Negli stessi giorni in cui Palermo veniva insignita del titolo di “capitale italiana della cultura 2018”, Catania diventava sede dell’Autorità portuale della Sicilia orientale: a designare una vocazione distinta tra una città dedita a un ideale estetico e un’altra votata a un interesse più prosaico e affaristico. Al di là di una separazione così manichea tra una visione spirituale e un’altra materiale che nella realtà non c’è davvero, perché Palermo è altrettanto operosa e Catania ama non meno il bello, la coincidenza di attribuzioni coglie tuttavia un fondo remoto, come un’eco lontana, e si offre a una riflessione - occasione rara negli ultimi decenni - sul rapporto tra due grandi città che sono conterranee, in qualche modo cugine, ma diversissime e storicamente rivali. Una Sparta e l’altra Atene, unite e divise dalla stessa identità nazionale. Catania rimanda a ‘Ntoni di padron ‘Ntoni che di lavoro muore, Palermo ricorda le figlie del Principe che, alla vista di Cavriaghi e Tancredi, lasciano cadere dietro la poltrona il romanzo edificante.
Se la “Palermo felix” alimentata da uno snobismo tutto versato al bello, che fosse un gesto o un telefono bianco, continua ancora oggi a tralucere entro un atteggiamento collettivo che non si priva di ostentare con malcelato sussiego una certa nobiltà cui invita a rivolgersi con solennità, la “Milano del Sud” dal canto suo non ha mai rinunciato al grande sogno industriale, vagheggiato dall’alto di una smaniosa ambizione che l’ha indotta a progettare solo opere da rendere sempre più faraoniche - nel campo delle infrastrutture, dell’elettronica, della fisica - e farsi nello stesso tempo emporio, area di traffici e commerci, crocevia di denari prima che di idee.
Stereotipi scaduti, si dirà: rovesciando il canone, Palermo non eccelle forse in una techné che è la sanità e Catania non primeggia nell’arte del teatro? Oggi piuttosto le due metropoli tendono ad avvicinarsi e assomigliarsi, per modo che parlare della città etnea come capoluogo morale dell’isola e di Palermo capitale sovrana della Sicilia significa ricadere nelle vuote retoriche di un tempo, fonte quelle sì di contrasti fuori misura. Le lunghe “primavere” di Bianco e Orlando hanno invece rialbeggiato di una tinta analoga e unita le due città, i cui centri storici appaiono oggi bellissimi rispetto a quelli tetri degli anni Settanta. Entrambi i sindaci hanno lavorato sulla bellezza ottenendo risultati omologhi che però le classifiche della qualità della vita, centrate su pratici livelli di rendimento, hanno ignorato.
Ora il riconoscimento del Mibact a Palermo giunge come indennizzo e dimostra che favorire l’elemento estetico può pagare, non soltanto sotto l’aspetto turistico. Parimenti le “grandi mostre”, un must ormai, allestite e Catania (da Chagall a Picasso a Ligabue), hanno meritato vasto apprezzamento conferendo alla città una statura europea.
Ma, occorre dirlo: Palermo ha fatto di più negli ultimi tempi, quasi un’accelerazione in un sorpasso. Svegliata dopo il lungo sonno lampedusano sofferto sotto la più opprimente cappa mafiosa, la città è rinata a una nuova consapevolezza che si è indirizzata alla ricerca del bello nell’arte figurativa, nelle forme del sapere, nella narrativa, nella musica, nel gusto comune. Così la “capitale della mafia” diventa “capitale della cultura” al termine di uno sforzo al quale ogni palermitano non può non avere partecipato ridisegnando insieme un futuro che, come insegna Leopardi, è sinonimo di felicità (ed ecco di nuovo la Palermo felix perduta) perché fondato sulla speranza in un avvenire certo.
Catania ha perso nel frattempo terreno. Non ha gli scrittori, gli attori, i registi e gli artisti di Palermo; i suoi mostri sacri del teatro, da Pattavina a Musumeci, sono sulla via della pensione e senza ricambi; Stabile e Massimo languono; la convegnistica si è ridotta all’accademia o alla presentazione; i musicisti di grido come Battiato e Consolo vivono isolati; l’impresa televisiva è pressoché scomparsa; l’università si è rinserrata in sé; e il bello del calcio è un brutto doloroso. La sua vera bellezza, esaltata dai toni crepuscolari alla Hopper del centro storico, è nel nuovo volto che offre, girato verso il suo passato a sentire riecheggiare la lunga risata che risale già da Micio Tempio nell’esaltazione dell’“arte della gioia” tutta catanese che è intrapresa, frenetico, voglia di fare. E mentre si fa vanto della sua metropolitana, risvegliando il sopito spirito milanese, la città sogna il più grande aeroporto, moltiplica i suoi centri commerciali ed estende la sua cinta urbana ai paesi etnei. Capitale comunque un po’ lo è diventata: della trasgressione, soprattutto gay. Che qualcuno dopotutto chiama anche cultura. Ma è proprio un’altra cosa. Per un bel pezzo sarà decisamente Palermo a dettare le tendenze.
Articolo pubblicato l'11 febbraio su la Repubblica di Palermo