mercoledì 30 aprile 2014

Un applauso al politicamente corretto



I cinque minuti di applausi degli agenti di polizia del Sap in omaggio ai colleghi condannati per la morte di Federico Aldrovandi sono soprattutto risuonati alle orecchie del ministro degli Interni Alfano, reduce dall'elogio pubblico e sperticato a tutta la polizia, la violenza della quale, ci aveva appena detto, è sempre da preferire a quella della piazza.
Non a caso la sua condanna è giunta per ultima nella giornata di martedì, ridotta a poche parole, che però non lasciano dubbi circa l'autosconfessione avvenuta dopo un paio di giorni. 
Ora sappiamo che non sempre la polizia ha ragione quando usa le maniere forti e che non sempre dobbiamo stare dalla parte dei "tutori dell'ordine", la nostra posizione di cittadini dipendendo dal risultato dello scontro tra la polizia e la piazza: se ci scappa il morto la colpa è sua, se invece ci sono solo feriti invale la colpa dei manifestanti.
Sebbene Aldrovandi non sia rimasto ucciso in un torbido di piazza ma per eccesso colposo nell'uso delle armi, cosa che dovrebbe giustificare il diverso atteggiamento del ministro, ciò che la coscienza comune - da Alfano a Renzi a Pansa e alla stampa in genere - ha inteso affermare è stata la contrarietà al sentimento di appartenenza al corpo attorno al quale gli agenti del Sap si sono stretti: non è piaciuto proprio il fronte di identificazione espresso in un applauso e quindi l'attaccamento alla divisa che Alfano ha elogiato e indicato all'orgoglio nazionale. Per paradossale che possa sembrare, l'uso delle armi è infine ammesso e tollerato mentre non può essere in alcun modo giustificato un applauso all'uso di quella forza pur da più parti invocata come unico rimedio all'insorgenza del disordine pubblico e a protezione della pace sociale. Di conseguenza parrebbe che i poliziotti debbano usare la forza fino ad un certo punto. Quale punto? Ecco il problema. Sulla determinazione del punto di non ritorno, cioè del momento superato il quale l'uso delle armi configura un eccesso colposo si decide la questione se la polizia vada fischiata o applaudita. 
Un tempo l'esercizio delle funzioni costituiva il modello giustificativo di ogni azione di polizia, senza un limite tra l'eccesso e l'impotenza: perciò un poliziotto rispondeva di un abuso di potere oppure di una colpa commessa fuori dall'esercizio delle sue funzioni - quando tuttavia veniva premiato se quelle funzioni le espletava ugualmente pur non essendo tenuto. Col tempo le funzioni di polizia sono diventate modalità da esercitare secondo inusitate "regole d'ingaggio" accolte in un campo dove non potevano avere cittadinanza e applicazione perché hanno significato l'introduzione della discrezionalità: così un agente è chiamato ad agire o a reagire a un teppista o a un black bloc prevedendo il danno che può arrecare prima di quello che può subire. Ciò che è umanamente impossibile.
Ma come si è arrivati a un rivolgimento per cui chi per istituzione è innocente, come lo è un boia, che riceve uno stipendio per fungere da braccio della legge, debba rispondere di violenza se ristabilisce l'ordine usando una violenza che per forza di cose non può essere inferiore e debba rispondere invece di inefficienza se si lascia sopraffare usando una violenza insufficiente?
La risposta è in un processo culturale che ci ha cambiati senza forse che ce ne accorgessimo. Come tutte le rivoluzioni culturali anche questa è partita dagli Stati Uniti  e si chiama "political correctness": nulla può la società più tollerare che sia di squilibrio tra le sue forze, all'interno delle quali una grandezza di carattere umanitario ed egualitario misura il rapporto di equilibrio impedendo pericolosi scarti. Cosicché, per fare un esempio, il filone cinematografico del Far West è tramontato sulla spinta emotiva proprio del politically correct per cui i pellerossa nulla possono oggi avere meno dei bianchi o degli yankees. Poi sono venute le cosiddette minoranze bisognose di tutela, linguistiche, razziali e religiose, quindi le donne, i bambini, gli anziani e infine gli omosessuali. 
Tutto giusto, bello e santo. Senonché se un eccesso si è avuto è stato nell'uso del politicamente corretto giacché si è finiti per pretenderlo anche in favore delle minoranze ideologiche e quindi terroristiche o eversive. Uno sbaglio, perché di questo passo si arriva a ritenere un gesto politicamente corretto anche quello ispirato a ragione di Stato di Ponzio Pilato che si lava le mani di un delitto che non lo danneggia. Demonizzare la polizia perché viola la political correctness è come chiedere a un esercito in battaglia di limitare i danni non propri ma del nemico. Un boia che procuri al reo sofferenze è ritenuto un aguzzino rispetto a quello capace di dargli una morte immediata.
In forza del politicamente corretto che tende ad equiparare tutto, anche i modelli di comportamento, l'agente di polizia è stato assimilato al medico, chiamato a rispondere legalmente del proprio operato, così come il giudice. Ma si dimentica che un conto è l'uso della forza fisica e un altro l'esercizio di cognizioni intellettive. La prima, a differenza delle altre, risponde a una dinamica di azioni e reazioni appunto fisiche che dipende da circostanze suscettibili di diventare incontrollabili. Questa condizione di incontrollabilità può anche arrivare un giorno a indurre un'assemblea di poliziotti ad applaudire colleghi riconosciuti colpevoli di eccesso nell'uso delle armi. Quando di eccessivo c'è solo o soprattutto l'uso del politicamente corretto.