sabato 17 maggio 2014

Crozza, attento a non ridertela troppo




L’irriverenza ha oggi in Italia un solo alfiere: Maurizio Crozza. Il suo sberleffo, spinto fino all’invettiva e privo di riguardi o particolarità per ogni ambito politico, costituisce davvero il fatto nuovo e unico del nostro tempo, ancor più significativo perché oggi come non mai la politica ha occupato ogni spazio imponendo il suo stigma su ogni genere di carriera o intrapresa.
La mordacità di Crozza, molte volte pura insolenza, colpisce Renzi come Berlusconi e Grillo con la stessa impertinenza e lo stesso sarcasmo visti per ultimi nello scherno di Roberto Benigni, mimo di un’altra stagione e giunto ormai al tramonto, e intesi a ridurre la loro statura politica alla stregua di quisque de populo cui mette agio rivolgere le più beffarde canzonature nel clima proprio della derisione carnascialesca che castigat ridendo mores e mutua dalla tradizione che sia esperita solo una volta l’anno, giusto il motto secondo cui semel in anno insanire licet. Crozza ha esteso la licenza del carnevale a tutto l’anno facendo di se stesso uno strumento di burla e quindi di aspra censura. Dimodoché il suo tipo di informazione, che fa il paio con quella inventata da “Striscia la notizia” e migliorata da “Le iene”, si pone non solo come new journalism irregolare sì ma di forte presa ma anche come la sola vera opposizione al blocco politico dominante ispirato al più colloidale consociativismo, con in più la forza della boccaccia e del dileggio. 
Senonché, rispetto al passato, in tempi in cui il presidente del Consiglio Spadolini, divertito dalle vignette in prima pagina di Forattini, gliene chiedeva gli originali per raccoglierli, gli attuali leader di seconda repubblica reagiscono nei modi di re vilipesi gridando all’oltraggio e minacciando ritorsioni esemplari. Questione di educazione al potere: al cui esercizio giova quanta più dose possibile di autoironia e la più larga concessione alla critica, doti consolidate nella vituperata prima repubblica retta sui partiti e oggi andate perdute in un sistema nel quale ogni centurione si fa imperatore e lo spirito bizantino rende tutto precario e parcellizzato. 
Il più suscettibile agli effetti della satira, tanto da farne un’offesa personale, è il neo-leader Peppe Grillo che pure ha costruito la sua carriera di comico proprio su quello che oggi ritiene un vilipendio perché portato a figure pubbliche come lui ma che egli stesso riconduceva alla satira più legittima. Anche Grillo, come oggi Crozza, entrambi genovesi, si valeva della parolaccia per sortire, come un tempo nella Roma delle atellane plautane e dei fescennini, la risata più dissacratoria, quella stessa risata che “l’immaginazione al potere” degli anni Settanta indicava nel mezzo di seppellimento della borghesia italiana al potere. 
Dopo Grillo, allergico alla satira è Matteo Renzi che pure sembra il più propenso all’ironia: ma solo se è lui stesso a farla. Diverso il caso di Berlusconi che la derisione ammette se da lui pronunciata nei confronti di altri. Si tratta in tutt’e tre casi di parvenu della politica, di più o meno lungo corso ma non riusciti ad ottenere il titolo di veri notabili della res publica alla cui sola altezza di indiscutibilità e certezza il rango può ammettere di essere contrariato. Nel tempo delle monarchie assolute e delle dinastie regali il re ammetteva che il giullare di corte si facesse beffa di lui perché gli fosse sempre presente che altro non era che un uomo, così come gli abati si ripetevano l’uno l’altro di ricordare che dovevano morire. Solo un potere consolidato può dunque accettare di essere contraddetto.
Ma oggi il potere, che consolidato non è, rifiuta l’idea di essere criticato laddove la censura è vista come una minaccia. Nella risata del pubblico di Crozza cosa vedono Renzi, Grillo e Berlusconi se non un attacco alla loro sfera prima personale e poi politica? La prova è nelle facce degli ospiti di “Ballarò” durante la copertina di Crozza: atteggiate a una condiscendente condivisione del motteggio, in realtà nascondono la più tenace avversione nei lampi di tensione che accendono i loro sguardi vaghi e nello sforzo che fanno per mascherare la paura della pubblica derisione.
Ma Crozza, per l’abuso che fa della sua maschera e del suo talento, non sempre sortisce di dissacrare i potenti trovando la battuta felice, la similitudine inattesa, l’aneddoto esilarante. Di qui, al fine di fare ridere, ricorre al paradosso e al linguaggio cochon. Il primo ha un limite nella verosimiglianza, il secondo nel buon gusto. Crozza eccede sia lì che qua ottenendo di infastidire. Di più, si compiace nella sua parte e ride egli stesso delle sue battute, come quando fa la parodia di Razzi: un errore madornale, perché il pubblico ride non tanto della battuta del comico quanto della sua serietà. Vale il principio stabilito da Pirandello del “sentimento del contrario”: ridiamo di una persona che incespica e rovina malamente a terra imprecando poi alla sua disdetta. Se si rialzasse ridendo ci troverebbe serissimi. 
L’impulso a compiacersi guasta Crozza, che se ride per sé volendo irridere gli altri finisce per dare l’impressione di ridersela, il che introduce un elemento personale che non giova al comico, cui spetta di essere la voce dissacratoria della coscienza comune e l’interprete del malanimo e della protesta civile. Un Crozza che se la ride ci appare un altro potente, un primus inter pares, che è proprio quello che lui stesso non intendeva in origine essere e che nessuno oggi vuole.