giovedì 16 ottobre 2014

Il timido Sciascia e il suo contesto



Avvenne un giorno di agosto del 1979 che conobbi Leonardo Sciascia di persona. Leggevo nelle campagne di Canicattì, in casa dei miei suoceri, un suo libro di otto anni prima, Il contesto. Mio suocero, appartenente a una famiglia di nobili origini, scorgendo di che si trattava, mi chiese senza nascondere la sorpresa "Ciacia leggi?", pronunciando il cognome senza la "esse" e con una "c" atona e friatica, come tutti nell'Agrigentino. 
"Eh" feci io. 
"Il maestro elementare" minimizzò. 
"Il maestro elementare?" ribattei io stizzito. "Ma tu lo sai chi è Sciascia?"
"Ma che, lo vuoi conoscere? Ti ci porto. E' qua vicino". 
In realtà d'estate Sciascia viveva in contrada Noce, in territorio di Racalmuto, a una decina di chilometri da noi, per cui mi stupì non poco che lo sapesse. Risposi di no per non dover fare una brutta figura. A tutto avrei immaginato tranne che mio suocero potesse conoscere Leonardo Sciascia. Senonché lui insistette e io accettai. 
Sciascia era a quel tempo il mio autore prediletto. Tutti dicevano che non si scriveva come lui, con quello stile paratattico, slegato, così elementare e nello stesso tempo illuministico, diderotiano. Senonché era proprio quello stile che non rispettava la costruzione ortodossa delle proposizioni che mi affascinava. Non tanto le storie complicate, a sfondo politico, che raccontava, troppo legate - e oggi appaiono ancor di più tali - al suo tempo, così da essere finito per apparire uno storico, che era forse la sua grande e vera vocazione: uno storico dell'Italia degli anni Settanta che si è impegnato a scrivere una controstoria del paese, dalla parte della ragione. Il suo più grande merito, in questa chiave, fu di commentare i fatti come se fossero trascorsi decenni, con quella capacità di osservazione critica che solo il distacco temporale può consentire. Questa capacità gli permise di farsi conoscere come "veggente", in fatto soprattutto di terrorismo, riuscendo a prevedere lo sviluppo degli eventi più enigmatici del momento. Che dal momento che immaginava rivelavano in lui una natura di letterato. Come tale scriveva libri brevi non perché non tenesse la lunga distanza o gli mancassero gli argomenti, ma perché la sua concisione, la sua esattezza, gli bastavano per non scrivere una parola in più del necessario. Per questa ragione riteneva che non si possa cominciare a scrivere prima dei quarant'anni, occorrendo un talento che richiede molta applicazione e disciplina. 
Sapevo già queste cose quando io e mio suocero arrivammo ai piedi di un promontorio sulla statale Caltanissetta-Agrigento e lui mi indicò in cima la villetta degli Sciascia. Il cancello sulla statale era aperto per cui entrammo. Scendemmo dall'auto nel pianoro antistante e mio suocero suonò al campanello di una porta marrone chiaro molto lucida. Dopo un po' di batticuore mi apparve Sciascia, che vedevo per la prima volta. Rimasi interdetto. Erano anni di coprifuoco. Il terrorismo sembrava voler davvero colpire lo Stato al cuore e uno come Sciascia, che scriveva di politica sul Corriere della sera e aveva scritto Il contesto, Todo modo e soprattutto L'affaire Moro, non poteva sentirsi preservato dalla P 38. Mi sembrò perciò incauto da parte sua aprire la porta a due sconosciuti essendo, come pareva, da solo in casa.
"Buongiorno barone" fece Sciascia rivolto a mio suocero lasciandomi secco per la sorpresa. Era normale che un maestro di scuole elementari si rivolgesse in quel tono a un aristocratico, ma per me era del tutto inaccettabile e scandaloso che lo facesse Leonardo Sciascia. Cose di Sicilia, la terra dei canoni inversi. Capii che ci aveva aperto la porta perché dallo spioncino aveva riconosciuto mio suocero. Sciascia ci invitò a entrare ma mio suocero rimase sulla porta: "Andiamo via subito. Mio genero, che le presento, ha una cosa da chiederle". Io lo guardai non avendo davvero niente da chiedere a Sciascia, ma lui suppose che perlomeno intendessi avere un autografo. 
"Sì, maestro" feci io attribuendogli una qualifica che per me era attestato di un alto magistero ma che per mio suocero era la giusta misura da usargli, "vorrei intervistarla per una televisione", una delle primissime televisioni private che andavano sorgendo. 
"Volentieri" fece Sciascia con il suo sorrisetto reso sguincio per l'eccessivo tempo nel quale teneva la sigaretta in bocca. "Quando vuole, ma dopo l'estate a Palermo. Magari da Sellerio".
Fu un'intervista che non si fece mai, almeno in quegli anni. Lo avrei intervistato a Messina a conclusione di un convegno in suo onore e nel quale si confermò la persona timida che era, incapace di parlare in pubblico perché facile preda dell'emozione e perciò costretto a leggere un discorso preparato. Non fu una di quelle interviste che sarebbero diventate memorabili. Sciascia era stanco e già malato. 
Ma era anche una questione di timidezza: al punto che quando allo Stabile di Catania debuttò il suo L'onorevole ed egli sedette con la moglie in prima fila si alzò con una scusa e non tornò più in sala appena, al termine della pièce, vide salire uno dei promotori intenzionato a chiamarlo sul palco e presentarlo al pubblico. Da dove gli veniva mai tanta timidezza, essendo considerato una specie di guru nazionale, un'autorità la cui parola era messianica? Forse dall'umiltà, dal fatto di sentirsi in fondo non più che un maestro elementare davvero.
Mi raccontò Nino De Vita, il poeta di Marsala che per molti anni gli fece a Palermo da autista, che una volta Sciascia, a proposito di Bufalino, laureato a differenza di lui, si lasciò andare a una specie di recriminazione: "Sa il latino, parla latino". Una recriminazione che non era rammarico ma ammirazione mista a un pochino di invidia. Né si trovò mai a suo agio in Parlamento dove tenne pochi interventi, piuttosto brevi, e da dove non vide l'ora di andare via per non tornarci più. Era soprattutto apprensivo. Mi raccontava la moglie che quando le figlie erano fuori guardava sempre l'orologio e non chiedeva che quando fossero tornate, con un patema che non avrebbe avuto nemmeno per se stesso quando si sarebbe ammalato. 
Lo vidi infatti sereno e quieto col bastone, seduto in un angolo ad ascoltare Vittorio Sgarbi che illustrava le tempere di Cambellotti alla prefettura di Ragusa, attorniato da persone che guardavano lui senza prestare granché ascolto allo sconosciutissimo critico d'arte arrivato con una stangona indifferente anche a quello che diceva. E in quella posizione, un po' sofferente e un po' stanco, mi sembrò di vedere Borges ormai cieco. Appartato e tuttavia disposto a lasciarsi fotografare pazientemente in foto ricordo con sconosciuti, Sciascia fu più che attento e compreso quella sera se poi avrebbe pubblicato uno dei suoi testi più belli, Invenzione di una prefettura, dando alla distanza a Sgarbi più di un punto in fatto di esegesi di pitture e contesti ai quali rimandassero, sia letterari che storici. 
Aveva senz'altro un rapporto speciale con il Ragusano, che pure relegava a "provincia babba", la quale gli si manifestava appena dall'Agrigentino arrivava a Vittoria. Sulla base Nato di Comiso non esitò per esempio a rimproverare aspramente il vescovo di Ragusa Rizzo per essere andato a benedire la posa della prima pietra, atto che gli suggerì profonda indignazione contro la Chiesa che benedice da sempre le bandiere di guerra. Non era ateo ma non volle l'estrema unzione. Era, piuttosto, curioso di vedere come sarebbe andata, per cui si asteneva dal prendere posizione anzitempo. Tant'è che a un prete di Racalmuto che gli mostrò un quadro dove un cadavere sorgeva da una tomba disse: "Potrei essere io". 
Del Ragusano amò particolarmente Chiaramonte Gulfi dove fu ospite in più di un convegno: un legame che lo portava a Serafino Amabile Guastella. Era convinto che il barone demopsicologo dell'Ottocento, raccoglitore di tradizioni locali e corrispondente di Giuseppe Pitré, tenesse un romanzo nascosto. Era questa opinione anche di Italo Calvino. Quel romanzo, anni dopo la morte di Sciascia, ebbi la fortuna di ritrovarlo io e lo pubblicai, con i disegni di Piero Guccione e uno scrupoloso apparato di note critiche e commenti, con il titolo originale di Due mesi in Polisella. Mi sarebbe molto piaciuto che lo sapesse. E chissà che non lo abbia saputo, a stare all'epitaffio che dettò nell'imminenza della morte: "Ce ne ricorderemo, di questo pianeta" - postulando da scettico una vita dopo la morte e dunque una capacità di esercitare la memoria e di vedere il mondo. E con quella virgola, tutta sciasciana, che vale una sospensione, quasi una resipiscenza, una titubanza; o forse l'indecisione sull'oggetto dei ricordi o magari una pausa prima di una battuta inattesa. 
Eppure aveva paura dei ricordi. Altrui. Scrisse in Candido che "la morte è terribile non per il non esserci più ma al contrario per l'esserci ancora in balia dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restano". Io ci ho letto sempre l'idea dell'esserci e non quella del non esserci.
La sua vera preoccupazione, una volta morto, era che finisse nel bagnato, dal momento che il cimitero di Racalmuto soffre storicamente di infiltrazioni d'acqua che sono la croce di tutti gli abitanti. Scrisse nelle Parrocchie di Regalpetra: "Per quel che mi riguarda ho ragione di credere che non mi toccherà un posto asciutto: dovrebbero farmi un tabuto a forma di barca". Invece è stato fortunato essendo capitato in una zona non umida, grazie anche al genero ingegnere che ha costruito un particolare tipo di loculo in cemento armato che pare impedisca anche la decomposizione del corpo. Il che, se è vero, alimenta il mio sogno che in qualche modo Sciascia viva ancora. 
Lo è comunque con i suoi libri. Che oggi appaiono alquanto storicizzati, tranne quelli storici e di spirito filosofico come Il cavaliere e la morte, Porte aperte, Una storia semplice. Ma i libri che lo hanno reso famoso e autorevole, da Il giorno della civetta a Todo modo a Il contesto, sono oggi più che altro romanzi storici, sebbene mantengano un fondo di verità che tutt'oggi può valere a interpretare certi "ingranaggi" della politica, della giustizia e della società. In linea di massima però Sciascia è stato fin troppo testimone del suo tempo, gendarme di esso come Pasolini, per esserlo anche del nostro, così diverso. Eppure la sua lezione, anche di stile di vita, rimane più che valida. 
Schivo e appartato, Sciascia non mostrò infatti interesse alcuno per i soldi. Mondadori gli offrì cinque miliardi di lire per avere l'esclusiva ed egli disse no. Era peraltro suo costume, come mi disse la moglie, non richiedere mai anticipo agli editori, contando sugli annuali diritti d'autore e ben sapendo di non disporre di grandi risorse economiche. Così schivo, epperò così tagliente. Parlava pochissimo e amava ascoltare. Dava sempre ragione, ma poi aggiungeva un "però" e da lì in poi demoliva ogni ragione. In tutta umiltà: quell'umiltà che lo spinge a rifiutare una laurea ad honorem per un diploma di assistente sociale honoris causa.
Non ho visto Sciascia molte volte ma ho imparato molto da lui. Il coraggio delle idee per esempio, come per la polemica sui "professionisti dell'antimafia"; l'indipendenza di giudizio, massimamente espressa nei suoi corsivi sul Corriere della sera; la forza della ragione che regola la vicenda umana e che deve costituire una fonte. Ma devo a lui anche alcune letture epifaniche e decisive sulla mafia, di Hobsbawm ed Hess in particolare, la scoperta di scrittori come Amèrico Castro, Unamuno, Gasset, Dos Passos, figure di siciliani minori come Uccello, Veneziano, Borgese e tantissimi altri. Ma c'è una cosa che mi ha insegnato soprattutto: l'idea di Sicilia nella trina articolazione di sicilianità, sicilitudine e sicilianismo, accezioni che continuo a vedere usare arbitrariamente. Laddove invece Sciascia ha distinto la sicilianità come coscienza di una speciale condizione anagrafica, la sicilitudine come modo d'essere dovuto "a particolari vicissitudini storiche e alla particolarità degli istituti" e il sicilianismo come stato dei siciliani legati al dato di natura che li rende vittime da sempre e per sempre. Quindi la sicilianità è data da una ipertrofia dell'io collettivo che spinge a sentirsi diversi, la sicilitudine dalle ricadute che le vicende storiche e le istituzioni pubbliche determinano in un preciso periodo e il sicilianismo da una vieta e corriva forma di vittimismo di cui i siciliani soffrono per loro costituzione.
Gli devo anche la sua straordinarietà. Spesse volte mi chiedo come commenterebbe oggi la scena politica dove non ci sono più i Moro, i Berlinguer, gli Spadolini e gli Almirante, ma gente come Renzi, Berlusconi, Grillo, Di Pietro, Bossi, Alfano a cultura zero. A ciascuno il suo, dite?