martedì 4 luglio 2017

La mafia non è più narrabile



Una scena del film "Sicilian ghost story"

Se, nel profluvio di serie Tv dedicate alla criminalità organizzata, quelle sulla ‘ndrangheta si possono ridurre a un paio, Le mani dentro la città e Solo, è perché la mafia calabrese, benché divenuta la più potente e la più internazionalizzata, ha meno appeal di camorra e mafia siciliana, essendo cinematograficamente poco narrabile.

Peraltro le due serie sulle ‘ndrine non solo sembrano aver sovrapposto la Sicilia alla Calabria, perché a Milano e Gioia Tauro, invalendo il modello prevalente, si è vista la mafia e non la ‘ndrangheta, ma sono apparse non altro che una variazione scenografica avendo la produzione voluto proporre contesti urbani finalmente diversi da quelli battutissimi di Sicilia e Campania. 
Mafia e camorra sono più narrabili - e la prima molto più della seconda - perché si sono mostrate nude a narratori, saggisti e registi, che ne hanno fatto materia di invenzione letteraria e di studio, mentre la ‘ndrangheta non si è lasciata osservare e continua a costituire una monade chiusa, povera di grandi fatti e di figure da copertina. Ma per essere state fin troppo in vetrina, mafia e camorra si sono trovate nelle condizioni di non poter essere più narrate, giusto il principio della proporzionalità inversa che regola realtà e rappresentazione: più la prima è nota e meno la seconda riesce a soddisfarla. Di fronte a questa antitesi, la soluzione è stata quella proposta da Roberto Saviano che per scongiurare il grande rischio della mitizzazione ha creato la docu-fiction rivolgendo il romanzo in un’attestazione a metà tra vero e verosimile, arrivando poi a svolgere un’operazione assolutamente mimetica con l’introdurre il parlato napoletano, sottotitolato, in Gomorra la serie. 
Ma per la mafia - che, come osservava Gaetano Savatteri in un’intervista a Repubblica, si è costituita in un genere proprio - questo spostamento semantico non è stato più possibile essendo troppo tardi, perché può essere solo documentata. Cosicché, per non produrre pretti documentari, che non suscitano certo lo stesso interesse del film, chi ha voluto provare a raccontare la mafia ha dovuto distorcerla nel grottesco - Ciprì e Maresco - e nel farsesco, come hanno fatto Pif, Roberta Torre e, nella narrativa, Emma Dante, volgendo così la tragedia in commedia e vincendo con l’ironia la pregiudiziale posta dalla mafia: che può essere ormai interpretata e non raccontata, nella palese evidenza che l’appeal le deriva dal costituire, al pari del mito greco, oggetto di continue variazioni non esegetiche ma diegetiche, attinenti cioè alla sua narrazione. 
Il ricorso allo storytelling, che pure c’è stato, non ha funzionato perché l’approccio alla mafia richiede il rispetto dei dati di realtà: la galleria di figure positive e negative che popolano la storia della mafia si trasfondono infatti in personaggi televisivi i cui interpreti devono assomigliare fisicamente quanto più ad esse così da indurre nel telespettatore l’effetto analogico del documento nella supposizione che comunque stia assistendo a una rappresentazione teatrale. Anche le sceneggiature devono mutuare pagine di storia, com’è stato per ultimo nel caso di Maltese, il romanzo del commissario dove il pentito Gaspare Renda, dichiarato infermo di mente, evoca il primo pentito di mafia Leonardo Vitale, a lui contemporaneo e anch’egli finito in un manicomio criminale per essere poi ucciso come Renda dopo aver fatto i nomi dei capi mafiosi. 
Queste dinamiche, che appartengono alla sola industria di rappresentazione della mafia e non anche della camorra, sono state comprese a fondo da Camilleri, il cui commissario Montalbano indaga in un mondo chiuso nel quale la mafia è solo un rumore di fondo, una presenza remota che quando appare sulla ribalta nel nome dei Sinagra o dei Cuffaro mette i panni non di una doppia cosca con legami palermitani o catanesi ma di due bande rivali e contigue il cui potere comincia e finisce dentro il raggio corto di Vigata. Una mafia che insomma non c’è, al punto che Cuffaro si è visto una sola volta, e non è narrabile né è capace di piacere e avere aplomb
Falsificare e farsificare la mafia porta perciò a smitizzarla ma anche a mistificarla. Il ripristino dei set degli anni Settanta e Ottanta, quando la mafia era certamente narrabile, depone pericolosamente per una negazione della sua esistenza nel momento attuale, ma nello stesso tempo conferma che la serie Tv non può più raccontarla quale oggi è. Né può farlo il cinema o il romanzo. In questa chiave il film di Grassadonia e Piazza Sicilian ghost story consolida il quadro: già dal titolo rivendica la scelta di raccontare una storia, ma annuncia che non sarà vera. Torna anch’esso a un periodo storicizzato, l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, e ravviva la vicenda nella prospettiva finzionale della fidanzatina, dandole un tono di favola nella quale bambini e orchi formano il grado minimo di metaforizzazione della mafia. 
Da Germi, che mostrava la mafia a distanza, nel profilo di un uomo a cavallo, a Rosi che fece il film su Giuliano senza mai inquadrarlo, fino a Grassadonia e Piazza, passando per Pif, che allo stesso modo operano mascherando e mascariando l’onorata società, sembra di assistere alla chiusura di un ampio cerchio e alla dimostrazione di un teorema: la mafia non è più narrabile perché essa stessa ha fatto sapere tutto di sé. Forse consapevole che in Sicilia, così come tutto deve cambiare perché le cose restino come sono, per mettere la sordina sul proprio conto occorre fare gran rumore.