Quando nel 1763 scrive all’abate Jean-Antoine Nollet, autorità assoluta in materia di elettrologia, per avanzare – ma poi rigettando – la possibilità che possano essere richiamate nella ricerca sull’elettricità concezioni newtoniane, Alessandro Volta ha appena diciotto anni, studia da autodidatta (tanto che non prenderà mai alcuna laurea) e non vuole sentire parlare di diventare avvocato né tantomeno prete, interessandogli unicamente i fenomeni fisici: al punto che a dodici anni è stato quasi per annegare in una fonte d’acqua del Comasco per cercare una vena d’oro data per certa dai contadini. La stessa foga lo spinge nel 1765 a scrivere addirittura a padre Giovan Battista Beccaria, lo studioso torinese quasi cinquantenne considerato l’indiscusso e intoccabile numero uno, ammiratissimo anche da Franklin, prossimo a entrare nella Royal Society e già dal 1748 docente a Torino di Fisica per volontà di Emanuele III.
Ancorché impegnato anche nella misurazione del meridiano piemontese che nel 1774 costituirà l’argomento del suo celebrato libro Gradus taurinensis, Beccaria sorprendentemente risponde all’imberbe Volta e intrattiene con lui una corrispondenza che, custodita oggi nella Libreria dell’università di Harvard, è pressoché sconosciuta quanto al suo contenuto: per modo che la lettera inedita qui riprodotta (acquisita Oltreoceano dal giornalista siciliano Gianpiero Chirico), datata 22 giugno 1767, costituisce un documento prezioso perché dà il nerbo di un rapporto che si concluderà nel 1769 quando il ventiquattrenne Volta pubblicherà (nel latino protocollare degli ambienti eruditi) la sua prima opera, intitolata De vi attractiva ignis electrici ac phaenomenis inde pendentibus, ambiziosissima sin dal titolo e che altro non è se non una lunga “dissertatio epistolaris” (com’è chiamata) indirizzata proprio a Beccaria, del quale confuta la teoria consolidata e riconosciuta della “elettricità vindice”.
In questa lettera il giovane Alessandro è da un lato smaccatamente ossequioso, mostrandosi grato per l’attenzione che l’insigne cattedratico gli concede (giacché Beccaria lo lusinga ammettendo di aver preso in qualche considerazione le sue teorie e informandolo del proprio lavoro), mentre da un altro lato non esita, come en passant, a reiterare caparbiamente le sue tesi che suonano a sconfessione dei risultati conseguiti da Beccaria e consegnati ufficialmente al mondo accademico. E proprio quando gli si dichiara devoto, pregandolo tra mille smancerie di metterlo a parte delle future scoperte, Volta intanto sta già scrivendo il suo pamphlet che demolirà Beccaria e segnerà il suo primo grande e clamoroso successo, quello che nel 1775 lo porterà all’invenzione dell’elettroforo perpetuo, prima tappa di ulteriori e strabilianti scoperte, fra cui la pila che Einstein definirà “la base fondamentale di tutte le invenzioni moderne”.
Orgoglioso e determinato, ardimentoso e alquanto impudente, il giovane Alessandro si riflette in questo suo autografo, importante perché coincide con il momento in cui gli studi sull’elettricità stanno per essere non più esperimenti fatti per divertire i salotti con fenomeni naturali inspiegabili, ma oggetto di ricerche in vista di nuove applicazioni tecnologiche. Da Plinio il Vecchio la conoscenza è ferma alla forza attrattiva dell’ambra, eccitabile mercé lo sfregamento, finché a metà del Settecento non si hanno alcune occasionali scoperte come la “bottiglia di Leida” e soprattutto l’elettrizzazione spontanea che l’inglese Symmer osserva togliendosi le calze di seta. Da questo fenomeno padre Beccaria trae motivo per elaborare, sostituendo la seta con il vetro, il dirompente principio dell’elettricità vindice, di quella carica elettrica cioè che ogni corpo “rivendica” dopo averla perduta nel contatto con un altro.
Già dal 1753 Beccaria ha classificato i corpi in base alle proprietà elettriche, distinguendo conduttori e isolanti e chiamando “vetrosa” l’elettricità positiva e “resinosa” quella negativa: e ritiene di aver scoperto, con grande ammirazione della comunità scientifica, che due corpi della stessa proprietà perdono la loro carica entrando in contatto ma la riacquistano separandosi. Senonché il giovane Alessandro obietta - anche in questa lettera, parlando di “catene” e “machine”: epperò lo fa con modi garbatissimi e prudentissimi - che nell’esperimento dello scudo di vetro (conduttore) appoggiato su uno strato di resina (isolante), entrambi i corpi conservano, anche dopo che vengono staccati, la stessa carica elettrica originaria.
Ben prima quindi del suo “De vi”, Volta scopre in sostanza che Beccaria si sbaglia di grosso e che l’energia tende a conservarsi sempre, per cui è possibile produrla in modo appunto “perpetuo”. Dimostrerà nel suo trattato contro Beccaria, il “reverendissimo” maestro sorpassato con una manovra spericolata, che l’elettricità vindice, da lui chiamata “indeficiente”, non esiste in natura. E avrà ragione: Beccaria scomparirà infatti dalla scena (al punto che il sito web ufficiale di Volta lo confonde oggi con l’umanista Cesare) mentre il giovane Alessandro diventerà un gigante della scienza di tutti i tempi.