mercoledì 17 giugno 2015

Caltagirone è preverista: almeno per l'Expo



A luglio la Sicilia sarà rappresentata all’Expo da un progetto che, approvato dalla Regione, è intitolato “Anime di ferro” e intende proporre un itinerario turistico verghiano comprendente Catania, Vizzini, Mineo e Caltagirone. Un itinerario meramente virtuale, perché al turista non viene offerta alcuna agevolazione.
Ispiratore di questa inedita congiunzione di gonfaloni è uno scrittore di Caltagirone, Domenico Seminerio, che con una tesi sofistica non povera di ingegno designa la sua città a culla del verismo insieme con le altre tre. E ciò fa in grazia non di uno scrittore precursore di Capuana e Verga ma di uno scultore analfabeta, Giacomo Bongiovanni, naturalmente calatino, che realizzando statuine in terracotta di contadini e di figure popolari avrebbe così anticipato il verismo addirittura di mezzo secolo. 

A sostegno della sua tesi Seminerio cita proprio il Verga di “Mastro don Gesualdo” dove però è ben chiaro che tra i regali a Isabellina figura un “presepe di Bongiovanni” proprio perché l’artista era noto come valente ceramista di presepi e perciò non poteva non raffigurare che figure del mondo rurale e popolano. Nondimeno Seminerio arriva all’affermazione che le sue “scene di vita popolare erano completamente ignorate dall’arte ufficiale che privilegiava principesse, contesse e duchesse”. Non è così. A parte il caso del nipote Giuseppe Vaccaro che realizzò con grande lena “figurine” di aristocratici, anzi si specializzò vista la richiesta, prima di Bongiovanni dipinsero e scolpirono scene popolari decine di altri artisti, fino a risalire al Seicento e trovare a Siracusa Gaetano Zumbo, a non volere considerare, ancora a Siracusa, l’opera di un Salvatore Politi attivo al tempo di Bongiovanni. 

Dopotutto sin dal primo cristianesimo, i presepi sono stati concepiti come scene di vita popolare e fatti di statuette realistiche perlopiù in terracotta. Bongiovanni non ha mai pensato, né poteva, di lavorare in funzione di una temperie peraltro letteraria e non figurativa. Questo progetto avrebbe supposto una sua attività di commercializzazione delle “figurine” che non è documentata, perché le statuine fittili gli venivano esclusivamente commissionate da privati e parrocchie, produzione che poi lasciò al nipote. 
Non riflettendo sul fatto che il verismo fu esclusivamente una corrente letteraria, peraltro molto breve, e non un gusto multidisciplinare, Seminerio ha creduto di aver trovato la prova della sua scoperta quando ha raffrontato le foto di Verga scattate a contadini vizzinesi con le statuine di Bongiovanni. Anziché chiedersi perché Verga avesse fotografato popolani, al di là del piacere nuovo per il dagherrotipo, Seminerio trova che Bongiovanni fosse un consimile di Verga se non un suo predecessore. Tutto questo perché alla fine Caltagirone possa fare parte degli itinerari veristi da portare all’Expo.
Ma perché Seminerio avrebbe dovuto chiedersi le ragioni per cui Verga si metta a fotografare “infelici”, com’era chiamata al suo tempo la povera gente? Avrebbe dovuto farlo perché Verga, da verista, cioè da osservatore del vero, non aveva certo bisogno di una macchina fotografica per cogliere la cruda realtà, che vedeva bene e conosceva meglio. Lo fa piuttosto perché anch’egli risponde all’istanza scientifica del momento, al clima positivistico e scientista con il quale il romanticismo si fissa in Sicilia e si propone di documentare la società. Semmai avesse dal basso della sua ignoranza immaginato di prefigurare o assecondare un indirizzo culturale, Bongiovanni si sarebbe sentito ben più vicino alla demopsicologia che non al verismo: quella demopsicologia (da Avolio a Vigo, da Guastella a Salomone Marino fino a Pitrè) che studiava la realtà, la notomizzava, ne raccoglieva i costumi popolari e si rifaceva non al naturalismo, che avrebbe portato al verismo, ma al regionalismo, il frutto più autentico del positivismo trasfuso nel primo romanticismo di tipo scientista. 
Verga prende la macchina fotografica e ritrae i contadini davanti agli usci, così ottenendo lo stesso risultato di Bongiovanni, uguale essendo l’oggetto, perché vuole essere scienziato, vuole cioè fare parte della stessa scuola che sta dettando soprattutto a Catania i modi della conoscenza e della ricerca. E’ a Catania, nella prima metà dell’Ottocento, che nascono giornali intesi a combinare scienza e letteratura in un insieme assolutamente inedito e tale da costituire, esso sì, la base sulla quale nasce il verismo. Quel verismo che Capuana intesta non a un siciliano né tantomeno a Verga ma al dalmata Niccolò Tommaseo, autore di quel “Cantici del mare” che è l’incunabolo primigenio dell’età verghiana. Alla quale diedero i primi fiati proprio autori catanesi e maestri di Verga, da Guglielmini ad Abate a Brancaleone a Castorina: narratori sì, ma innanzitutto ricercatori e scienziati.
La prova è ne “I Malavoglia” che non nasce per un colpo di fulmine di Verga stregato da Trezza ma perché Trezza è oggetto di frenetici studi anche internazionali circa le sue rocce basaltiche, la sua pesca e la sua fauna. Studiando i prodotti ittici, i ricercatori non possono però non osservare anche i pescatori e come esercitano la loro attività, scoprendo al tempo stesso le loro misere condizioni di vita e un mondo che attrae Verga per le sue radicali scomposizioni sociali. Quel che Verga fa è intervenire sulla stessa materia, seguendo gli scrittori catanesi suoi contemporanei, senonché si lascia nutrire dalla sua vena narrativa più che dalla sua ambizione scientifica. Manca a tutt’oggi uno studio sull’intento di Verga che vuole documentare l’economia trezzota raccontando le vicende dei suoi abitanti e finisce per analizzare con strumenti letterari le dinamiche socio-economiche di un microcosmo visto come decisivo sotto più aspetti - sempreché non stia proprio nel crinale di questi due versanti il segreto del capolavoro. Uno studio del genere potrebbe portare a chiederci se Verga fu un vero verghiano e se non fossero perciò fondati i dubbi di Carmelo Musumarra quando si chiedeva perché mai dopo “I Malavoglia” e prima di “Mastro don Gesualdo” Verga scriva “Il marito di Elena”, che certo non è un romanzo verista.
Appare dunque audace la pretesa di Seminerio di ritenere preverista la sua Caltagirone quando il verismo, per quel che è certo, nella sua portata siciliana se una culla ha avuto è stata la sola Catania, teatro di una comunità letteraria che studia la realtà con occhi da scienziati ed educa il giovane Verga, autore di un romanzo giovanile incompiuto e rifiutato non diverso dagli altri, tutti etnei e imbevuti di scientismo e romanticismo in equilibrio instabile. Giacomo Bongiovanni fu un bravo ceroplasta presepista, ma come lui decine di altri ceramisti operarono in molti comuni siciliani: che, non per questo, possono essere considerati veristi.
Caltagirone "patria ideale del verismo" è una mistificazione che non si spiega nemmeno alla luce dei riferimenti nel "Mastro don Gesualdo" alla città della ceramica, perché al suo tempo Vizzini era compresa nella sua giurisdizione, sicché i luoghi calatini "cari" a Verga non potevano esserlo per i suoi personaggi.
Una considerazione riguarda semmai l’assessorato regionale ai Beni culturali che ha approvato il progetto erogando 25 mila euro: nessuno, nemmeno uno studente liceale, è stato sentito per verificare se Caltagirone potesse essere davvero verghiana. E se per addirsi a chiamarsi “culla del verismo” basti a un Comune avere dato i natali a un ceramista.