lunedì 17 novembre 2014

I dolori del vecchio Veronesi


Nel suo libro Il mestiere di uomo Umberto Veronesi racconta come ha perso la fede, segno che prima ce l'aveva. Dice che conoscendo il cancro ha disconosciuto Dio. Ciò vuol dire che, essendo il migliore oncologo italiano, quanto più si è avvicinato al cancro e ai suoi tremendi effetti tanto più si è allontanato da Dio. 
Veronesi evoca il celebre interrogativo di Hannah Arendt che si chiedeva dove fosse Dio al tempo di Auschwitz e, riproponendosi la domanda col sostituire il lager con la sala operatoria, non riesce a darsi una risposta semplice, cosa sorprendente in una intelligenza che francamente ritenevo più speculativa e illuminata: Dio era proprio con quanti erano in colonna verso i forni crematori così come è al fianco di ogni persona che venga anestetizzata con alte probabilità di morire sotto i ferri. 
Veronesi affronta la questione del bene e del male in Dio (la teodicea leibniziana) ragionando come un uomo il cui criterio di distinzione mutua la differenza tra ciò che è buono e ciò che è cattivo secondo la nostra concezione delle cose, tra quanto procura un vantaggio e quanto un danno. E quindi non si chiede perché Dio non adotti lo stesso metodo quanto perché non sappia fare il bene dove appaia evidente, facendo così morire poveri bambini macerati dal cancro, e non sappia addurre il male dove esso sia necessario. Parla in termini di giustizia pensando che essa non possa che essere uguale sia per l'uomo come per Dio. 
Quando il noto oncologo dice che per lui il cancro è stato la prova dell'inesistenza di Dio agisce come il padre che al capezzale del figlio morente accusa Dio di commettere un'ingiustizia perché si vede impotente ad aiutare da sé il figlio. Se Dio fosse artefice del destino individuale, perché Veronesi non ringrazia Dio ad ogni intervento chirurgico che gli riesca quando invece se ne intesta tutti i meriti tanto da essere diventato celebre e ricco? Perché in sostanza Dio deve essere ritenuto responsabile del male che fa e non del bene che dispensa? In realtà la questione ontologica non può essere posta su queste basi.
Immaginando Dio un cieco, capriccioso e parziale arbitro della vita umana, non avremmo bisogno di alcuna fede perché non dovremmo più credere alla sua esistenza né avremmo bisogno di pregarlo, dovendoci limitare a giudicarlo osservandone i comportamenti caso per caso. Che l'uomo possa ergersi a giudice di Dio equivarrebbe a negarlo. Assumendo che possa fare il male e il bene in maniera inevitabilmente sconsiderata, non avremmo un solo Dio ma almeno due: quello buono e quello cattivo, così finendo in una deriva che ci porterebbe a una gnosi in forza della quale non avremmo più né la Rivelazione né la resurrezione, quindi non avremmo più il cattolicesimo come lo conosciamo e professiamo. Quel che si avrebbe sarebbe piuttosto un padrone intento a comminare il male ed elargire il bene secondo la condotta individuale ispirata a opere di bene e cattive azioni: una specie di computer privo di discernimento e di sentimento, incapace anche di perdonare, che come un semaforo manderebbe i mortali a destra e a sinistra in base alla differenza tra opere di bene commesse e cattive azioni perpetrate: con la conseguenza di vere e proprie vertenze nel caso in cui fosse difficile stabilire non solo la quantità ma anche la qualità tra virtù più meritorie e colpe più gravi.
Ma poi: gli atti umani possono davvero distinguersi tra buoni e cattivi per cui Dio e gli uomini avrebbero uno statuto condiviso al quale ispirare le proprie decisioni l'uno e le azioni gli altri? Dobbiamo ritenere ancora oggi che i dieci comandamenti siano le tavole cui obbedire sicché trattandosi di divieti, tutto il resto è permesso? Ci basta davvero non desiderare l'asino altrui o la capra del vicino per meritare la grazia divina mentre possiamo spacciare droga, commettere qualsiasi reato societario, fiscale e contro la pubblica amministrazione, oltre che ingaggiare guerre, guidare rivolte e commettere ogni nefandezza purché non sia proibita da Mosè? O il Dio neotestamentario ha lasciato leggi aggiuntive cui conformarci che non siano regole di buon giusnaturalismo valide in ogni epoca e ogni razza? 
Umberto Veronesi, da chirurgo molto più che da uomo nella cui veste si presenta in questo libro, non arriva oltre la definizione di un criterio univoco per distinguere il bene dal male: il dolore, fisico o psichico che sia. E deduce che chi soffra per una ragione incompatibile con la sua età, la sua bontà di carattere, la sua bellezza e la sua famiglia, è inviso a Dio, il quale sarebbe perciò un malvagio scriteriato avvezzo, come i bambini, a giocare sfogliando la margherita o schiacciando formiche a caso. 
Invece è più logico immaginare Dio nell'impossibilità o nell'indiscrezionalità o nell'imperscrutabilità di commettere il male così come di compiere il bene perché non può esserci un male cui non corrisponda, a capo di qualche altro, un bene e viceversa: magari a distanza di anni. E già Platone nel Critone auspicava che "magari i più fossero capaci di fare i mali più grandi così da fare anche i beni più grandi", sempreché, come lo stesso Platone fa dire a Socrate nell'Apologia, il bene e il male siano distinguibili nel senso che sappiamo cosa è l'uno e cosa l'altro. 
Se è vero che un battito d'ali di una farfalla può provocare un uragano dall'altra parte del mondo, nulla l'uomo conosce della conseguenza degli eventi che si determinano a suo danno e vantaggio. La morte di un bambino è terribile per lui e per la sua famiglia ma i suoi organi possono salvarne un altro e farlo gioire insieme con i suoi genitori. Vedere un esempio di crudeltà negli animali che uccidono e mangiano altri animali significa alla fine volere che tutti muoiano di fame. 
Veronesi si addolora per l'impossibilità di riuscire a salvare tutti quelli che si rivolgono a lui e lo guardano negli occhi affidandogli la vita prima dell'anestesia. La sua è una visione materialistica. Se fosse cristiano vedrebbe nella morte, in qualsiasi morte, il dies natalis, la rinascita in una altra vita molto più lunga. Ragiona da uomo che fa un mestiere (di qui il titolo del suo libro) nel quale però si vedono troppo l'uomo e soprattutto il mestiere. E vede la vita nei termini di un'operazione chirurgica più o meno difficile e più o meno redditizia. Per tanti ha fatto miracoli strappando alla morte di cancro molti pazienti-clienti. Ma la differenza con Dio è che lui i miracoli se li fa pagare e finisce per considerarlo un concorrente che possa togliergli la scena. Qualcuno dovrebbe dirgli, in un'età in cui è probabile che se lo trovi davanti presto, che non è così. E che Dio è proprio con lui anche in questo momento.