mercoledì 18 giugno 2014

Il caso Yara, grande violazione della privacy





L'operazione Yara Gambirasio è stata la più grande manovra di violazione della privacy che sia mai stata condotta in Italia negli ultimi anni. In un'area circoscritta a ovest di Bergamo, migliaia di persone, perlopiù ignare, sono state oggetto per quattro anni di accertamenti anagrafici, fiscali e privati condotti fino a scoperchiare le loro vicende più intime e inconfessabili. 
La stessa scoperta di una madre non nota al figlio assassino, frutto di una relazione clandestina, è stata possibile grazie a questa gigantesca azione di incursione nella vita di tantissimi cittadini comuni.
E' stato un bene violare la privacy di un'intera comunità, è chiaro: non facendolo non si sarebbe arrivati mai a Bossetti. Tutto giusto e tutto legale. Senonché c'è anche da chiedersi quanto sia accettabile un prezzo così alto pagato alla sfera privata individuale. Migliaia di cittadini sono stati sottoposti ad accertamenti circa i loro trasferimenti di residenza e domicilio, le loro relazioni private, persino i consumi di luce e gas, i contributi Inps, le scuole dei figli. 
Un setaccio che ha stretto le maglie quando si è arrivati a dover cercare una donna il cui Dna incrociasse quello del padre naturale dell'assassino, perché a quel punto non si è più stati sulle tracce di una sola adultera, o amante clandestina che fosse, ma di tutte le donne che mezzo secolo prima potessero aver avuto una tresca con Giuseppe Guerinoni: trovando un muro di omertà, perché nessuno - pur sapendo - si è sentito di rendere nota una altrui relazione privata sia pur vecchia di decine di anni. Non sarebbero poi trascorsi altri due anni se qualcuno avesse detto agli inquirenti di quella storia d'amore tra i genitori naturali di Giuseppe Bossetti. Se non l'hanno fatto è stato per rispettare appunto la privacy ritenendo prevalente questo valore a quello di assicurare un assassino alla giustizia.
Ma forse c'è stato un altro timore a far tenere a tutti la bocca chiusa: quello di finire personalmente nel torchio di un'indagine pronta a fare strame della vita privata di ognuno e rivoltarla da cima a fondo, tirando fuori segreti, scandali ed eccessi che potevano fare della zona della Bergamasca attorno a Brembate una piccola Peyton Place di dicerie, rivelazioni e pettegolezzi tali da rovinare la reputazione di chiunque e quella generale. 
Chi si era rifatto la vita, come la madre naturale dell'assassino, seppellendo dietro di sé colpe, peccati, reati e ricordi, ha rischiato di ritrovarsi tutto restituito come in una nemesi e ha perciò preferito ostacolare col mutismo le indagini accollandosi la propria quota di responsabilità nel permettere all'assassino di restare libero piuttosto che ritrovarsi sulla bocca di tutti, marchiata per sempre.
Se la scoperta di questo metodo d'indagine favorirà il raggiungimento della verità minando a colpi di Dna il cosiddetto "delitto perfetto", una scoperta benvenuta e anzi da ottimizzare, è pur vero che usare il laboratorio non più come screening di massa a scopo di prevenzione medica ma per stanare mostri, assassini o soltanto ladri costituisce di per sé un eccesso di potere che rende tutti se non sospetti certamente soggetti a finire dentro l'ingranaggio della giustizia.
Tra due beni da tutelare, quello privato e soggettivo alla privacy e quello pubblico di perseguire i reati, lo Sato ha ritenuto prioritario il secondo: con il risultato di costringere i membri di una famiglia a lasciare nottetempo casa e paese nel timore di finire tutti linciati dopo essere divenuti oggetto del ludibrio generale, perché il soddisfacimento dell'interesse pubblico è stato interpretato in tale maniera estensiva da violare non solo la privacy della madre naturale ma anche da sbatterla in prima pagina con nome e cognome.
In questa storia hanno sbagliato tutti: dal ministro Alfano animato dall'intento di rassicurare subito il Paese e quanti tra forze dell'ordine e magistrati hanno passato ai giornali notizie, particolari, nomi e fotografie. Per cui oggi è lecito chiedersi se davvero il bene pubblico debba prevalere sempre e comunque su quello privato.