martedì 11 novembre 2014

Ancora una volta Vespa si è punto da solo


Nel suo ultimo, stagionale, libro intitolato Italiani voltagabbana ci si aspettava da Bruno Vespa che, essendo anch'egli italiano, stavolta facesse outing e dedicasse un capitolo alla sua vita di impenitente voltafaccia nei riguardi del potere. Non l'ha fatto.  
E ne avrebbe avuto materiale autobiografico. Basti pensare ai suoi stessi libri, prendendone due: questo Italiani voltagabbana, una pifferata a Renzi, e Vincitori e vinti, un'ode a Berlusconi.  La prova della sua mutante natura è nella constatazione di vederlo ancora sulla breccia, cosa che non si può certo imputare a sue particolari doti intellettive, visto che parla male e scrive peggio, né gli sono mai state intestate grandi idee o sue esternazioni siano mai state citate da qualcuno. 
Consapevole dei propri limiti, non ha mai per esempio pensato di fondare un giornale o di proporsi (quando qualche editore lo volesse) come direttore di una testata, campo nel quale i propri meriti di giornalista, diversamente che in televisione, si vedono tutti se ci sono. Il suo merito è piuttosto di aver brigato con i poteri con grande spirito cortigiano e servile, dimostrandosi sempre pronto a intonare aedi ai potenti di turno e il primo a saltare sul carro del vincitore. Lavorando in un settore, la televisione di Stato, dove l'audience può essere un plus valore se alta ma non è un deficit se bassa. E dove non si parla di prestazione e rendimento ma di perfomance e aplomb.
Sotto questo aspetto è con grande sfrontatezza e senza rossore alcuno che in televisione si commuove a ogni terremoto o parla con voce rotta di disagiati e indigenti, di problemi economici della gente comune e di insostenibile costo della vita, mostrando sensibilità e comprensione, lui che è il più venale dei presentatori televisivi, ricco come un Creso e pure divertito quando sostiene una legge che è un infingimento e una trovata: "Valgo tanto e costo tanto grazie al mercato". Proprio quel mercato che, a detta anche sua, dovrebbe essere calmierato e che comunque, a stare agli ascolti notturni che registra negli ultimi anni, non dovrebbe costituire la sua unità di valore, tutt'altro. 
Non è quindi il mercato il suo dante causa ma il potere: quello in carica. Che lo legittima e lo tiene sulla ribalta quanto più egli lo blandisca, mestiere nel quale ha dimostrato di non avere rivali. Com'è normale per qualunque camerlengo di corte o commis di palazzo che impari bene le sue mansioni e guadagni la fiducia "de' superiori", Vespa si è trovato nelle vesti di portavoce per finire poi a darsene una propria. Così si è potuto elevare a censore e lo troviamo adesso, con questo libro, a pretendere di definire il carattere degli italiani. Un carattere voltagabbana: di chi cioè, nella visione di Vespa, cambia casacca e salta da un campo all'altro. Quello che in un politico si chiama trasformismo. 
Vespa parte dalla Prima guerra mondiale quando semmai avrebbe potuto cominciare dall'apparizione dell'uomo sulla Terra ad ogni latitudine o perlomeno, volendosi fermare agli italiani, dalla prima Italia, quella letteraria. A Francesco Petrarca per esempio, quel Petrarca che nel rapporto personale con i potenti diceva di stare con loro e non sotto di loro, distinguendo “la parte migliore” - il proprio animo - da quella terrena, la sola che fosse “sottoposta ai signori” essendo la prima libera. Petrarca fissava un principio di buon vivere facendo un pregio di un comportamento che potrebbe apparire ancor oggi spregevole: “Non è da incostante ma da prudente orientare le vele secondo il mutare dei venti”. 
Vespa quindi non ha trovato che l'acqua calda e ha fatto la faccia sorpresa chiedendosi cosa mai fosse questo strano fenomeno naturale, mettendosi a studiarlo come un presocratico, come chi veda per la prima volta una fumarola che venga da sottoterra. Ma ha confuso i ferri del mestiere e ne è venuta fuori una costruzione Lego che non rispetta il disegno delle istruzioni.
Infatti chiama gli italiani impropriamente voltagabbana non rendendosi conto che fa loro un complimento. La gabbana è una giubba foderata, come una coperta double face, che può essere girata, voltata appunto, e agire allo stesso modo. Chi la indossa non si sposta di un centimetro, non cambia terreno e posizione come intende Vespa, ma cambia solo aspetto. Quindi il voltagabbana vespiano è semmai un nicodemico, colui cioè che rimane delle proprie idee e della propria fede ancorché cambi aspetto e possa sembrare un altro. Italiani voltagabbana suona allora come dire "italiani brava gente", accezione nella quale l'omonimo film delineava un altro e più autentico carattere nazionale: di soldati che partono al fronte sulle ali dell'entusiasmo, tutto italiano, e scoprono il dolore, la disumanità, la guerra e la morte nel solco di un atteggiamento e di una cultura anch'essi tutti italiani.
Ma superficiale qual è, Vespa ha scelto un'attribuzione di uso comune per indicare un modo d'essere che non è però degli italiani intesi come nazione e popolo ma degli intellettuali, i cosiddetti "chierici", quanti hanno preceduto proprio lui sulla stessa strada rinnegando non la propria condotta, molte volte frutto del bisogno e della coercizione, ma, peggio, le proprie idee, per sposare quelle fino a quel momento avversate. 
Se in Italia una questione di coerenza si pone riguarda esclusivamente e da sempre quanti come Vespa svolgono un lavoro intellettuale e non gli italiani di strada che in fondo si comportano come i pastori di Ilio, intenti a pascolare le loro pecore, del tutto indifferenti alle sorti della battaglia che infuria davanti a loro tra greci e troiani.
Così, quanto agli intellettuali, non è di voltagabbana che bisognerebbe parlare ma di "coturni", termine che rimanda all'antica Grecia dove i coturni erano un tipo di calzari che si adattavano ad entrambi i piedi ed erano molto usati dagli attori che se li scambiavano. E proprio "Coturno" fu soprannominato un intellettuale di quel tempo, Teramene, che si rese noto per la sua ambiguità politica passando ripetutamente da posizioni oligarchiche a opposte posizioni democratiche. Petrarca gli avrebbe dato ragione, così come del resto hanno fatto nel tempo altri intellettuali. A dimostrazione che trasformisti non sono mai i comuni cittadini ma possono esserlo solo quanti svolgono attività pubblica e che non per forza debbano essere additati al disprezzo generale, perché il giudizio dipende dai risultati che ottengono e perché in realtà non possono essere sindacate le loro reali intenzioni, un trasformista potendosi infatti mascherarsi un vero nicodemico. Che, come una spia, svolge una funzione utile al proprio Paese.