A Montichiari, nel Bresciano, il primario del Pronto soccorso è stato arrestato con l’accusa di omicidio volontario per avere somministrato a due pazienti di 61 e 80 anni farmaci letali nell’evidente intento di procurarne deliberatamente la morte. Era marzo e l’ospedale meta di affetti da coronavirus. La “soluzione finale” per alleggerire il traffico di ricoverati fu trovata dal primario di prima istanza nello sfoltimento degli assistiti: secondo criteri che la magistratura è chiamata ad accertare e che probabilmente possono essere stati del tutto casuali, affidati cioè ad aberranti logiche di decimazione.
Lo spettro più volte paventato in primavera che fosse necessario decidere chi curare e chi no, dividendo i contagiati tra sommersi e salvati, si è dunque già materializzato e ha fatto le sue vittime (due accertate al momento) quando pensavamo che se ne parlasse solo nei modi di discussioni da talk show e in termini di extrema ratio a indicare la drammaticità dell’emergenza. Invece si sono avuti medici che hanno fatto ricorso proprio a questi mezzi per svuotare le corsie operando perciò in tutta coscienza e lucidità. Il primario arrestato, Carlo Mosca, agì con tale determinazione al punto da non trascrivere i farmaci somministrati nelle cartelle cliniche dei pazienti segnati, tradendo così il proposito non di curarli ma di ucciderli con medicine capaci di provocare crisi respiratorie esiziali.
Non dunque un raccapricciante dibattito teoretico ma una pratica che certo non si sarà limitata a due casi e non avrà solo riguardato Montichiari quella che risolleva adesso una questione etica che si avrebbe paura pure ad affrontare, tanta è l’abiezione che suscita. A Montichiari si è ordito di destinare alla morte individui di età diverse ma con patologie certamente gravi e difficilmente curabili, realizzando la condizione sufficiente perché energie e mezzi non fossero inutilmente impiegati essendo più utili su altri pazienti. Eppure un simile piano quanto mai cinico appare nello stesso tempo fondato e oggettivamente comprensibile. Risponde al principio di Gombrowicz, il pensatore polacco che teorizzò l’impossibilità di un’operazione in presenza di troppi fattori, raccontando di un uomo che sulla spiaggia vede una tartaruga rovesciata e per non farla morire la rivolta sulle zampe e così fa con molte altre fino a quando scopre che tutta la spiaggia è piena di testuggini morenti e va via.
L’idea che “ad impossibilia nemo tenetur” ha certamente ispirato la condotta del primario in manette, in qualche modo giustificandolo, e trova applicazione anche nel Codice di navigazione che, in caso di naufragio, mette obbligo di salvare i viaggiatori scegliendo prima gli anziani, le donne e i bambini. Il principio di selezione lo ritroviamo poi proprio a proposito del Covid quanto alla somministrazione dei vaccini, regolata secondo un preciso ordine di preferenze e precedenze che può anche significare assicurare a uno la vita e a un altro la morte.
Abbattere un capo di bestiame infetto per salvare la mandria è regola accettata che può legalmente essere estesa, in determinate contingenze, anche agli uomini nel caso per esempio di un aereo civile in mano a terroristi che puntino a farlo precipitare su un centro cittadino. Ma si è avuta una situazione analoga a Montichiari? Due persone sono state messe a morte per salvarne altre o piuttosto perché lo staff medico potesse operare con maggiore successo e agio in un ospedale meno costipato di malati? In questo secondo caso lo scopo di salvare più vite sacrificandone alcune viene perseguito non come effetto diretto ma come frutto di un’azione terapeutica il cui risultato non è conseguenza naturale e certa del ridimensionamento degli interventi necessari, essendo invece l’azione stessa legata alla sua capacità, potendosi avere medici e strutture in grado di soccorrere un numero di pazienti apparentemente ingestibile benché molto elevato.
Avere ridotto i casi clinici può aver favorito la risoluzione di altri per i quali non ci sarebbe stato tempo di intervenire, ma averli ridotti decretando anzitempo la probabile morte dei pazienti porta a supporre un’inadeguatezza delle strutture sanitarie e un’incapacità del suo personale medico e paramedico e non già uno stato di impossibilità sopravvenuta, giacché inadeguatezza e incapacità sono ammesse e riconosciute come certe dal personale col mettere in essere una funesta strategia solo presuntivamente ineluttabile. Vale quanto è prassi nel campo dei prelievi di cuore, per i quali la normativa vuole che siano espiantati solo se ancora battenti, per modo che viene supposto, anticipato a deciso un decesso che però non si è ancora avuto realmente. L’aberrazione di cui si è reso artefice il primario bresciano non è allora che il precipitato di una cultura che da un lato sacralizza la vita e da un altro la rende sacrificabile, strumento di fini arbitrariamente ancora più sacri.