martedì 30 giugno 2020

L'amore come ricerca di se stessi


Questo articolo è già apparso su Pangea

Le specie animali e innanzitutto quella umana sono dotate di proprietà la cui natura non è stata interamente scoperta. La più grande qualità che esse posseggono, che è anche il loro più grande mistero, è l’amore.
Se ne è comprensibile la forza di attrazione che lega in un vincolo esseri viventi dello stesso sangue, quali madre e figlio, altrettanto non può dirsi del nodo che in base alla stessa forza di attrazione lega esseri viventi non consanguinei come sono due innamorati. Tanto è dunque diversa questa forza di attrazione che non potrebbe parlarsi di amore per entrambe le condizioni, sebbene coincidano le manifestazioni: spirito di sacrificio, trasporto incontenibile, sentimento di appartenenza, obnubilamento della ragione. Si dice “ti amo” a un figlio così come a un innamorato, ma sappiamo che il primo tipo di amore è più forte dell’altro da sembrare di un diverso genere. E ancora più distinto è il tipo di amore nutrito per Dio, al quale si è chiamati da un moto di adorazione in una specie di superlativo che molte volte rivolgiamo anche alla persona amata quando crediamo di dovere esprimere un trasporto ancora maggiore dell’amore. 
Ma cos’è dunque l’amore? Si potrebbe chiudere la questione risolvendo che si tratta di una qualità ineffabile, ovvero non definibile, e prendere così in prestito la valutazione di Sant’Agostino che della lingua impronunciabile di Dio diceva che parla in maniera ineffabiliter, “senza dire”, senza definire. In realtà, provare a dire perché amiamo una persona comporta in ogni caso dare una spiegazione parziale, valendo quanto ogni persona amata pensa: “Vorrei che chi ama mi capisse, ma se mi ama non c’è ragione che mi capisca”. Indefinibile è l’amore anche quando si prova a immaginare un mondo che ne sia privo: si scopre che l’umanità si vale di altre specie di legame vocazionale e si conforma a livelli progressivamente più bassi, passando dalla gratitudine, dalla stima e dal rispetto, che implicano un certo sentimento, a ragioni che riguardano l'utilitarismo, l’opportunismo, il debito di riconoscenza nel cui fondo tuttavia agisce un surrogato minimo dell’affetto che in tutte le sue forme comunque designa una volontà sottesa a una scelta, a una preferenza. 
L’uomo ama perché sceglie? Detto che la sostanza primigenia dell’amore è la scelta operata nei confronti di qualcuno, non si ha però la risposta circa la sua reale natura, perché occorre chiedersi il motivo posto alla base di tale scelta, sperimentando ognuno di noi come la persona amata non si scelga per convenienza, semmai si sceglie la persona da amare (un tutore, un fratellastro, una matrigna), ma in tal caso mentendo a sé stessi e facendosi un carico e un torto. Alla base della scelta che facciamo della persona amata (che può essere socialmente la più riprovevole) agiscono piuttosto funzioni e pulsioni certamente non teleologiche che, come la natura dell’amore, sono misteriose. Ciò porta a ritenere che l’amore sia una costante della natura umana, cioè una legge universale di tipo apodittico. C’è in quanto c’è. Scriveva Albert Camus in Il primo uomo: «L’amore vero non è né scelta né libertà. Il cuore non è libero. È l’inevitabile». 
Per trovare una ragione di base all’amore bisogna partire dalla religione. La fede cristiana (a differenza di quella ebraica, che postula un Dio pretenzioso e severo, e quella islamica, che adora un Dio anch’esso unico, assiso come giudice asseverativo delle sue leggi piuttosto che regolatore del destino umano) è basata sull’amore divino verso gli uomini - la grazia - e si richiama alle divinità pagane greche e romane che con gli uomini dividevano anche le sorti: per modo che conosciamo una forma di amore celeste che è ancora più grande e ineffabile di quello terrestre, ancora più misterioso nella sua giustificazione. Perché Dio sente di dovere amare gli uomini se è onnipotente e può disporre delle loro vite anche a piacimento, imponendo loro regole di condotta unilaterali, a cominciare dall’obbligo di amarlo senza essere contraccambiati? Si potrebbe rispondere che Dio non ama l’umanità in quanto tale bensì come suo prossimo, ovvero come parte del proprio Creato, quindi come una emanazione (espressione dei sephirot), tanto che ama allo stesso modo – per la cura messa nella loro creazione – sia il mondo animale che quello vegetale. Si arriva per questa via a dedurre che se Dio ama gli uomini, a maggior ragione gli uomini, creati a sua somiglianza, sono dotati di amore verso i loro simili e lo stesso Dio. L’amore di cui gli uomini e gli animali sono dotati promana perciò come dono divino e frutto dell’albero della vita, è cioè appunto una proprietà naturale, insita nella natura del mondo. 
Sennonché Dio, che ama il mondo perché è una sua creazione, opera come un padre nei confronti dei figli, mentre non c’è spiegazione dell’amore che gli uomini provano per gli altri uomini (che non sono loro creature), in particolare di sesso diverso, una volta fatta la tara all’attrazione fisica. Questa, ricercando il piacere nella bellezza, determina l’impulso naturale alla riproduzione basata sul criterio di una scelta che nel mondo animale si precisa nel significato di salute fisica necessaria a garantire una procreazione che salvaguardi l’integrità di specie, fenomeno valido anche nel mondo vegetale, e che nella specie umana opera a un grado che prescinde dalla procreazione valendo invece come piacere sessuale. 
Gli uomini si amano perché attratti sentimentalmente da imperscrutabili punti di forza anche mentali e morali che nella loro sostanza non mutano al variare delle civiltà, dei luoghi, delle religioni e delle epoche e che sono fondati su affinità paradigmatiche sorrette da valori sia fisici che spirituali: ci si può allora innamorare di un malandrino con un brutto ceffo se tale individuo risponde al proprio ideale e alla propria indole. Allo stesso modo gli uomini si odiano, ma rispondendo a motivazioni perlopiù oggettive o comunque meno evanescenti di quelle per le quali si amano. 
Osserva Manzoni nei Promessi sposi che «è uno dei vantaggi di questo mondo quello di poter odiare ed essere odiati senza conoscersi». Si possono odiare, come usano oggi gli hater, persone sconosciute, ma non si può amare chi non si conosce. Si potrebbe dire allora che l’odio segue logiche meccaniche di determinismo mentre l’amore schemi quantistici di indeterminazione. E si avrebbe in qualche modo un primo risultato in vista di una possibile definizione. 
"Amor ch’a nullo amato amar perdona": Dante Alighieri indicò una definizione particolare che però ha riguardo più agli effetti che alla natura dell’amore, giacché scoprì che è impossibile a una persona amata non ricambiare l’amore verso la persona che le manifesta amore. In realtà De Clérambault avrebbe accertato una sindrome patologica nella persona che amando un’altra veda in essa segnali inesistenti di ricambio e molto prima Cervantes nel Don Chisciotte avrebbe fatto dire a Marcela di non comprendere «perché ciò che viene amato in quanto bello, per il solo fatto di essere amato debba amare chi lo ami», affermando l’infondatezza del teorema circa la necessaria corrispondenza di un amore non sentito. Nondimeno nel postulato di Dante si può vedere la straordinaria forza di cui l’amore è capace. Ma cosa sia questa forza e su quale sostanza si regga rimane una questione aperta. 
Un errore di fondo è forse linguistico: avere cioè compreso entro un unico termine accezioni molto diverse, dal momento che – come si è detto – l’amore di un padre verso il figlio non può essere accostato se non per analogia a quello di due fidanzati, né l’amore tra due amici può essere accomunato a quello di due fratelli, sebbene di due amici diciamo che si amano come fratelli. Quel che appare ancora più misterioso è il diverso amore verso un figlio o un fratello rispetto a un altro, cerchie entro le quali viene quindi operata un’ulteriore scelta spontanea ancora più sottile e non confessa né cosciente. 
La questione va forse affrontata allora in una nuova prospettiva e con altri mezzi. Partendo da un postulato: se la natura è fondata sul principio che nulla è inutile al suo funzionamento, essa ha necessariamente voluto l’esistenza di una forza così grande per dare fondamento all’armonia del mondo o meglio alla sua tenuta: come tale ricorda la materia oscura, l’elemento cosmico che tiene unito l’universo in opposizione all’energia oscura che tende invece a disgregarlo - energia oscura che corrisponderebbe all’odio. Se insomma l’amore c’è perché necessario, di conseguenza è necessario anche l’odio, così come a un protone corrisponde nella fisica naturale un neutrone: odio che nella forma di una manifestazione di volontà però manca – o sembra mancare – nel mondo animale, se si esclude il caso immaginario di Moby Dick, valendo in esso il cosiddetto istinto. 
Ma a questo punto occorre chiedersi: l’istinto che spinge un animale a manifestare quello che appare odio è lo stesso che induce gli stessi animali a esprimere amore? I cani amano i loro cuccioli e i loro padroni seguendo un istinto nel quale noi vediamo invece un sentimento di affetto? Quella allora che chiamiamo ragione, contrapposta all’istinto e propria degli uomini per distinguerli dagli animali, non può essere una forma migliorata di istinto, che ci spinge a odiare come anche ad amare secondo impulsi naturali e generali? 
L’ipotesi che l’amore possa essere, come l’odio, di tipo istintivo condurrebbe a concepire l’uomo non solo più vicino alla specie animale ma soprattutto più uniforme nei comportamenti. In sostanza come un cane, sia nell’Antico Egitto che oggi, si comporta seguendo sempre lo stesso istinto, così in amore l’uomo si dimostrerebbe di un uguale modello di comportamento generale fatto poi di tante varietà. Avremmo così che la più grande forza di cui l’uomo è dotato sia pure la più manifesta prova della sua natura animale. La teoria è suggestiva perché, nello stesso tempo, avvicina gli animali all’uomo e li fa capaci di amare e odiare nelle stesse forme elementari. E di conseguenza se fosse dunque documentato che gli animali amano operando una scelta tra i loro simili che non sia quella della migliore selezione ai fini della conservazione della specie e odiano in base a un istinto graduato, il teorema di eguaglianza sarebbe dimostrato. 
Ma sorge un’obiezione dirimente: mentre l’odio può ben essere ricondotto alla sfera dell’istintivo, dove è peraltro più consolatorio vederlo, l’amore non ha nulla che fare con il ragionevole, essendo piuttosto il suo principale antagonista. Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce, ci dice Pascal. L’uomo ama non secondo ragione ma nemmeno secondo un istinto giacché sceglie chi amare: e ciò fa non calcolando il massimo risultato in termini di selezione ma seguendo oscuri disegni del proprio animo. Paolo Coelho dice cosa non diversa: «Le persone si innamorano prima con le loro anime che si incontrano con i corpi». 
Ecco: l’animo, o l’anima. Che non è la coscienza né la volontà né l’intelletto e neppure la ragione. L’animo è l’atomo dell’amore ed è di per sé un mistero ancora più grande di cui è altrettanto ignota la natura. Ma è proprio l’animo che detta all’amore i passi da fare, così come plasma i gusti, le preferenze e appunto le scelte della vita: gusti, preferenze e scelte che sono il provento della propria formazione figlia dell’educazione empirica. Non è dunque ammissibile che l’uomo, a differenza di qualsiasi animale, sia uguale per sempre e dappertutto. Si educa ad “amare” un sapere come la musica o l’arte secondo le esperienze fatte e le conoscenze acquisite nella propria cultura e secondo i precetti della propria civiltà, dunque si arriva ad amare una persona in base agli archetipi che si sono coltivati riguardo ad aspetto fisico, carattere, modi d’essere e di fare, attitudini e interessi condivisi, tutti valori pertinenti a un tempo e a uno spazio ben delineati. Insomma l’amore è un sentimento innato ma non immutabile, perché cambia in due versi, il secondo conseguenza del primo: in base alla propria educazione sociale e in base alle proprie affinità. 
Risultato di questo teorema (che riguarda ovviamente l’amore coniugale) è che ci innamoriamo di una persona che nel nostro animo conosciamo già idealmente, secondo schemi platonici. In realtà non la scegliamo, ma la troviamo dopo averla creata virtualmente - esattamente come Dio ha creato l’umanità che ama perché sua emanazione. I “colpi di fulmine” non sono allora incontri improvvisi che ci sembrano fatali ma riconoscimenti e agnizioni. In sostanza troviamo quel che stavamo cercando, ciò che ci induce a confessare alla persona amata di conoscerla da sempre. Questa via porta a stabilire che non si possono avere tanti ritrovamenti quante sono state le ricerche perché nel nostro animo si è creato, in origine alla nostra formazione, un solo modello ideale. Ci possono però essere falsi riconoscimenti, per cui crediamo di aver “trovato l’anima gemella” rendendoci poi conto di esserci sbagliati e scoprendo in essa dissonanze rispetto al nostro archetipo, per cui ci rimettiamo alla ricerca non per cercare un secondo amore ma per trovare sempre il primo. 
Tale ricerca può durare tutta la vita e passare da errore in errore attraverso una serie di continui riconoscimenti e disconoscimenti, condizione che non dà mai la certezza di una perfetta corrispondenza dell’ectipo all’archetipo: la copia rimarrà sempre diversa dal modello, perché è realmente impossibile che una persona ricalchi perfettamente quella che vorremmo, sicché il miglior risultato possibile è quello nel quale si abbiano le minori dissonanze, stato che molte volte fa parlare di miracolo e di “amore eterno” quando in realtà non si vedano le residue difformità o la copia finisca per annebbiare il modello e prevalere su di esso. 
L’amore è allora questo: la condizione temporanea nella quale una persona vede un’altra trovandola corrispondente a quella vagheggiata. Questa temporaneità implica che si parli però di innamoramento, al di là delle definizioni date da Francesco Alberoni: finché si è innamorati di una persona è segno che il proprio modello continua ad essere soddisfatto, perché venendo meno questo soddisfacimento viene a mancare proporzionalmente anche l’innamoramento. Se ne deduce che non si possa parlare mai di amore, che richiede la definitività del riconoscimento, ciò che è impossibile se non per effetto di un vero prodigio o di un rifacimento del modello. 
Tale configurazione depone per un’altra: l’amore, essendo definitivo, involge uno stato di quiete, mentre l’innamoramento, confatto al moto e transeunte, integra uno stato di impeto e di passione, dovuto all’incessante confronto che la persona amata ci costringe a fare con il modello che abbiamo in essa riconosciuto. La durata nel tempo di tale confronto stabilisce la forza del rapporto amoroso, com’è in un rodeo: più a lungo due persone si amano, dentro o fuori una convenzione quale il matrimonio, l’unione civile, il fidanzamento o l’adulterio, e più grande si rivela il loro amore, ma solo perché i rispettivi modelli ideali continuano a scambiarsi punti di corrispondenza. Nel momento in cui, anche a distanza di molti anni, tale sovrapposizione di modelli comincia a dare segnali di corto circuito perché nascono punti di attrito, dovuti anche a processi di logoramento, ecco che l’amore entra in crisi in una o in entrambe le parti. 
Ciò può avvenire anche nel caso in cui uno dei due innamorati scopra in una terza persona elementi che meglio rispondono al proprio modello e che il più delle volte sono proprio quelli che mancano o difettano nel partner. In questo gioco di scambi possono naturalmente intervenire, come si è detto, fattori che riguardano aspetti diversi dai sentimenti, come la convenienza, l’interesse economico, il calcolo: ma siamo fuori dalla sfera dell’amore. Dentro di essa quel che avviene ha riguardo al solo archetipo ideale e personale che ci costruiamo nella fase tra l’adolescenza e la giovinezza e che non cambierà mai. Uomini che nella fanciullezza hanno imparato segretamente ad amare donne procaci, perché tale è stato al loro tempo il modello invalente di donna desiderabile, difficilmente ameranno una donna con una silhouette conforme al tipo di donna magra e col vitino da vespa che si affermerà successivamente. Allo stesso modo donne che da ragazze hanno sognato maschi muscolosi e massicci faticheranno ad accettare uomini longilinei se non adattando il proprio modello personale a quello generale venuto di moda, ma così rinunciando ad affermare un proprio progetto, col rischio di una insoddisfazione permanente e magari inconscia. 
Se allora non si ama in un’altra persona che il proprio modello ideale, in realtà non ci si innamora che sempre di sé stessi. Questa equazione, che rimanda al mito di Narciso e sottende una forma di disturbo della personalità, può essere tradotta in una comune regola di esperienza, per la quale diciamo che stiamo bene con un’altra persona verificando che in realtà stiamo bene con noi stessi. Può sembrare un paradosso, perché se stiamo bene con noi stessi è perché stiamo bene con un’altra persona, quella che appunto ci fa stare bene, ma non lo è. A farci stare bene non è l’altra persona in quanto tale, ma l’opera di controllo che facciamo in ogni momento del funzionamento del rapporto di scambio di energia tra il suo modello archetipico in risposta al nostro e viceversa. Stiamo bene perché quello che facciamo e vediamo fare è proprio quello che vogliamo, cosa che ci fa sentire in salute, non solo mentale ma anche corporale, perché è il nostro modello a funzionare e a trasmetterci segnali di benessere o meglio di tranquillizzazione circa il suo funzionamento.
Ecco allora cos’è forse l’amore: una forza molto grande che regola in forma oscura i meccanismi più profondi del nostro animo, l’unica che si serva senza renderci coscienti delle scienze morali: al punto che il proprio ideale d’amore può essere ispirato a un personaggio romanzesco e che, avendolo incontrato da ragazzi in un libro, per tutta la vita non si faccia che cercarlo nella realtà. Questo sì un paradosso. Ma del resto, non ci innamoriamo sempre di un nostro ideale, di una idea inesistente nella realtà e che ricreiamo nella nostra officina interiore per renderla vera?