domenica 15 ottobre 2023

11 Settembre, Camilleri: doveva essere un'azione di polizia


Il 7 Ottobre come l’11 Settembre. La guerra israelo-palestinese, vista come reazione istituzionale contro l’offensiva terroristica scatenata da Hamas, ricorda la risposta degli Usa all’attentato di Al Qaeda a New York. Il 9 novembre 2001 intervistai su “La Sicilia” Andrea Camilleri, che vale l’occasione di rileggere per le tante, impressionanti, analogie che legano i due fatti.

Se chiedete ad Andrea Camilleri, in una sorta di gioco non della mosca ma del grillo cosa, per associazione di idee, gli fa pensare la parola guerra, lui vi risponde “distruzione”. Per forza. Era ragazzino quando a Porto Empedocle le bombe gli piovevano notte e giorno addosso e le case cadevano mentre la gente scappava. Lui correva con gli amici a soccorrere i feriti nel senso contrario alla direzione della folla e non avrebbe desiderato che essere in quel momento proprio lì. Chiedetegli invece cosa avrebbe fatto al posto di Bush e sentite cosa vi risponde: «No, guardi, mi rifiuto di pensarmi al posto di Bush e di qualunque altro capo di Stato: è come considerarmi membro di un giuria che deve condannare a morte qualcuno. Non ci sto. Quindi non riesco affatto ad immaginare cosa avrei fatto. Anche la mia fantasia di romanziere si arresta».
Va bene, ma immaginiamo che fosse dipeso da lei decidere cosa fare dopo l’attentato.
Allora senta. Bush si è trovato in una situazione non augurabile a nessuno. Al suo Paese è stata inferta una ferita gravissima: è stato abbattuto non tanto un simbolo, ciò che sarebbe nulla, quanto è stata commessa una strage di tremila persone innocenti. Ebbene, questo è un atto comunque proditorio che va deprecato con tutte le forze. Cosa deve fare, di fronte a un atto simile, un capo dello Stato? Non se n’è mai visto uno che abbia porto l’altra guancia. Ha fatto bene Bush a reagire. Il mio dissenso personale non riguarda la sua decisione di attaccare, che trovo un dovere, ma i metodi di ritorsione. Non dico che sia giusto il perdono, ma trovo che questi interventi militari si risolvono nei soliti bombardamenti su obiettivi anche civili, come si è visto – lasciando perdere le stime dei morti – con la morte di quattro dell’Onu in veste di sminatori. Chi dice che è necessario fare una guerra di questo tipo contro una nazione già stremata? I bombardamenti terrorizzano una popolazione inerme, ma non certo i talebani. L’abbiamo visto in Jugoslavia. L’abbiamo visto con Saddam Hussein. Ripetere questo giochetto è da sciocchi. E’ invece colpevole non cercare di sradicare il terrorismo con un’azione che elimini la possibilità di reclutamento di persone allo sbando o invase da una distorta lettura delle loro pagine religiose.
Quindi lei dice che l’azione di guerra andrebbe ridotta a un’azione di polizia?
Un’azione di polizia estesa a tutti i Paesi, anche il nostro. Ma di polizia. Allora sì che avrebbe avuto un altro significato la risposta all’attacco terroristico. La Marina, i Cruise, i caccia determinano sempre il coinvolgimento della popolazione civile. E dopo aver visto documentari televisivi sulla fame in Afghanistan non dormo al pensiero di appartenere a una parte di mondo che sta buttando agli afghani le bombe addosso. Questo tipo di bombardamenti minaccia di accendere una miccia inimmaginabile negli altri Paesi arabi. Eliminato Bin Laden, si elimina forse il terrorismo? Se non si ragiona in maniera meno affrettata, l’azione di guerra Usa potrebbe perpetuare la tensione. L’altro giorno leggevo un ironico articolo il cui autore diceva che l’Onu non è stato ancora capace di definire la parola terrorismo. Perché in effetti è difficile stabilire chi sono i terroristi e metterli tutti in una sola barca. Sono terroristi quelli dell’Erta, quelli dell’Ira, sono chiamati terroristi i palestinesi, è chiamato terrorista Bin Laden. Ma parliamo di realtà diversissime. Pensi solo questo: l’individuo che in anni remoti fece saltare, o quasi, l’ambasciata americana a Roma e che poi ebbe il Nobel per la pace (si chiamava Peres, un ebreo omonimo di quello attuale) apparteneva alle organizzazioni terroristiche. Basta poi ricordare cos’è stata la banda Stern. Sono diventati tutti padri della patria ed eroi nazionali. Allora capisco perché l’Onu debba perdere tanto tempo e dirci cosa dobbiamo intendere quando parliamo di terrorismo: se riuscissimo a trovare una definizione convincente, il campo d’azione sarebbe molto ristretto.
Alla fine Bin Laden è solo un terrorista più bravo degli altri?
Il più bravo e soprattutto il più pericoloso. È diventato un maestro della televisione. Anche l’attacco alle Torri è stato spettacolare nel fatto che il secondo aereo sia arrivato diciotto minuti dopo, sotto le telecamere di tutto il mondo.
Se fosse stato attaccato un grande simbolo dell’Islam, che so, la Grande moschea della Mecca, la reazione del mondo sarebbe stata uguale?
Nella percezione occidentale sarebbe stata minore, ma nel mondo islamico sarebbe stata due volte maggiore di quella che abbiamo visto per le Due Torri.
Il rischio, a questo punto, non è di trasformare tutto il mondo in un grande Israele, che ingaggia con la Palestina un rapporto continuo di ritorsioni? Bush sta facendo con Kabul quello che Tel Aviv fa ad ogni attentato palestinese.
È questo che bisogna impedire ad ogni costo. Noto una certa avventatezza. Si parla un po’ troppo. Il problema dell’Islam è un nodo grosso e serio che va studiato con una delicatezza che non hanno gli elefanti della politica.
Secondo lei è una guerra di religione quella cui assistiamo? Occidente contro Oriente?
Non è una guerra di un Dio contro un altro, ma una guerra tra istituzioni religiose. Una guerra fatta anche di mistificazioni: non è vero per esempio che il Corano inciti al suicidio e all’uccisione di donne e bambini. Anche il Vangelo è stato interpretato in forme molto rigide: basta pensare alle Crociate. Nella guerra tra Urss e Cina, Marx era uno solo, come Lenin, eppure si sono sparati nell’interpretazione non di una religione bensì di un fatto concreto, l’applicazione pratica del comunismo.
Al fondo quindi giocano interessi economici?
Secondo me sì. Io non vedo nulla in Bin Laden che mi faccia pensare a un’ispirazione religiosa.
Nessuna spinta fondamentalista?
Guardi che la Palestina Bin Laden l’ha scoperta solo l’altro ieri. Avrebbe potuto parlarne anche anni fa. Non l’ha fatto.
Da quali intenti allora è mosso?
Non lo so. Credo che sfrutti gli errori, il malumore e l’odio di popolazioni, non solo arabe, ai fini di una dissennata politica. Ma attenzione: ciò detto non significa minimamente giustificare l’attacco alle Torri. Lo diceva l’altra sera Riotta: intanto c’è stato un attacco assassino, punto: non parliamo dell’errore della politica americana.
Bin Laden dice che, per colpa degli americani, gli arabi non hanno avuto solo tremila morti ma centinaia di migliaia.
Questi conteggi di morti mi ripugnano. Allora che facciamo? Ci fermiamo solo quando avremo ammazzato seimila musulmani? O centomila? Se Bush dicesse una cosa simile tutti gli risponderemmo: “No, tu ti fermi perché sei pazzo”.
Se questa escalation crescesse dove ci porterebbe la spirale bellica?
Il fatto sa qual è? Che adoperiamo le parole in modo sbagliato. E quando usiamo parole sbagliate le conseguenze sono spaventose. Se fin dall’inizio non avessimo parlato di guerra oggi forse la guerra non ci sarebbe stata. È stato un atto terroristico spaventoso quello subito dagli Usa, non un atto di guerra.
La colpa è allora dei giornali che hanno usato per primi la parola guerra?
La colpa è dell’enfatizzazione del nostro tempo. Prenda la Borsa: “caduta libera, “il mercato vola”. Si usano termini enfatici. Ed ecco il risultato. Assistiamo a un effetto di ridondanza enorme. E peggio ancora è quando il termine guerra lo pronuncia il presidente Usa.
Quindi se l’Occidente ha parlato dal primo momento di guerra, l’Oriente si è visto costretto a parlare di “guerra santa”.
Esatto. Un grande equivoco. Invece bisognava avere i nervi saldi, cosa non facile per niente. Bush doveva dire: “Guardate che questa è un’azione di polizia, vasta sì, ma senza soldati”. Ha sbagliato.
Eppure è bellissima l’immagine di Bush che, avvertito per due volte dei successivi attacchi alle Torri, continua a parlare agli alunni di libri di testo. Una bella prova di tenuta di nervi, un bel gesto di rassicurazione.
Posso fare tutte le critiche a Bush e le faccio, ma non auguro a nessuno di trovarsi al suo posto in un momento simile. E devo dire che sono stato sempre molto critico nei confronti degli Usa, ma ho ammirato il lungo periodo di attesa prima dell’attacco.
Lei una volta ha detto che non vede “negli Usa il vero Paese della libertà”. È antiamericano al fondo?
Io sono un fan di Faulkner: lo leggo, lo rileggo, lo studio. Di cosa parla Faulkner se non degli Stati Uniti? Come si fa a non volere bene a un Paese al quale si deve tanto?
Ma è un Paese in figura di una donna che se è stata molto amata viene anche molto odiata. C’è molto sentimento antiamericano in giro.
Me la devono spiegare questa avversione a priori. Io la provo solo congiunturalmente.
Beh, una certa vocazione imperialista e da padrone della giostra l’America l’ha sempre avuta.
Oggi è la nazione più potente del mondo.
Il problema è che questa potenza la ostenta un po’ troppo.
È inevitabile. Io pensavo nella mia illusione, non come fatto antiamericano ma come motivo di bilanciamento degli equilibri, che l’Europa potesse avere un suo peso politico. E invece così non è stato.
Gli americani disconoscono la legittimità dell’Europa ad avere voce in capitolo, dice?
No. Siamo noi europei che abbiamo una voce flebile. La verità è che se crolla il dollaro l’euro va a picco. È inutile: sono i pesi economici che determinano il potere di una nazione fino a questo punto.
Anche l’Opec potrebbe dire la sua. Potrebbe per esempio negare il petrolio all’Occidente.
Ma non lo farà mai per motivi di profitto. Non stiamo parlando di santi, ma di ricche famiglie che hanno ben altri interessi che quello di sostenere una guerra santa.
È fantasiosa l’ipotesi di una coalizione panaraba contro l’Occidente?
Se gli americani estendono il conflitto sarà inevitabile che ciò accada. Sa, mi ha molto incoraggiato – e mi dispiace dirlo perché non sono credente – il viaggio del Papa. L’ho visto come un gestro straordinario, un tentativo estremo di salvare il salvabile.
Ha letto l’articolo della Fallaci che afferma il primato della civiltà occidentale su quella orientale e che non rinuncerebbe mai ai piaceri del nostro mondo per aderire a pratiche medievali?
Ho letto solo le prime righe. Poi il sovratono mi ha maldisposto per cui non ho più continuato a leggere. Ma debbo dire che non credo che la cultura si mostri in una donna che porta il velo o no. Gli usi e i costumi cambiano anche con la storia. Pensi a cosa sarebbe stata la Turchia senza la secolarizzazione: avremmo avuto un altro stato islamico legato alla dottrina del Corano.
Già. Io e lei, se le cose in Sicilia fossero andate un tantino diversamente, oggi parleremmo arabo e staremmo dalla parte di un’altra causa.
Ma sa, non mi dispiace per niente che nella storia della letteratura araba ci sia un capitolo dedicato ai poeti arabi in Sicilia.
Se c’è dunque una popolazione che può comprendere quella araba questa è quella siciliana?
Le devio raccontare quanto mi è successo una quindicina di anni fa e la prego di credermi. Mi sono sentito sempre un po’ straniero fuori dalla Sicilia. Eppure quando mi sono trovato per la prima volta al Cairo mi è capitato che, non avendo sonno, mi sono messo di notte a passeggiare per la città. Alle due del mattino ho chiamato mia moglie che mi ha chiesto come mi trovassi. Non so da dove mi è venuto di rispondere che mi sentivo a casa. Era un mondo che non conoscevo, che mi veniva fuori dal mio Dna. Ogni volta che sono tornato al Cairo ho sempre avuto la stessa sensazione.
Quindi è vero che noi siciliani abbiamo sangue arabo pronto a risvegliarsi.
È vero. E forse proprio noi siciliani potremmo svolgere un ruolo importante, almeno nei rapporti tra persona e persona e non politicamente. Ci sono tanti immigrati arabi in Sicilia. Parliamo loro. Avviciniamoli. Cerchiamo di capirli.
Lei come combatterebbe il terrorismo?
Se parliamo di Bin Laden, bisogna arrestarlo e fargli terra bruciata attorno come fu fatto con il bandito Giuliano. Se parliamo della Palestina, occorre procedere con dei riconoscimenti, come sta facendo Bush. Per ogni fenomeno di terrorismo è necessario accertarne le finalità e scoprire cosa lo anima., La generalizzazione della parola ci impedisce di individuare il terrorismo che noi vorremmo combattere.
A suo parere c’è ragione di preoccuparsi?
Sinceramente non credo che si arriverà a conseguenze catastrofiche. Credo che a un certo punto prevarrà il buonsenso. Personalmente non riesco a considerare nemici gli afghani. E non riesco a considerare tali né i talebani né i mujaheddin. Io vedo come la punta di un iceberg, ma non so se sotto c’è tutto il ghiaccio che deve avere un iceberg o se è una punta violenta. Bin Laden è un terrorista protetto da un partito che è attualmente al potere ed è chiaro che gli altri partiti, i mujaheddin o i monarchici, sono contrari. Perché identificare Bin Laden con tutto l’Afghanistan come si sta facendo?
Sarebbe peraltro sostituito subito.
Non c’è dubbio. LI ha già fatti vedre in televisione i suoi successori. “Ecco chi siamo”, sembra aver voluto dire.
Cosa gliene sembra della richiesta Usa a Kabul di consegnarlo?
Non si può dire ai talebani “Dammi l’ospite che tieni in casa”. Pesa molto. Come si fa? Questo significa partire col piede sbagliato.
Perché Bin Laden più si mostra e più piace? Replica quasi la sindrome di Garibaldi. Anche lui era in fondo un terrorista. Che piaceva.
E certo. Dire alle televisioni di non farlo vedere significa riconoscere che ha un potere di fascinazione, malefico certamente. Bin Laden esercita il fascino del cattivo, che piace sempre. Hanno fatto benissimo a chiedere l’oscuramento della sua immagine.
Cosa gli direbbe se gli potesse parlare?
Non mi auguro di potergli parlare.
Teme per la pelle?
No. Temo di sentirmi a disagio di fronte a uno che gioisce per la morte di tremila persone. Gli chiederei solo una cosa, pregandolo di essere onesto davanti al suo Dio, se ci crede, cosa che dubito: perché?
Perché l’ha fatto?
Sì, perché? Vede, Brigate rosse, palestinesi, terroristi dell’Eta sappiamo cosa vogliono. Ma Bin Laden cosa vuole? Della Palestina non gli importa niente. Della religione ancora meno. E nulla gli interessa degli afghani che muoiono di fame. E allora perché fa il terrorista?
Per un suo ideale antioccidentale magari. Pensi ai terroristi kamikaze. Ce ne sono a migliaia, mentre non si troverebbe un solo occidentale pronto a morire per un ideale. Lo riterremmo, semmai si trovasse, un folle. Cosa pensa di loro?
Sono persone difficili da giudicare, perché ripongono una totale fede in ciò che fanno, a differenza di noi occidentali. Bisogna imparare a comprendere i popoli, altrimenti succede che uno si fa saltare in aria e noi ci chiediamo perché. Gide fa dire a un giovane arabo della fine dell’Ottocento: “La vostra è una civiltà superiore, ma avete un punto debole: avete paura della morte”.