festa della donna, l’editoria femminile, l’industria culturale che orbita attorno al rosa, dal corredo al ricamo, dalla debolezza per i vestiti e i profumi alla passione per la moda, la pettinatura, il trucco, la chirurgia plastica, la soap opera e altre riserve sessogoniche ancora. E certo, ragionando in questo modo, si possono allora stabilire anche gli stereotipi maschili, che nulla hanno di superiore o di esclusivo: dai motori al calcio, dal carrierismo al diporto, dal sesso ai film di guerra e così via. Ma non si tratta che di sovrastrutture mentali che non hanno riscontro nella realtà perché che se ne avessero davvero allora dovrebbero rendere legittime e legalizzate non solo le quote rosa ma anche quelle grigie, quelle verdi e quelle gialle, non apparendo oggettivamente giustificato che anziani, giovani e disabili, categorie altrettanto deboli, debbano essere considerati in stato di inferiorità rispetto alle donne e addirittura ignorati.
Il vero problema è di riconoscere che non c'è. E che la donna italiana non è né l'altra metà del cielo né rappresenta il sesso debole. Non merita nessuna particolarità e non può richiedere alcun privilegio, perché più ne pretende e più inferiore si dichiara.
Cecile Bonnefound, presidente della Veuve Cicquot, ha colto benissimo tempo fa il problema che si è creato adesso in Italia, sia pure sotto un aspetto rovesciato. Secondo la regina dello champagne francese quando ci sarà una donna incapace in una posizione molto importante le donne potranno dire di aver raggiunto la parità: con ciò significando che gli uomini non sono superiori, che detengono sì il potere, ma malamente, e che le donne possono eguagliarli se solo fossero come loro. Cioè in basso.
Insomma, nel bene e nel male, non c'è alcuna differenza tra uomini e donne. E se solo i primi sono fin troppo avvezzi a farsi ragione delle seconde, tanto da aver creato la subcategoria dei femminicidi, non è perché sono superiori ma perché sono fisicamente più forti. Per fortuna di tutti sono una sparuta esiguità. Di converso le donne (mai così unite in Italia come adesso) si sono rivelate estremamente più astute. Purché non si rivelino al pari delle donne di Aristofane che conquistano il parlamento camuffandosi da uomini. Sarebbe troppo.