Alla fine di ottobre 1995, in occasione del cinquantesimo anniversario del quotidiano “La Sicilia” (dove lavoravo come responsabile della redazione di Ragusa), Gesualdo Bufalino mi concesse, otto mesi prima di morire, un’intervista per un volume celebrativo del giornale, a patto che gli facessi leggere la trascrizione prima di pubblicarla, perché destinata a rimanere nel tempo, uscendo in un libro. Il dattiloscritto che conservo con le sue correzioni a mano rivela uno scrittore contrario a indossare il laticlavio di grande autore della letteratura siciliana, ma anche il professore intento a correggere un compito.
Il mio testo originario iniziava così: “La letteratura siciliana del Secondo dopoguerra può dividersi in tre grandi stagioni ognuna delle quali riconducibile a un autore segnatempo: Vittorini, Sciascia e Bufalino. Ciascuno di essi designa tre gusti letterari, tre modi diversi di intendere le lettere, di interpretare il ruolo degli intellettuali e in definitiva di essere siciliani. Girandosi indietro, quel che si vede è il neorealismo vittoriniano da un lato, il decadentismo bufaliniano dall’altro e in mezzo l’irripetibile magistero illuminista, affatto siciliano, di Sciascia”.
Bufalino annotò a margine “cambiare inizio”, quindi cancellò il proprio nome proponendo con un punto interrogativo quello di Lampedusa. Il testo, qui riprodotto in calce, con le sue risposte appare poi punteggiato di numerose chiose, modifiche, aggiunte e suggerimenti del tipo “Eventualmente togliere domanda e risposta”, nel segno di un rigore che gli fu decisamente proprio. Modificai l’inizio e apportai le sue mende, ma non gli feci avere il testo definitivo, né lui me lo chiese. Non poteva sapere che, con quell’intervista, una delle ultime, qui ripubblicata integralmente così come apparve in volume, rendeva un testamento spirituale e offriva una preziosa lezione di letteratura.
La letteratura siciliana del secondo dopoguerra può dividersi in tante stagioni ognuna delle quali riconducibile a un autore segnatempo: Vittorini, Lampedusa, Brancati, Sciascia, Bufalino. Ciascuno di essi designa altrettanti gusti letterari, modi diversi di intendere le lettere, di interpretare il ruolo degli intellettuali e in definitiva di essere siciliani. Girandosi indietro, quel che soprattutto si vede sono due grandi tendenze, quella neorealista e quella decadentista, con in mezzo il grande magistero illuminista di Sciascia. Ma, echeggiando Croce, Gesualdo Bufalino rifiuta la divisione in correnti della letteratura, ancor più se siciliana. E sul ciglio del secolo che muore riflette sui nostri ultimi cinquant’anni, riconsidera la Sicilia, ripensa i suoi scrittori.
Allora, si può pensare a una Sicilia letteraria fatta di due grandi tendenze, una neorealista e l’altra decadentista?
Non farei una distinzione così netta, perché il Neorealismo, a parte certi esiti scolastici all’insegna della moda lucacciana, non credo trovi rispondenza in Sicilia, dove si mostra sempre variegato e intriso di elementi allotri, persino decadenti. È vero che alle nostre spalle abbiamo la grandissima lezione del realismo verghiano, ma è anche vero che uno Sciascia (figura centrale, carismatica e dinamica del nostro dopoguerra) non credo possa essere fatto rientrare nel Neorealismo, quantunque nelle sue iniziali intenzioni possa aver agito il desiderio di una prosa magra, aderente alla realtà quotidiana. Ma è anche vero che nel momento stesso in cui scrive Le parrocchie di Regalpetra e si accosta alla realtà degli zolfatari, della mafia e della miseria giornaliera, Sciascia adopera un lessico reinventato sulla scorta di letture classicheggianti e con l’orecchio alla musica della prosa d’arte. La distinzione può allora valere volgendo l’occhio al Decadentismo, parola però immensa e onnicomprensiva.
Epperò, nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino indica nel triangolo formato da Verga, Vittorini e Pavese le scaturigini del Neorealismo, che diverrebbe così opera di due siciliani.
Secondo me è una lettura approssimativa, suggestionata da quella che è stata l’esperienza politica e ideologica di Calvino. Tant’è che quella prefazione è proprio nel libro ritenuto più vicino all’esperienza neorealista. Calvino si staccherà presto dal Neorealismo non solo attraverso la trilogia fantastico-grottesca de I nostri antenati, ma soprattutto con gli ultimi libri, che presteranno orecchio a influssi decisamente remoti: da un lato alla scuola francese del gioco, cui appartiene Queneau, amicissimo di Calvino, che scrive libri con i quali smonta il romanzo dal suo interno, e dall’altro a Borges, che figura tra gli autori di capezzale di Sciascia.
Cosicché Vittorini non può dirsi uno dei padri del Neorealismo.
Si può parlare di neorealismo vittoriniano nel senso del suo credo politico, della sua azione meritoria svolta con Il Politecnico, della sua battaglia ininterrotta a favore di certi valori reali con nell’orecchio la grande lezione dei realismi americani; Steinbeck, Hemingway…
Ma più ancora Melville, Hawthorne.
Già. Melville e Hawthorne sono presenti in Vittorini forse più dello stesso Hemingway: l’uno per il suo forte sentimento dell’epopea e la metafora del viaggio alle radici dell’uomo; l’altro per i temi del male, della colpa, del dolore dell’uomo. Vero è comunque che l’autore americano che forse più d’ogni altro può considerarsi modello occulto di Vittorini è un minore: William Saroyan. In ogni caso a negare fondamento alla vocazione neorealista di Vittorini basta Conversazione in Sicilia.
Che insieme con Paesi tuoi e I Malavoglia è proprio il libro che compone il famoso “triangolo” di Calvino.
Conversazione (e più ancora Le città del mondo, che è l’incompiuto capolavoro di Vittorini) ha poco di realistico, ma denunzia l’invincibile vocazione al mito che era propria dell’autore. Gli stessi temi del dolore del mondo e della giustizia offesa, che paiono temi apocalittici o comunque morali, respirano in un’aria di stupore metafisico e di magia. Un’aria comune a molti siciliani, benché sia improprio nei nostri riguardi parlare di geografia della letteratura. Voglio dire che sebbene molti scrittori siano siciliani, nel senso che si vede e si sente che sono siciliani, non per questo sono scrittori meno europei. Anzi direi che il carattere europeo spesso prevale su quello siciliano.
Concorda nel ritenere che come Il Gattopardo mette fine al Neorealismo, così Vittorini contribuisce a mettere fine al crocianesimo?
Posso accettarlo. Ma penso che gli schemi siano panni che stanno stretti a qualsiasi letteratura e soprattutto a quella siciliana. Sono convinto che il Neorealismo sia esistito assai più sullo schermo che nella pagina scritta. Il Gattopardo rimane quindi un monolite imparagonabile, il cui merito sta nell’aver reintrodotto un gusto del narrare che pareva dimenticato. Se però vogliamo trovare qualcuno che abbia offerto una lezione a ciascun siciliano che scriva, questi è Verga. È lui, di fatto, ad affrontare e risolvere in un modo non ripetibile il problema della lingua, così cruciale per noi. Non c’è scrittore siciliano che, scrivendo in italiano, non abbia l’impressione di scrivere in una lingua straniera e non si ponga un problema di scelte lessicali drammatico. Io, per quanto mi riguarda, ho scelto il lessico alto perché a un certo punto mi è parso che in quello d’uso non sarei riuscito a rendere i dialoghi con la naturalezza necessaria. Consolo si è creato un uni verso linguistico suo particolare, così come ha fatto D’Arrigo. Lo stesso Sciascia si è inventato una lingua che non è il parlato italiano colto, ma una specie di prosa asciutta, coltivata un po’ sull’esempio rondista e un po’ sui grandi classici italiani e francesi quali potevano essere Guicciardini e Montaigne. Il problema del lessico è sentito anche da Pirandello, che sul dialetto girgentano presenta la sua tesi di laurea.
Pirandello ha esercitato la stessa influenza di Verga?
Anche di più. Al punto che, mentre Verga opera alla soluzione del problema del linguaggio, è proprio Pirandello il padre degli scrittori siciliani per quanto riguarda l’ispirazione e l’esemplificazione dei sentimenti. È in lui che risuona quella “ilarotragedia”, per dirla con Manganelli, che è il sottofondo comune di tanta letteratura siciliana. Cioè un grottesco acido intriso d’angoscia, dove si mette in discussione la credibilità dell’esistente. Questo connotato arriva a Pirandello attraverso tramiti ereditari di sangue e di cielo, da Gorgia da Lentini, così come dal suo conterraneo Empedocle gli arriva il senso della distruzione del mondo, delle apparenze e della moltiplicazione degli esseri. Sono motivi che vengono messi in circolo nel sangue della letteratura siciliana, cosicché alla grande quercia pirandelliana si aggrappa anche Sciascia che ne ripete il razionalismo più sofistico. Solo in apparenza Sciascia è infatti apostolo d’un razionalismo alla francese, quello illuministico. In realtà dentro di lui lavora l’azione pirandelliana, sospesa tra razionalismo e irrazionalismo, nel senso di una ragione che si fa sofisma perché portata alla sua estrema conseguenza. Pirandello arriva a conclusioni paradossali partendo da presupposti razionali. Sciascia parte invece da premesse cartesiane e poco alla volta finisce per esasperare la sua ricerca: vedi Il caso Majorana e L’affaire Moro, dove l’investigazione della verità diventa da un lato così ossessiva e da un altro così capziosa da fare pensare che l’autore sia innamorato più dell’indagine che della verità stessa. E questo viene a Sciascia proprio da Pirandello.
E Brancati?
Brancati è un altro figlio di Pirandello sul versante più ilare, sul quale ritroviamo Eronda e Teocrito il mimico. Brancati appartiene alla Sicilia orientale, il che non è privo di significato. La Sicilia ha mille facce e l’eredità greca e quella araba sono diversamente distribuite. A differenza di Pirandello in cui il riso risulta più stridulo, più amaro e finisce con l’assumere quasi la cadenza e la musica di un singhiozzo, in Brancati il riso è disincanto, è divertito. Il padre insomma è Pirandello ed è da lui che promanano da un lato il riso di Brancati e dall’altro il rictus, la smorfia dolente, di Sciascia.
Nel ’57 esce Le parrocchie di Regalpetra, una forma di romanzo-saggio con cui Sciascia giudica i fatti e li reinterpreta. Siamo fuori dal Neorealismo e in presenza di una grande novità.
Una novità che però non ha sèguito. Sciascia non ha avuto eredi.
Nel ’58 esce Il Gattopardo e nel ’59 Quasimodo ottiene il Nobel.
Ma Quasimodo verrà presto sottovalutato.
Nel senso che l’avrà avuta vinta alla fine Montale?
Su questo non ho mai avuto dubbi. Anche se Montale viene oggi da certi critici sottostimato. Uno che va per la maggiore come Raboni gli antepone, per esempio, Clemente Rebora.
Allora Quasimodo è da ridimensionare?
Quasimodo è un poeta notevole, ma con dei limiti che si manifestano quando, scegliendo l’impegno, si mostra molto corrivo.
Da ermetico diventa, subito dopo la guerra, impegnato e interviene per chiamare i poeti a schierarsi, sostenendo che la posizione del poeta è nella società. Viene detto “il poeta civile”.
C’è un momento in cui, finitala guerra, si afferma sull’esempio sartriano il concetto del poeta al servizio del popolo, del poeta utile contro il poeta inutile. Tutti si sentono poeti utili e vogliono esserlo. Chi non si schiera è perduto.
In realtà si schierano politicamente i maggiori intellettuali siciliani: da Quasimodo a Guttuso a Vittorini allo stesso Sciascia, tutti si attestano su posizioni filocomuniste.
Sono tutte persone della mia generazione, per cui mi sento di poter portare la mia testimonianza. Vede, per uno come me, nato nel 1920 e vissuto per vent’anni sotto il regime fascista, senza nessuno spiraglio esterno di verità e giustizia diverse da quelle che mi venivano inculcate, il concetto di patria era facile e contagioso. La guerra abissina fu sentita da tutta l’Italia come una specie di Risorgimento. Non dobbiamo dimenticare che la carta geografica del mondo era allora divisa in due grandi zone di colore: il marrone erano le colonie francesi e il rosa quelle inglesi; entrambe occupavano i quattro quinti del globo. Si aggiunga che ci raccontavano la prima guerra mondiale nel senso dannunziano di una vittoria mutilata. Non sapevamo nulla dell’Alto Adige, popolato più da tedeschi che da italiani, ma sapevamo che la Dalmazia, abitata da italiani, ci era stata usurpata ponendoci, sebbene avessimo vinto la guerra, in una condizione umiliata, costretti ad andare a Versaglia col cappello in mano. Il fascismo fece leva su questi argomenti che su noi ragazzi avevano inevitabilmente presa. Su me no, non perché fossi antifascista, ma perché per me il concetto di patria, come il concetto di guerra e quello di Dio, erano stati sin dall’inizio non dico estranei, ma problematici e controversi. Finita la guerra, si ebbe un colpo di fulmine. Quando il fascismo cade è come se cadesse una benda dagli occhi. La naturale reazione è di cercare una collocazione politica che sia innanzitutto antifascista. La Resistenza era stata monopolizzata dai comunisti e viene naturale quindi diventare comunisti. In più guadagna molto peso il senso di rivolta contro l’ingiustizia borghese, mentre nello stesso tempo agisce l’ingenuissima speranza, illusione e follia di vedere nella Russia la madre dei popoli e l’esempio di una felicità realizzata. È una trappola, una trappola in cui cadono inspiegabilmente fior di intellettuali: Calvino, Pavese, Quasimodo, tutti, tutti…
Anche Sciascia.
Ma Sciascia mostra subito di nutrire forti dubbi sulla Russia. Vede, ci sono state due forme di adesione al comunismo: una quella cieca per cui si credeva che la Russia avesse realizzato lo Stato ideale; un’altra che metteva in dubbio questo convincimento e che però, dopo la vittoria democristiana del 18 aprile, avendo in odio il governo confessionale che si era insediato, appoggiò l’antagonista più forte, cioè l’opposizione comunista, nella speranza di un cambiamento. Sicché si ebbe una spaccatura tra gli intellettuali, spaccatura irrisoria per la verità, perché il 90 per cento andò a sinistra mentre il resto si orientò verso il gruppo de Il Mondo, del Partito d’Azione e simili. Io ero fra questi. Una speranza nacque in me con Saragat, perché ero e volevo essere socialista, ma poi il Psdi entrò a far parte del governo assorbendo i difetti della Dc e quindi mi staccai dalla politica.
Quello che lei, non aderendo al Pci, fa in un primo momento, gli altri lo fanno solo in un secondo.
Tranne però Guttuso, che si è staccato dal Pci forse solo in punto di morte.
Guttuso è quello che tradisce Sciascia.
Testimoniò contro di lui facendolo condannare. Quando Sciascia riferì una frase di Berlinguer, l’allora segretario del Pci la negò e si appellò a Guttuso che era presente perché la smentisse. Figurarsi se Sciascia poteva inventarsi una conversazione mai avuta. La verità è che Guttuso venne posto di fronte al vecchio ricatto, lo stesso per cui in Russia a suoi tempi i condannati a morte confessavano colpe non proprie per il bene del partito.
Torniamo alla letteratura siciliana. Nel processo di reinvenzione del linguaggio troviamo a un certo punto il Gruppo 63, la cui terza riunione si tiene a Palermo. La corrente ha qualche incidenza?
Credo che non abbia avuto grande rilevanza in Italia. A parte il clamore suscitato, i libri che rimangono si quel movimento sono quelli di Arbasino, di Manganelli. Opere di singolare originalità, non iscrivibili nel contesto programmatico dei Novissimi.
Sono gli anni nei quali primeggia la grande opera di Sciascia.
Che rispetto al Gruppo 63 è agli antipodi.
E mentre i Novissimi affrontano la lingua, Sciascia affronta la mafia.
Sciascia è uomo di grandi esclusioni e di grandi preclusioni. Quando ha l’impressione che un fenomeno non possa interessarlo non si cura nemmeno di studiarlo. Credo che non abbia avuto grande dimestichezza con riviste come Il Verri o Quaderni piacentini, così come aveva interessi ridotti nei riguardi di certe letterature. Aveva un forte trasporto per la letteratura francese e quella spagnola nonché per i grandi russi dell’Ottocento, ma molto meno si occupava dei tedeschi, mentre nutriva un certo disinteresse verso la poesia contemporanea. Non credo avesse letto Emily Dickinson o Eliot. Semmai li avrà sfogliati.
Non ha letto Eliot?
Non gli ho mai sentito fare il suo nome nelle nostre conversazioni. Del resto per Proust non è che avesse grane simpatia. Il fatto è, veda, che Sciascia, come tutti i grandi scrittori, tracciava attorno a sé un ideale circuito che conteneva i suoi temi e autori privilegiati e lì dentro si muoveva splendidamente, senza lasciarsi distrarre da ciò che sentiva alieno.
Dopo la lunga età segnata dalla sua opera civile, si arriva a quella grande nebulosa che è Horcynus Orca. È il 1975,. Il libro suscita reazioni critiche e adesioni entusiastiche.
Horcynus Orca dà alla letteratura siciliana un input drammatico, riproponendo quel problema della lingua con cui abbiamo avuto a che fare con Verga e che da allora è rimasto sotto pelle. Horcynus Orca inventa un linguaggio, malgrado tante prolissità e fiacchezze, malgrado certe intrusioni di grezzi sicilianismi, che a volte possono stancare, costituisce un mastodonte, una sorta di poema marino quale l’Italia non aveva mai avuto, un poema epico paragonabile a Moby Dick. È un libro con il quale dobbiamo fare i conti, una sofferta scommessa con la lingua e con l’arte, una grande battaglia con l’Angelo nella quale, come ho scritto, a D’Arrigo rimane in pugno più di una piuma.
Ci sono poi autori che ancor più di D’Arrigo passano sotto silenzio. Angelo Fiore e Antonio Pizzuto per esempio.
Fiore è uno scrittore straordinario, onirico. Tutto quello che accade nei suoi libri è come se fosse visto in sogno con una pregnanza e un’adesione al reale ondivaga tra verità e inverosimiglianza. Di Fiore ho letto solo un libro, Il supplente, molto bello, perché tutti gli altri sono misteriosamente irreperibili. Vorrei leggere anche L’eredità del beato che mi dicono sia il suo libro maggiore. C’è poi Pizzuto, anche lui fuori dalla koiné siciliana spicciola. L’ho letto tutto e non mi trovo a condividere l’entusiasmo di Contini. Ho l’impressione di entrare in un frigorifero. Anche lui ha un linguaggio particolare nel quale tutto avviene per addensamenti di situazioni e di frasi che infittiscono la pagina, sicché si respira male a viverci dentro. Ma è uno scrittore di insolito spessore. Del resto, come uno si arrende di fronte a certi sonetti di Mallarmé si può arrendere di fronte a Pizzuto. Si può stimarlo senza amarlo. Poi c’è il palermitano Carmelo Samonà, eccellente ispanista. Ho letto di lui un romanzo bellissimo, poco noto, Fratelli.
Anche nella poesia opera questa incessante ricerca sul linguaggio che segna tutta la narrativa siciliana?
Per i poeti è un poco diverso. I poeti rientrano in una koiné italiana di linguaggio, alto o basso che sia, già collaudata e sperimentata alla quale si adeguano. Cito Piccolo, Cattafi, Ripellino, Quasimodo. Questi sono i quattro grandi poeti siciliani del secolo. Ma per ognuno di essi, come per gli stessi narratori, occorre considerare la diversa vicenda umana. È importante la differenza che corre tra il siciliano che rimane nell’isola, quello che va fuori dell’isola per restarci e quello che va fuori e poi ritorna. I siciliani che sono vissuti fuori hanno subìto un processo di assimilazione. Pirandello è vissuto a Roma e all’estero, Quasimodo è vissuto a Milano, come Vittorini. Certamente hanno risentito della distanza dalla Sicilia.
[Domanda e successiva risposta non comprese nell’intervista in volume, secondo l’indicazione di Bufalino] Se volesse fare un esame di coscienza da letterato, si ritrova in questa metà di secolo?
Quando avevo otto anni, mio padre stava per portarmi in America doveva aveva deciso di emigrare. Avevamo già i biglietti quando intervenne la crisi del ’29, sicché andare in America non diventava più un affare. Non ci fosse stato Wall Street, io sarei stato forse uno scrittore italoamericano e avrei scritto in inglese. Avrei scritto alla maniera di Fitzgerald che sento vicino a me, oppure di Salinger. Ma suvvia si tratta di ipotesi improponibili perché creano irrealtà enormi.
Quale libro siciliano degli ultimi cinquant’anni porterebbe con sé?
In un’isola di naufraghi il più lungo, Horcynus Orca, mentre in una gita domenicale Il cavaliere e la morte.
Sciascia diceva di vedere crescere sempre più la linea della palma, ma si riferiva alla mafia. La linea della letteratura cresce dalla Sicilia verso il continente?
Io non me n’accorgo. Non credo che ci siano scrittori del nord influenzati da scrittori del sud. Ormai c’è una diaspora. Ci sono venti, trenta scrittori di un certo rilievo e ognuno è un faro, per dirla con Baudelaire, che illumina un pezzo di strada. Ma nessuno è fratello di un altro. Non ci sono scuole, non ci sono tendenze. Ci sono soltanto scrittori-isola.
Giovanni Gentile preconizzava all’inizio del secolo il tramonto della cultura siciliana. Lei vede un futuro?
Il futuro dipende dalla situazione politica. Può succedere qualsiasi cosa. Ma se guardiamo a tutto il secolo, esclusi i viventi, vediamo Verga, Capuana, Pirandello, De Roberto. E poi ancora Sciascia, Lampedusa, Vittorini, Brancati, Quasimodo. Credo proprio che tra le rombe che abbiamo visitato in questo viaggio a ritroso ci siano tantissime lapidi dove poter deporre fiori che diano frutti.