Luigi Capuana era stregato da Spaccaforno (l’attuale Ispica) tanto da ambientarci il romanzo Profumo ed esserci stato più volte. Spiritista convinto e parapsicologo, Capuana dovette davvero credere di essere stato stregato: magari perché Spaccaforno era il ritrovo di streghe più famoso del sud Italia dopo il noce di Benevento.
In realtà fu proprio grazie a Spaccaforno che l’autore del Marchese di Roccaverdina (in breve ispirato anch’ecco a Spaccaforno) poté fronteggiare per molti anni la sua cronica e disastrosa situazione finanziaria.
In realtà fu proprio grazie a Spaccaforno che l’autore del Marchese di Roccaverdina (in breve ispirato anch’ecco a Spaccaforno) poté fronteggiare per molti anni la sua cronica e disastrosa situazione finanziaria.
Le cose andarono così. Per una stregoneria - che altro allora? - una zona di Spaccaforno, la Marza, era divenuta possedimento di Mineo, distante 150 chilometri, che vi riscuoteva i canoni di enfiteusi, sicché Capuana si ritrovò, prima come sindaco e poi come commissario comunale, a incassarli avendone perciò contatti stabili. In tale veste poté conoscere un ricco commerciante, Saverio Gennaro, che nominò gabelloto. Morto lui, il rapporto continuò con il figlio Nené, a sua volta gabelloto, dando vita a uno scambio epistolare il cui carteggio il figlio di don Nené, Antonino, si è tenuto stretto fino a sette anni fa, quando a 97 anni lo ha ceduto al Comune di Ispica per seimila euro. «Finalmente» ha chiosato uno studioso ispicese, Luigi Blanco, esaminando le 77 tra lettere, telegrammi e cartoline ora custoditi nella biblioteca intitolata ovviamente a Capuana. Ma anche Nené Gennaro doveva a sua volta essere stregato, precisamente dalla letteratura, se portava a Capuana una tale venerazione da elargigli, a semplice richiesta e a più riprese, ben cospicue somme di denaro in prestito che per la verità lo scrittore restituì sempre. Quasi puntualmente.
La prima richiesta di denaro è del 16 agosto 1878 quando Capuana è reduce da Milano e non ha un soldo. Chiede perciò la bellezza di duemila lire a Gennaro offrendo in garanzia la sua parte della divisione dei beni paterni. Si affida a lui quanto agli interessi, ma si augura «una scadenza più lunga possibile». E siccome si è fatto un certo nome, non vuole che in paese si risappia che è in bolletta, anzi non devono saperlo nemmeno i suoi nove fratelli. Si rivolge perciò fiducioso a Gennaro, che pure non ha mai visto: «Con lei sono sicuro di aver mantenuto il segreto, cosa che mi importa soprattutto, non volendo mettere in bocca del pubblico pettegolo di qui i miei intimi affari». Gennaro esegue e procede anche per l’iscrizione dell’ipoteca, ma il 23 ottobre riceve un telegramma: «Prego sospendere ogni pratica nostro affare. Schiarimenti lettera oggi stesso». E’ successo che i fratelli hanno saputo dell’ipoteca, e quindi del prestito, e se lo vogliono mangiare vivo.
Nella stessa sfrontata lettera del 16 agosto Capuana chiede anche un favore, ma non per se stesso. Un suo amico maestro elementare non riceve da mesi lo stipendio mentre i Portoghese e i Moltisanti di Spaccaforno, creditori del Comune di Mineo, minacciano di fare bloccare le somme che don Nené deve versare per la gabella della Marza. Capuana non ha alcun rossore a chiedere a Gennaro di sostenere di avere già effettuato il versamento, epperò lo prega di provvedere quanto prima. Gli scrive che ha sistemato tutto al Comune avendo esortato il cassiere a pagare lo stipendio del maestro «con somma ad altro destinata» dopo avergli fatto rilasciare una ricevuta «per regolarità di contabilità». Ma il versamento non arriva e Capuana trasmette a don Nené un telegramma per dirgli di trovarsi «in un grave imbroglio avendo compromesso il cassiere», perché il sindaco (che non è un suo amico, essendo tra quelli che Capuana descrive a Gennaro come «bestianti a imbecilli» perché «il presente municipio è qualcosa che fa schifo») ha visto la ricevuta e sospetta l’imbroglio, sicché vuole pagare al maestro solo la metà del dovuto.
Basterebbe che don Nené pagasse e tutto si risolve. Ma don Nené si è trattenuto «le trecento e tante lire» pretese dai Portoghese benché comparissero in contabilità come incassate. Nell’epistolario non c’è traccia su come le cose evolvono. Un anno dopo, nel 1879, da una lettera di Capuana a Gennaro, si apprende però che il versamento non è stato ancora regolato mentre il cassiere, Vincenzo Bellissima, che aveva rilasciato quietanza, è ancora più preoccupato perché è andato in pensione e non ha più le mani sulle carte. Ma avendo dei conti in sospeso con Capuana, come debitore stavolta, lo scrittore chiede a Gennaro di trattenere la somma da quanto deve al Comune a scomputo di un proprio debito. Come finirà il carteggio non dice niente. Un peccato.
Ad ogni modo il 12 settembre del 1879 Capuana chiede a don Nené un nuovo prestito di 600 lire per stampare un libro a sue spese. E per ricambiare promette di fargli avere uno sconto del 10% sui libri del suo editore milanese, Bregola. Rimborserà il prestito con i diritti d’autore che vanta. Ma Bregola fallisce e Capuana chiede e ottiene il rinnovo della cambiale che diventa di 650 lire. Facendo leva sul debole di Gennaro per lui e per la letteratura, chiude la lettera con una lusinga: «Avete ricevuto il mio volume sugli studi?». Si tratta del libro “Studi sulla letteratura contemporanea” che Capuana ha curato e pubblicato e che secondo lui dovrebbe mandare in estasi Gennaro.
Passano due anni e il 16 febbraio 1881 Capuana scrive a Gennaro: «Potrebbe lei rinnovarmi uno dei soliti favori senza suo interesse, per una piccola somma che debbo spendere senza farne sapere nulla in famiglia? Per questo le accludo una cambialetta di 300 lire a tre mesi che sarà pagata puntualmente come le sue precedenti furono già pagate alla scadenza. Potrebbe mandarmi la somma in biglietti entro lettera raccomandata: non mandi fedi di credito perché qui è una noia lo scambiarli. Se deve scrivere in questo affare scriva per lettera e non per cartolina». Capuana è ormai un nome noto ed è terrorizzato all’idea che a Mineo venga allo scoperto la sua condizione economica, cosicché prende ogni precauzione.
A settembre dello stesso anno va a Spaccaforno e si ferma alcuni giorni, così conosce finalmente don Nené, che è il suo creditore e banchiere ma anche il suo più fervido ammiratore. E Capuana naturalmente ne approfitta. Il 4 marzo 1982, quando a Roma è direttore del “Fanfulla della domenica”, su carta intestata del giornale, chiede a Gennaro un quarto prestito di 600 lire per un mese. E ha la coscienza di scrivere: «Che penserà lei di questo mio modo di fare? Spero nulla di male». Gennaro non pensa niente. Paga e basta. In nome della letteratura.
Non è l’ultima volta. Il 23 marzo dell’anno successivo Capuana torna a battere a denari e chiede una somma che non precisa. Non solo. Lascia che sia don Nené a stabilire la data di scadenza della cambiale.
Ma essendo divenuto una personalità nazionale della cultura e direttore di un giornale come “Il Fanfulla”, anche Gennaro si rivolge a lui per un favore. Si tratta di aiutare l’amico comune Francesco Favi, notaio ispicese, che vorrebbe fare evitare al figlio il servizio militare. Capuana si impegna, ma non riesce e scrive a don Nené: «Mi sorprende che il notaio si lasci abbattere da questa contrarietà: si persuada che pochi anni di milizia gioveranno fisicamente al suo Vittorio: ne ho altri esperimenti». Non personali però, perché lui la milizia l’ha evitata. Il carteggio continuerà negli anni successivi ma solo per scambi veloci di auguri e saluti. Capuana è diventato un autore famoso, insegna all’università di Catania e non ha più bisogno di don Nené. Si riprometterà, dovendo andare a Noto, di andarlo a trovare. Ma non lo farà. Non ha più bisogno nemmeno delle streghe di Spaccaforno.