mercoledì 25 luglio 2007

Bruno Caruso: il grottesco del mio mondo


Bruno Caruso è pessimista circa le prospettive della cultura, che ritiene preda delle lusinghe e delle spire della politica. E ha maturato un’idea di pittura che recupera la sua originaria vocazione, di levità e delicatezza. Ha illustrato per il Poligrafico I Malavoglia e giudica questa la sua ultima terra promessa. Eppure era partito da ben diversi lidi.
Fino a che punto l’hanno influenzata Grosz e Dix? Come loro, anche lei è stato impegnatissimo e dissacratore del potere fino al grottesco.
Moltissimo Grosz, pochissimo Dix. Ho conosciuto Otto Dix nel ’48 a Monaco. Ero stato a Praga, poi a Vienna e quindi contavo di incontrare a Monaco Georg Grosz. Che però dopo la sua fuga in America non era più voluto tornare in Germania. Feci un viaggio praticamente inutile, senonché conobbi Dix, che era comunque una persona di primissimo ordine, un artista straordinariamente impegnato. Per me che avevo 21 anni era una specie di monumento dell’arte impegnata verso la quale non ero ancora versato. Avevo fatto dei disegni impegnati al tempo dei primi movimenti contadini siciliani di Li Causi, però non avevo nessuna idea dell’esistenza di Grosz e Dix. Li ho scoperti allora. E devo dire che Grosz ha avuto un’influenza notevole sul mio lavoro politico, un lavoro che oggi sono però sempre sul punto di abiurare: non tanto per ragioni politiche quanto soprattutto stilistiche. E’ stata una forzatura sulla mia coscienza di pittore civile aver fatto disegni che mi sarebbe stato più facile realizzare fluidamente, guardando a Klimt o Schiele. Ero andato a Vienna per conoscere la Secessione, sicché la scoperta dei pittori impegnati fu secondaria rispetto ai miei interessi perché la mia linea fluida era quella di Klimt e Schiele che avevo amato per merito di mio padre dopo che nella Palermo Liberty di Basile vedevo riprodotta la Secessione viennese. Ne andavo alla ricerca vagheggiando un ritorno agli antenati nel gusto del Liberty palermitano. 
Però ha incontrato Grosz.
Avevo visto suoi disegni pubblicati in una edizione, «Rose e ballo», che mi impressionarono molto. Quando andai in Germania cercai i suoi libri originali, che infatti oggi ho tutti. «Aggiusteremo i conti», «Ecce homo». Sono una dozzina.
Ma l’elemento grottesco che percorre tutta la sua opera le è venuto da lui.
In gran parte. Ma si tratta di vicende separate seppure complementari. I disegni di Grosz cadono nel primo dopoguerra mentre la mia formazione coincide con il secondo dopoguerra quando Grosz si è già raddolcito, è diventato un altro. Certo, gli effetti che i suoi disegni producevano su un giovane come me erano gli stessi che poteva sentire un artista dopo la guerra ’15-’18.
Dunque invece della Secessione lei trovò la Nuova Oggettività.
Sì e no. Quel gusto mi servì per realizzare i disegni politici che feci poco dopo, ma la mia grande passione figurativa fu a quell’epoca per le incisioni di James Ensor che mi diedero una vena di iroina che ho conservato sempre nei miei disegni. 
Ma ancorché ricercasse il motivo klimtiano lei era però già un artista impegnato. C’era stata una mostra a Palermo sulle periferie degradate uscite dalla guerra. 
E’ vero, ma non pensavo di arrivarci con i disegni. Mi sono forzato. Ma è una forzatura che oggi rinnegherei, come le dicevo, non tanto politicamente quanto perché il mio disegno è un altro, non è quello politico che mi ha dato notorietà soprattutto sui giornali.
Rinnegherebbe anche la ricerca del grottesco?
E’ una ricerca che non è la mia vera forma di espressione: quelle facce odiose, gente che detesto e che vorrei non vedere mai più.
Oggi allora in cosa si esprime il suo impegno?
L’impegno non c’è. Non c’è più una pittura impegnata. Non la fa nessuno. Non c’è più nemmeno come categoria dello spirito. Ha visto cosa sono diventati i comunisti? Mi dica come si può essere impegnati.
E’ dunque cambiato il mondo attorno a lei ed è cambiato pure lei?
Ma certo. Tutti siamo cambiati. Irrimediabilmente. Non c’è più l’occupazione delle terre. In campagna i contadini vanno in Mercedes.
I rapporti di contrasto che lei ha sempre testimoniato tra cultura e politica si sono stemperati?
Certo. Se oggi volessi fare un disegno graffiante, politico, non avrei un solo giornale che lo accetterebbe. Qualche anno fa ho fatto dei disegni che ho proposto al «Manifesto» sull’estromissione della falce e martello dalla bandiera rossa: hanno arricciato il naso perché è sembrata loro una grafica troppo dura. Tutto sommato devo però dire che attraverso interposti pensieri sono contento di poter fare oggi un disegno che è polemico ma non più graffiante. I tempi non lo giustificano.
Il suo caso prova che la cultura non fa più opposizione?
La cultura che faccia opposizione non esiste più. Dov’è? Io non la vedo. Quando penso di collaborare a un giornale di opposizione mi dicono no: mi guardano come una persona d’altri tempi, un sopravvissuto.
Eppure mai come oggi si è creato un clima di confronto dovuto al sistema bipolare.
Storie. L’opposizione dovrebbe uscire allora allo scoperto e dire non di ritirarci dall’Iraq ma chiedere cosa l’Italia è andata a fare in Iraq. Ha compiuto una sopraffazione colonialista, ecco cosa ha fatto. Ma questo non lo dice nessuno a sinistra. Io del resto da parecchi anni non mi occupo quasi più di politica perché avevo intuito da tempo che la situazione andava in questo senso. Esprimo i miei sentimenti civili e politici come pittore, facendo bei quadri, facendo bei libri nei quali dico le mie verità. Mi piace essere pittore che non ubbidisce più alle forzature che mi costringeva a fare su di me la politica.
E questa la chiama opposizione culturale?
La chiami come vuole. A me piace la verità e non so se la verità è opposizione.
La verità lei però l’ha sempre detta. Ricorda gli infuocati processi contro Ciancimino, Sindona, Gioia?
Quella era la mia attività non di pittore ma di intellettuale che scriveva sui giornali e che si impegnava come uomo civile.
Meglio allora che oggi quanto alla cultura?
Certo. Oggi non c’è più niente. Oggi c’è un clima di volgarità spaventosa, direi berlusconiana: una enorme nube di volgarità alla quale nessuno oppone un fatto culturale serio.
Meglio dunque quando lei era all’indice, sotto fuochi incrociati?
C’erano decine di migliaia di giovani come me di grande coerenza che dicevano le mie stesse cose.
Eppure solo dieci anni fa lei realizzò un disegno rifacendo «Guernica» dietro «Il sonno della ragione genera mostri».
Era la traslazione dalla politica alla cultura dello spirito dei miei disegni. Ma «Guernica» è uno dei quadri più brutti del Novecento. Ci è piaciuto perché rappresenta il bombardamento di Guernica. Un quadro diventato una bandiera, ma non mi ha mai convinto: uno sgorbione diventato un simbolo.
Ma il significato di cui lei ha voluto caricare quel disegno è politico. E non a caso capita all’indomani delle stragi di Palermo.
Riguardava piuttosto la cultura europea. Se vuole dire che non sono quello di dieci anni, le rispondo che io sono sempre lo stesso. Ma sono i tempi a essere cambiati. Cosa vuole: sono alla soglia degli ottant’anni e la mia corsa è spirituale. Eppure i disegni che faccio oggi e che mi scappano dalla mano sono enormemente vivi.
Secondo lei, chi ha rinunciato al proprio ruolo, la cultura o la società?
La cultura di oggi è stata fagocitata dal consumismo, dal mondo qual è diventato.
La sua attività di pittore ne ha risentito?
Un po’ sì. Mi salvo facendo dei libri. Ho fatto anche dei libri poltici che non hanno però trovato l’eco di una volta. Bisogna accettare il fatto che il mondo è cambiato, ecco il problema.
Parlerebbe nei termini di consociativismo tra politica e cultura?
Non lo so, perché non ho mai afferrato il senso di questo termine. Ma, certo, i rapporti tra cultura e politica non esistono quasi più. Come posso accettare che il direttore dell’Unità è stato fino a ieri consulente degli Agnelli?
Le ripugna questo scenario o accetta il risultato delle cose?
Mi ripugna, ma «fortunatamente» mi riguarda fino ad un certo punto perché sono prossimo a partire per un altro mondo.
Lei è stato grande amico di Vittorini. Anche lui è una figura legata al suo tempo?
Fu duramente contestato e io lo sostenni nella polemica con Togliatti, ciò che mi è valso per tutta la vita l’ostracismo dei vari Guttuso, Alicata, Togliatti. E pago ancora oggi, perché gli ultimi comunisti, i diessini, sono rimasti fedeli a quella chiusura cui votarono Vittorini. Fassino ha fatto l’apologia di Togliatti ma si è dimenticato di Vittorini, del Comintern, della guerra di Spagna, di Stalin... In questi giorni vedo un ritorno all’ordine con discorsi che mi fanno paura perché si tratta di discorsi zdanovisti: tutto un atteggiamento che la sinistra sta prendendo nei confronti della cultura.
Vittorini ha avuto eredi?
No. Lo stesso Sciascia che gli era amico e che gli diede ragione contro Togliatti era diverso. Vede, in Italia siamo tutti individualisti. Ognuno ha voluto dire la sua. Anch’io.
La battaglia di Vittorini contro il potere politico è stata una battaglia vana e persa?
Persa semmai da una ortodossia comunista che usò termini anche razzistici. Togliatti se ne uscì con una frasetta in siciliano prendendo in giro Vittorini e la Sicilia: «Vittorini si n’ha ghiuto e suli n’ha lassatu». Oscena, vergognosa. E c’è ancora chi gli dà ragione. Guttuso per esempio gli ha dato ragione fino all’ultimo.
C’è differenza tra la situazione siciliana e quella nazionale?
In Sicilia c’è il deserto. Non c’è niente di niente da un lato e dall’altro. E non c’è neanche una reazione. Si pensa ai fatti propri. Sì, si fanno tante più mostre ed escono tanti più libri, ma sono libri usciti magari trent’anni. Voci nuove zero. E’ operosissima invece la mafia che agisce in silenzio e gode della copertura di tutte le forze politiche che fanno finta di niente. Trafficano quanto più possono in tutti i settori della vita economica.
Forse perché mancano i Caruso?
A me non fanno più dire niente. Si ama la vita comoda e basta. Pensi, sono stato a Palermo in posti meravigliosi dove non mi è venuta mai voglia di fare il bagno a mare. Il consumismo ha dato a tutti grandi possibiltà ma si sta peggio. Se uno apre la televisione viene sopraffatto da una immensa nube di volgarità che ci schiaccia. Ho scritto più volte sulla televisione ma qualsiasi giornale italiano mi ha detto che non capisco dove oggi viviamo. Non si può parlare male della televisione. Ed è la televisione la responsabile dell’incretinimento di questo Paese che sta peggiorando giorno per giorno.
La cultura non ha responsabilità?
Certo che sì. Ma relativa. La cultura è stata travolta assieme a tutto il sistema.