Il vecchio ingresso dell'aeroporto Magliocco |
pubblicato su La Repubblica di Palermo il 17.8.2014
Si può tornare dal presente al passato semplicemente facendo il giro dell’aeroporto La Torre e, costeggiando il reticolato, ritrovarsi davanti all’ingresso dell’aeroporto Magliocco: rimasto immutato, come per effetto di un perfido incantatore che abbia voluto conservarne a perenne memoria l’aspetto tetro del lager, trapuntato com’è di filo spinato ai lati di un cancello sormontato da un logoro cartello di latta ancora oggi minaccioso nel divieto che ingiunge: “oltrepassare questo limite provoca un intervento armato”.
Ma non si rivolge che al vuoto di uno slargo, un tempo campo di battaglia e piazza d’armi, l’avviso al centro del quale resiste ai decenni la sagoma di un soldato forse yankee che punta il fucile e che molti sputi e lazzi ricevette trent’anni fa esatti in un’estate come questa.
Ma non si rivolge che al vuoto di uno slargo, un tempo campo di battaglia e piazza d’armi, l’avviso al centro del quale resiste ai decenni la sagoma di un soldato forse yankee che punta il fucile e che molti sputi e lazzi ricevette trent’anni fa esatti in un’estate come questa.
Era un cafarnao questo spiano che, alle porte di Comiso, risuonava di canti e manganelli, di urla multilingue anti-Nato e di rabbiosi ordini di sgombero immediato e che oggi è una cornucopia di ricordi a chi ci torni con i capelli bianchi per ripensare quanto in quegli anni, davanti a questo cancello ormai ossidato, si gridò ogni giorno a un lupo che poi si dileguò lemme e ignorato nei meandri della storia.
Qui a tenere la scena furono le ragazze, che diedero scandalo ai comisani, belle e svestite come le ninfe di Kamarina: quando di un gomitolo di lana avvolsero attoniti carabinieri e poliziotti recingendoli a passo di danza e cantando “no alla militarizzazione”; o quando, la notte di San Silvestro del 1983, offrirono panettoni e mele alle sentinelle armate; o ancora si sdraiarono nella loro Tienanmen davanti ai camion diretti nel cantiere con i materiali di costruzione.
Da questo cancello entrò, officiante e parimentato, il vescovo di Ragusa Rizzo quando benedisse la prima pietra e le bandiere Usa avendone poi da Sciascia una laica e perentoria scomunica. E fu qui che una sera d’estate di lucciole e stelle Antonella disse guardando la Celere: «Sai, ora si parla di espropriare i terreni ai contadini, allora abbiamo pensato che potremmo comprarne qualche pezzetto e stare poi a vedere cosa succede». Di tutto successe poi. Anche la nascita della Vigna Verde, a ridosso del temibile cancello e al lato di questo pianoro al quale, come in un lago, finisce un lungo e stretto rettilineo che al pari di un fiume vi riversò migliaia di dimostranti di ogni nazione. Anche un monaco buddista che non sarebbe più andato via.
Dall’altra parte della rete, oltre i grigi casamenti ancora in piedi dell’ultima guerra e al di là della rammodernata pista aerea, che oggi lancia charter nel Nord Europa come nel ’42 catapultava bombardieri sul Sud, il nuovo aeroporto riluce ignaro della propria tormentata origine, avveniristico nella sua spaziale architettura biancazzurra, ma pur curioso e beffardo nel mezzo di una grande base militare disabitata, a cento metri da un teatro destinato a spettatori in usbergo e sotto una grande scritta che lo chiama “civile”.
Le due provinciali, la 5 e la 7, circoscrivono un’area che non è mai stata una enclave fuori Comiso e conducono in due mondi ognuno dei quali è specchio e porta dell’altro, entrambi orbitanti attorno a un paese che Bufalino vide come “un’erba, un’arancia, una nuvola” ma anche come “una stella dura”. Quanti, in veste di turisti, sbarcano nell’elegante terminal levigato e luminoso, così irreale e mirabolante, e si ritrovano al centro di una struttura militare priva di soldati, nulla sanno dell’altra fortezza, solitaria e nereggiante, che sul lato opposto della pianura - parte prima della stessa storia - si erge in figura di monumento alle imprese fiere e velleitarie dei loro figli e forse, perché no, di loro stessi in trascorsa taccia di pacifisti, nel ricordo magari della grande battaglia dell’8 agosto 1983, durata tutto il giorno e che a molti ancora oggi fa dire “c’ero anch’io”.
E sono due provinciali parallele e omologhe dove la prima pavesa avvisi “rent a car” come la seconda esibì annunci “for sale”, quelli e questi destinati oggi e allora a stranieri e forestieri che hanno sostituito i megafoni con le macchine fotografiche e le grinze con larghi sorrisi. Due strade provinciali che portano dritto a Comiso - Cruisetown divenuta Tourcity - sempre rimasta a debita distanza dal suo aeroporto, più accettato che voluto, quasi diffidandone: a motivo dello scompiglio che non manca mai di creare. Tanto che Salvatore Fiume, comisano, a rappresentarne il destino, volle nella chiesa dell’Annunziata dipingere una “Resurrezione” con un Cristo che si eleva affusolato al cielo in una nube bianca nella quale molti hanno inteso vedere un Cruise.
L’aeroporto, simbolo ed eponimo di Comiso, ne è anche la negazione. Rappresenta la città e nello stesso tempo la marchia, così chi si è battuto tanto per averlo ora bada a non raccogliere beneplaciti e rivendicare medaglie, memore che Comiso è sempre quella città di teste calde e strane che scatenò un’insurrezione armata per proclamarsi indipendente. Tale che nell’81 una petizione contro i missili raccolse quasi tredicimila firme su una popolazione pari al doppio e lesta a fare festa agli americani come a fare spazio al Campo internazionale per la pace e allo storico Cudip, il movimentato comitato per il disarmo infiammato dal pasionario comisano Giacomo Cagnes, che alla fine, testa calda e strana pure lui, diede la figlia in sposa a un americano e se ne andò anche lui oltreoceano.
Ma avversando gli americani, come avevano contrastato i tedeschi, non per questo i comisani si sono perciò schierati con i pacifisti. Anzi. Interprete di una coscienza da pastori d’Ilio, del tutto indifferenti alla guerra contro gli achei che si combatte davanti a loro, si rese proprio Gesualdo Bufalino, il più comisano dei comisani, quando lasciò scritto, di soldati e pacifisti insieme, tutto in un brano che è uno statuto: «Non è per albagia che li sentiamo diversi, quasi un poco barbari. Ma perché siamo noi stessi a sentirci per opera loro espulsi da noi stessi, messi tra parentesi, off limits. E anche, specialmente, perché crediamo di patire, in queste novità, un ulteriore sopruso, non bastassero le ordinarie accelerazioni della storia: come se qualcuno, non importa se un caso cieco o una volontà occhiuta, ci avesse ancora una volta espropriati del nostro destino, deragliati fuori dell’angusto ma felice solco della nostra memoria collettiva, promossi o degradati, ch’è la stessa cosa, da solidale comunità artigiana e contadina a luogo di controversie storiche e planetarie; compravenduti insomma e usati senza dolcezza secondo una chimica che non ci appartiene».