martedì 14 settembre 2021

A Caminito un Campiello piccolo piccolo

 


Articolo uscito su Pangea il 13 settembre 2021


Se premi come il Campiello vanno a romanzi del tipo L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito si incoraggia un gusto per il tema “miseria e società”, con variazioni su “giovani e sfigati”, al quale Elena Ferrante ha prestato l’ultimo aggiornamento colmando la misura. E proprio a L’amica geniale, il romanzo più noto della Ferrante, si è rifatta la Caminito proponendo una coppia di adolescenti, Gaya e Iris, che fin troppo ricorda Lila ed Elena e da vicino richiama stilemi neorealistici che confondono il mainstream del Postnovecentismo cui siamo giunti, perché contraddicono una stagione che, risolti i conti con l’immaginifico, reinterpreta sì la realtà, ma non imbevuta nell’infelicità. Oggi invalgono il thriller, il giallo, il romanzo storico alla Auci che tutt’al più concedono all’interiorizzazione il solo malmostoso. Invece l’annata letteraria è stata celebrata ai massimi livelli nazionali sull’altare dello scontento quale spirito del tempo.
A confermare questa deriva vale l’assegnazione dello Strega a un romanzo, Due vite di Emanuele Trevi (peraltro non un romanzo, ma una doppia biografia cominciata nei modi di Erodoto intrecciando storie e proseguita in quelli di Plutarco rendendo parallele e autonome le vicende umane), che condivide con il titolo Campiello una insistita propensione a rappresentare l’agro della vita e una tecnica narrativa che si serve non solo della prima persona e del presente storico ma assume anche uno sguardo ombelicale e una povertà di contenuti che nulla hanno della pura invenzione letteraria e molto invece dell’esperienza personale, diretta o indiretta, tali da far pensare seriamente a una nuova glaciazione neorealista e alla tendenza postbellica che Savinio fissava nell’imperativo “Raccontate uomini la vostra storia”. Non pubblica stavolta, ma privata.
Trevi e Caminito hanno fatto proprio questo: il primo sciorinando più di sé che di Rocco Carbone e Pia Pera, sortendo in realtà non due ma tre vite; la seconda evocando la sua Roma fin nei dettagli topografici e confessando alla fine una propria trasposizione nella figura di Gaya, la protagonista. E se nel premio Strega manca una qualsivoglia trama che possa far parlare di narrativa, ancorché la letteratura ci sia tutta – e anche magistralmente esercitata – nel premio Campiello la trama risponde a un risaputo canovaccio ed è resa a un grado zero di letterarietà entro lo schema di un lessico tentato dal parlato che è tipico di una scrittrice solo trentatreenne in cerca di forme stilistiche nuove che però non ha trovato se non in una punteggiatura stocastica e nell’elisione, alla Saramago o alla Baricco, delle virgolette, fonte di inesplicabile confusione, e nell’abbondanza di polisindeti, reiterazioni, pleonasmi ed elencazioni che rasentano lo stucchevole.
Quanto al contenuto, l’ossessiva ricerca della metafora (che se eliminata del tutto avrebbe reso un enorme beneficio al romanzo) l’ha portata a concepire immagini al limite del risibile, come quella del faretto che cade sul palcoscenico e invece di fare luce vuole fare il protagonista o l’altra del piccolo Mariano che, smarrito nella casa nuova, cerca la Via Lattea e la scaletta con cui salire sulla navicella spaziale, oppure non sa riconoscere il vero padre nella folla “né cercarlo sotto Natale per gli auguri di rito”, lo stesso Mariano che per via del naso lungo “se dice sì affetta il pane e se dice no sparecchia”: impotenza narrativa che, sommata a rovesci sintattici, grammaticali e semantici a getto continuo (“se l’è comprato”, “faremo in bicicletta tutto il perimetro del lago”, “mia madre fa una smorfia, che ha pensato e ripensato”, “impartisce ordine nei cassetti”, “il riserbo che si deve ai defunti”, “la stazione del treno a cui scendo”, “nuoto nell’acqua sterile”, “non mette la freccia”, “sulla sua faccia pareva scoppiato un meteorite”, “sa perfettamente chi veda e dove sia”), non le ha tuttavia precluso il Campiello. Né le hanno nuociuto esilaranti strafalcioni come quello del carabiniere che dice a Gaya e all’amica “Solo per tua madre non vi porto in questura” o l’altro della madre che stacca “il telefono che così dava occupato” e non libero o ancora, irresistibile, “Noi restiamo come satelliti e loro restano fermi, sono l’universo e i nostri pianeti”, che per la Caminito evidentemente sono immobili.
Se dunque il Campiello finisce a un libro simile - lo stile elementare e la trama un cliché - è segno che il livello della nostra narrativa è proprio basso. Non depone diversamente lo Strega, assegnato non ad un romanzo ma a una biografia testimoniale e confessionale commista a un saggio critico, che si salva per la raffinatezza dello stile, tuttavia non costante né sempre sorvegliato, ma si perde nell’idea di commemorare due autori del tutto minori, dimenticati e infelici, magnificandone con enfasi l’incerta attività letteraria.
Giulia Caminito ha fatto ben di più: ha preso l’esausto modello del dramma sociale e lo ha innestato su un dramma intimo e familiare facendo della fabula una tranche de vie e lasciando spazio anche al romanzo di formazione nella figura di Gaya: non sortendo alcunché di originale, ma rimestando vecchie maniere ed esercitandosi in un romanzo circolare, fatto di analessi improvvise e immotivate, salti temporali anacronici, scene ad episodi e bozzetti; fatto anche di evidenti assurdità: la dodicenne che al tiro a segno, non avendo mai sparato, colpisce tutti i bersagli e vince; più grandetta sta per uccidere un’amica e finisce per avere riconosciuta ragione, incendia villette di ricconi senza che ci sia una sola telecamera, picchia ragazzi grandi e grossi che reagiscono bofonchiando, ha una madre misirizzi che manifesta più problemi psichiatrici di lei e insomma vive un’adolescenza che non si capisce perché la renda così cattiva e ostile solo perché povera.
Il modello più esplicito di riferimento, tolto qualche vago richiamo a Calvino, è Stoner di John Williams, l’uomo che si rende estraneo alla vita, ma la Gaya di Caminito è una ragazzina schizofrenica che ha bisogno solo di buone cure, mentre diventa un’eroina di borgata che è inspiegabile come possa ottenere ottimi profitti a scuola, studiare Heidegger e comportarsi poi come una teppista.
L’improbabilità regge un romanzo sbagliato sin dal titolo (quando il titolo era nel romanzo stesso, in una felice frase dell’autrice: “la grotta dei nostri cristalli”, a indicare fragilità recluse e nascoste) perché il lago è un eccipiente esornativo e non un topos del romanzo, che piuttosto si intrama tra borgate di Roma e paesini della provincia, e perché il concetto antifrastico del lago amaro, elemento che suppone una Peyton Place in Anguillara Sabazia e dunque una narrazione oggettiva, non legittima il racconto in prima persona che dirotta ogni sguardo sull’io narrante e sulla sua circostanza. Del resto molte volte quel lago di Bracciano che fa solo da testimone cieco ai fatti da muretto di una gioventù più scottata dalle troppe estati che bruciata dal mal di vivere si rivela decisamente di acqua dolce, se proprio lì Gaya e i suoi amici vivono i loro momenti migliori e si ritrovano intenzionalmente come in un cantuccio appunto per smaltire le scorie della malaccetta quotidianità.
I personaggi, a cominciare dalla stessa Gaya, sono opachi, indistinti, difficili da vedere e più ancora sgradevoli da guardare: colpa del fatto che si richiamano l’un l’altro, sicché Andrea sembra il doppio di Cristiano o Luciano, Orso è indistinguibile dal Greco, Iris è come Elena, Gaya li sintetizza tutti e finisce per non distinguersi da nessuno. Non ci sono adulti, se si esclude il padre di Gaya, paralitico, e la madre, più riguardata però da ragazza che da donna. Ne sortisce un romanzo giovanilista chiuso entro una precisa età, tant’è che termina non con un epilogo diegetico ma con la fine della giovinezza, il superamento della linea d’ombra. La trama potrebbe essere riassunta in due parole: una bambina cresce in una famiglia povera che da Roma si trasferisce ad Anguillara dove, come tutti i ragazzini del mondo, conosce compagni con i quali bisticcia, fa pace, litiga di nuovo, va a scuola e al pub, si gode i primi baci, mentre qualche compagnetta si suicida senza motivo e qualche altra muore di una misteriosa malattia. Poi la bambina cresce e il romanzo finisce.
Buono per conoscere i dintorni di Bracciano e la zona nord di Roma, L’acqua del lago non è mai dolce è uguale a Due vite di Trevi, utile per riscoprire due autori rimossi: prove rimemoriali e autoreferenziali, di tipo geografico la prima e storico la seconda, che pretestano la narrativa non per raccontare storie, possibilmente di invenzione, ma per scaricare la coscienza. Trevi ammette di aver voluto sanare un rimorso e Caminito rivela che i luoghi del romanzo sono i suoi e sue sono alcune vicissitudini della protagonista. Il malanimo domina l’uno e l’altro libro e viene fatto di pensare che l’estro di entrambi sia il distillato di un tempo posto sotto la cappa della pandemia e che perciò Strega e Campiello abbiano voluto premiare una certa Weltanschauung come tributo al dolore del mondo. Se è così, l’alloro all’infelicità è stato ben conferito e meritato.