lunedì 17 luglio 2017

Il primo romanzo antifascista fu scritto da Brancati


A una spanna da Il bell’Antonio, il capo d’opera di Vitaliano Brancati continua ad essere considerato Don Giovanni in Sicilia, uscito lo stesso anno, il 1941, del capolavoro di Vittorini, quell’omologo Conversazione in Sicilia ritenuto da Asor Rosa ed altri il primo libro nel quale appare l’antifascismo. Eppure l'avversione al fascismo nasce con Gli anni perduti di Brancati.
Il 1941 è infatti l’anno di pubblicazione in volume di quello che è il romanzo di Brancati successivo alla sua abiura del fascismo, Gli anni perduti appunto (edito da Parenti e nel 1943 riedito da Bompiani), cui Don Giovanni fa velo sin dal primo momento e sul quale la critica non correggerà mai il giudizio di libro minore. Epperò già dal 1938 Gli anni perduti era uscito a puntate sulla rivista "Omnibus" mentre su "Letteratura" Vittorini andava pubblicando lo stesso anno la sua Conversazione
Al romanzo Brancati comincia a lavorare nel 1934, l’anno in cui, esecrando il suo passato e ripudiando tutte le precedenti opere, matura la sua avversione al fascismo, che arriva subito dopo la censura del suo racconto lungo Singolare avventura di viaggio. E ancora: il 1934 non è solo l’anno in cui Brancati si dimette da "Quadrivio" e medita di lasciare Roma per tornare in Sicilia, ciò che farà agli inizi del ‘35, ma è anche l’anno nel quale dirà di avere cominciato a maturare quell’ispirazione comica che dislagherà in Don Giovanni in Sicilia ma che in Gli anni perduti come nel coevo Sogno di un valzer resta una crisalide di sola ironia.
Gli anni perduti viene tutt’oggi visto come un libro che, pervaso com’è da un profondo senso di crepuscolare malinconia ritenuto estraneo alla tematica brancatiana così come è stata precisata, ha suggerito approcci conoscitivi superficiali instillando nella critica la preoccupazione di fare prevalere e salvaguardare la cifra comica dell’autore rispetto ad altri portati letterari che prefiguravano espliciti toni decadentisti: in vista dei quali si è preferito elevare la comicità di Brancati a specimen del suo éngagément facendone un particolare autore realistico piuttosto che riconoscergli il diritto d’iscrizione nella lista degli scrittori della mente e dell’inconscio (oltre che in quella degli autori impegnati), nel solco di quella corrente sveviava e pirandellina che in Italia ha scaldato autori come il Vittorini elegiaco e allegorico di Conservazione, Bufalino, Bonaviri.
Eppure Gli anni perduti è lì a testimoniare quanto sentiti fossero in Brancati, a fianco dei rapporti individuo-società con i grotteschi e tormentati grovigli da romanzo borghese moraviano e dannunziano che quei rapporti sostengono, anche i temi del tempo, del sogno e dell’attesa, acquisizioni primarie della poetica proustiana, qui rielaborati come strumenti allegorici di lotta alla dittatura. 
Incassata la censura per Singolare avventura di viaggio, Brancati studia come non ricadere in errore, pur intendendo muovere una forte critica al regime. Quel che fa è contaminare la sfera realistica e civile della vena simbolico-allegorica lasciando al lettore di coglierne lo spirito più intenzionale. Che è abbastanza evidente. Basterebbe un facile calcolo aritmetico, che la censura fascista evidentemente non fece, per sorprendere dentro il romanzo un’idea di antifascismo che costituisce l’espediente chiave usato da Brancati reduce dalle esuberanze romane e calato nella noia siciliana: gli amici rimasti a Nataca e non più ripartiti per Roma impiegano tredici anni per costruire la loro torre panoramica, che è completa nel centenario della morte di Bellini, cioè nel 1935. Sottratti tredici anni si arriva al 1922, l’anno della Marcia su Roma e della presa del potere da parte del fascismo. 
Nell’anno in cui la vena di derivazione dannunziana coglie i suoi frutti esortando al superomismo e all’azione audace, Brancati recluta personaggi estenuati e oblomoviani, dimidiati viri cui viene meno improvvisamente la luce e che altro scopo non perseguono se non di fare passare il tempo nell’attesa (l’attesa buzzatiana di un evento al quale viene votata la vita; l’attesa valeryana della caduta del possibile nell’esistente) di ripartire per Roma, una partenza che viene sempre rimandata dentro una vicenda nella quale non è difficile scorgere quella personale dell’autore, tornato in Sicilia e sospeso nell’indecisione di rimanere. L’avvento del fascismo anziché incoraggiare res gestae induce apatia e inedia in giovani “inetti” che credono dapprima di potere imputare la colpa della loro permanenza coatta alle madri (le quali li tengono in casa ringiovanendo mentre loro invecchiano, «creano i figli e poi se li mangiano») ma che, col tempo, scoprono da soli di essere prigionieri volontari della vita, perché sono nel sonno, anzi in sogno, borgesianamente inteso come distrazione dal mondo, quello stesso «mondo offeso» vittoriniano che a Leonardo Barini fa dire: «La luce s’era spenta. Tutto era buio. E allora cosa ho fatto? Visto che era buio ho dormito. Alle cose che sono accadute non ho dato importanza, come se fossero sogni»; quello stesso «mondo offeso» che, nell’epilogo del romanzo, fa credere a Lisa Careni che «tutto sia stato uno stupido sogno», la materia, per dirla con Shakespeare, di cui sono fatti gli uomini. Un’astrazione-distrazione quindi che realizza «un dormire e non sapere di essere», ma anche di «non sapere chi essere» chiedendosi se «si può vivere del non essere più qualcuno» e annullandosi in una realtà, Nataca, che si rivela una trappola, da dove si può andare via soltanto se si muore, come succede a Paolo Filesi, che muore per una puntura suppurata il giorno in cui finalmente è in partenza per Roma; o se si impazzisce, come succede a Enzo De Mei, giullare di città, che perde il senno per colpa della stessa inedia che si è creato.
«I pazzi non sono degli infelici ma dei burloni che a un certo punto della loro vita hanno puntato i piedi e sono rimasti fissi, fissati» dice Brancati. Che trova una eziopatogenesi: «Se la situazione in cui un uomo si trova rimane identica, l’idea che quell’uomo ne ha non può che essere sempre fissa». Per uscire da questa trappola il rimedio è fare passare il tempo, «ammazzandolo», ciò che costituisce «una perizia che è l’espressione più perfetta delle proprie qualità morali e del proprio ingegno». Salvo poi scoprire che il tempo che passa, se non è «una truffa di Dio sul peso della vita», è uno strumento di morte esso stesso, che fa dire a uno spaventatissimo Rodolfo De Mei: «La vita se ne va! Diciamo di ammazzare il tempo ma poi è noi stessi che ammazziamo». Allora il problema è quello di «prendere la vita per l’elsa», di riempirla, di smettere i panni di Rubé e vestire quelli del legionario. 
C’è il fascismo che invita a grandi imprese e che respinge l’idea della vita intesa come «gran gioco» nel quale essere pessimisti o ottimisti, ma gli amici di una Nataca che scoraggia lo «spirito d’azione» altra impresa nella quale impegnarsi non trovano se non quella di costruire una torre panoramica, per la quale bruciare dieci anni fino a scoprire che è illegale perché una legge di tredici anni prima, del 1922, vieta di costruire torri che fomentino i suicidi.
La satira al regime fascista è sferzante ancorché implicita. Brancati riesce a rompere le maglie della censura servendosi di significati criptici e la gabba due volte con il pubblicare il romanzo prima in rivista e poi in volume, ricorrendo a motivi allegorici che ne fanno un libro sotteso a un surrealismo saviniano (strumento dell’interiore istanza civile e morale) all’interpretazione del quale si incarica quello che può considerarsi il protagonista occulto del romanzo: il vento, «il veloce vento di fuoco», «il temuto vento del sud», il vento dell’Africa che dura tre giorni, elemento deuteragonista che intride tutto il libro e che sembra scandire gli anni perduti fino a rivelarsi, prorompente e impetuoso, il giorno della mancata inaugurazione della torre, producendo «un suono tra pietoso e comico» che «si impadronisce della noia e la porta in giro per i camini e i corridoi di Nataca», mentre alla radio «una voce cavernosa riempie l’orecchio senza più udito di frasi incoraggianti come “Forti, grandi e invincibili... Lo slancio, la potenza, la durezza, la tenacia, l’ardire”». 
Il vento che piace solo ai poeti a esso abbandonati festanti non è che il fatto nuovo auspicato da Brancati, capace di scuotere la torre, l’impresa sciocca e velleitaria, comunque illegale, che ipoteca gli anni migliori, quelli perduti; un vento che svegli le coscienze, che segni la fine di un lungo sonno, che entusiasmi chi come Lisa, in preda alla gioia ritrovata, alla fine grida al vento: «Evviva la vita».
Allora sì: il libro più antifascista di Brancati e il primo della nostra letteratura, di un Brancati amaro e dolente quanto però efficace e mai tanto vittoriniano, è questo allegorissimo e liricissimo Gli anni perduti, guastato solo da un moralismo di natura che peraltro è proprio di Brancati. Dove il tempo passato in sogno è quello vissuto sotto il fascismo, la torre l’impresa per cui esaltarsi, il vento l’elemento bonificatore, la noia l’insignificanza della vita da antieroi, Nataca la città metafora dell’Italia nella quale Catania stinge improbabili personaggi (mai descritti fisicamente perché figure universali) i cui nomi non sono, deliberatamente, eponimi catanesi. 
Un libro non capito perché scritto in hilariate tristis dove il sentimento del comico è solo un retrosuono quando piuttosto quel che primeggia è il Brancati sciascianamente inteso come “scrittore di cose”. O se si vuole “scrittore di spirito”, che è, secondo De Sanctis, «chi sa cogliere il lato ridicolo di un argomento serio». Certamente, prima ancora di Don Giovanni in Sicilia, mirò al cuore del regime fascista.