mercoledì 8 agosto 2007

Il Gesù di Ratzinger, teologo prima che pontefice


Contro l’invalente ondata nichilistica (da Onfray a Odifreddi), che riprende un gurgite nicciano mai sopito; contro il fomite relativistico e la deriva buddista e islamica verso cui la coscienza occidentale viene sempre più risospinta; contro anche le tentazioni apostasiche e le tangenze protestanti, come pure contro l’insorgenza di una nuova
ufficiosa esegesi (vedi per ultimi Socci e Augias), la fede cristiana muove con la sua unità di guerra più potente: il papa. Il quale, nonostante qualche frequente rigurgito dello spirito anagogico, con questo libro, che è una enciclica essoterica senza scopi catechizzanti, è sul terreno storicistico e non su quello ben più agevole della dottrina della fede che accetta la sfida lanciata alla chiesa romana dalle forze dell’ateismo e della sconfessione.
Che sia il papa ad affrontare le ultime spinte centrifughe può mettere in allarme chi si aspetti un pontificale di anatemi e dogmi levato nel segno dell’infallibilità e dell’ispirazione celeste, ma vediamo come ad agire dietro le insegne vaticane sia la penna del teologo, l’abito secolare del quale copre i paramenti papali. Sicché in Gesù di Nazaret (Rizzoli) leggiamo Benedetto XVI ma comprendiamo Ratzinger, il massimo teorico vivente dell’ermeneutica cristiana, un vero e proprio ideologo della religione cattolica, la parabola della quale negli ultimi decenni si è andata sempre più svolgendo secondo le sue intenzioni e nel dettato di una epistemologia che, in qualità di «custode della fede», come è stato efficacemente definito, ha saputo egli trasfondere in una escatologia iussiva e asseverativa.


E se può fare specie immaginare il papa sedere a un tavolo di confronto con studiosi come Hengel, Wilckens, Bultmann per disputare sulle Scritture, o sentirgli citare Dante Alighieri per precisare che la «discesa agli inferi» di Gesù non è da spettatore ma da compartecipe del dolore del mondo, o vedere che accosta il rapporto personale di intimità di un credente con Dio a quello che unisce un uomo e una donna, non è però del pensiero dello speculatore tedesco, autore della fondamentale Introduzione al cristianesimo, che ci si può meravigliare quando non si tenga conto che questo libro è stato scritto come a quattro mani da Ratizinger e da Benedetto XVI perché iniziato prima del 2005.
Già il titolo, così diverso nel vasto repertorio ratzingeriano perlopiù intestato a spunti diffusamente referenziali e precettivi, indica un programma: parlare di Gesù e non di Cristo - e per tutto il libro tenere presente la figura dell’uomo e non del messia, del mortale e non dell’«unto» - significa partire da una sospensione di giudizio, da una epoché che è un vero apagón, una interruzione di corrente. Ratzinger smette la veste non solo episcopale ma anche quella teologale per indossare l’abito dello storico adottrinale, dello studioso che vuole, come egli stesso dice con accento icastico, maneggiare la «carne della storia» e mettere l’usbergo del guerriero che accetta le armi dell’avversario. 
Una volta ammesso come criterio di ricerca il «factum historicum» e accolto quindi il valore che determina il significato letterale di un testo, Ratzinger è pronto a confrontarsi anche con le stesse acquisizioni della fede. E se facciamo la tara a certe «ricadute» nella sfera dogmatica, il metodo di Ratzinger, estremamente coraggioso, può essere ritenuto di inusitata innovazione. Con l’avvertenza che si tratta di un metodo storico-critico al quale fa però da remora la pregiudiziale di Schnackenburg da cui Ratzinger dice di partire: e cioè che senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane inspiegabile. Legato a questo principio, vediamo perciò Ratzinger riapparire spesso sul pulpito e pronunciarsi in lucco di quaresimalista, com’è appunto nel caso della questione cristologica, interpretata nel senso di mistero del Figlio come rivelatore del Padre.
Ma allora, se questo è il presupposto, da dove nasce il «fondamento storico» che Ratzinger dice di assumere? Anzi dove arriva? È la domanda che si pone lo stesso Ratzinger, la risposta del quale è nel senso che «la fede biblica non racconta la storia come un insieme di simboli di verità storiche ma si fonda sulla storia che è accaduta sulla superficie di questa terra».
Proprio in questa chiave Ratzinger nota allora come Luca introduca Gesù nel momento del battesimo anche per poterlo fissare entro il quadro storico della dominazione romana, così da poter dire che «l’attività di Gesù non è inseribile in un mitico prima-o-poi» ma ha una sua precisa collocazione temporale. Non è una «epopea» insomma, come Ratzinger osserva circa il vangelo di Giovanni, così dissonante rispetto alla tradizione sinottica. Parliamone.
Per Ratzinger l’ultimo vangelo non è «operaletteraria», come vorrebbe Martin Hengel, ma la testimonianza del «veramente accaduto» resa con forza da un discepolo, Giovanni, il quale non ne è però l’autore. Ratzinger aderisce infatti all’ipotesi, divergente rispetto al canone, che Giovanni, «il discepolo prediletto», sia stato sì il testimone dei fatti ma che «trasmettitore e portavoce», l’«amministratore della sua eredità» e quindi l’autore del vangelo, sia stato invece il «presbitero Giovanni», attivo molti anni dopo nell’ambito della scuola giovannea. Non è una concessione da poco agli studi laici, ma Ratzinger non esita a prestarla pur di tenere saldo il «fondamento storico» del Nuovo Testamento: al punto da stabilire che se «una fede lascia cadere la dimensione storica diventa gnosticismo», che è la natura che Bultmann attribuisce proprio al quarto vangelo.
Non solo il vangelo giovanneo non è letteratura, come pretende anche Broer, ma neppure è ispirato dal Paraclito che, come pure propone Hengel, influenzerebbe metafisicamente la cerchia giovannea. Ratzinger anzi respinge l’intercessione dello Spirito santo pur di salvare la storicità dei discorsi di Gesù trasmessi dall’ultimo vangelo. Dove a pronunciarsi è una prima persona plurale che implica, con un reiterato «noi», la voce collettiva della comunità dei discepoli. La quale comunità è piuttosto ispirata da «un lampo» della memoria. Proprio così.
«Ai discepoli viene un lampo capace di insegnare loro a comprendere il fatto. Una parola della Scrittura che prima per loro era priva di significato diventa ora comprensibile nel senso previsto da Dio e conferisce all’avvenimento esterno il suo significato». È il ricordo a illuminare perciò i discepoli e non lo Spirito santo: ricordo da intendersi come confronto interiore, lo stesso che Luca riferisce a Maria intenta a ricordare i motivi dell’Annunciazione.
Ma che tipo di ricordo è mai questo? Ratzinger non glissa la questione: «Non è un mero processo psicologico o intellettuale, è un avvenimento pneumatico. Trascende la sfera del proprio umano comprendere». È solo in questa prospettiva che agisce semmai lo Spirito santo, che mostra così «la coesione tra parola e realtà». Di qui la straordinarietà del quarto vangelo, un «vangelo pneumatico», cioè interiore e spirituale in una accezione divina, perché non fornisce la «trascrizione stenografica delle parole e delle attività di Gesù ma, in virtù del comprendere nel ricordare, accompagna al di là dell’aspetto esteriore». La tesi è questa: i discorsi di Gesù non devono essere visti come «registrati su nastro magnetico» per essere considerati storici, bastando che siano «ricordati» seguendo la connessione tra realtà e memoria. Cosicché quella che è una funzione cardinale della letteratura, cioè la memoria, diventa nella visione ratzingeriana un principio attivo della storia.
Ma non crediamo che la questione sia risolvibile nei termini suggeriti, a meno di pretendere che ricordare significhi duplicare il fatto esattamente come è avvenuto, cioè ripeterlo mimeticamente. A ben vedere l’esercizio della memoria comporta piuttosto una modificazione dello stato dei realia laddove Hengel postula addirittura che voglia dire «violentare» i fatti. Del resto se il ricordo è - come vuole Ratzinger - elemento propedeutico e necessario al confronto interiore, non può che integrare un risultato psicomachico, una discontinuità anziché una coesione tra realtà e memoria.
Comunque sia, ancora nei termini di una lotta interiore incessante (e quindi nell’ottica di una dualità tra passato e presente, memoria e atto: che noi preferiamo osservare in una modalità più letteraria che storica) Ratzinger pone anche la missione di Gesù sulla terra. Non c’è solo la sua macerazione, tutto implosa intimamente, sul monte degli ulivi a documentare questa dinamica spirituale, ma anche le «tentazioni» entrano a fare parte del gioco di conflitto coscienziale che agita Gesù. Si tratta di un conflitto interiore che è requisito essenziale della venuta di Gesù perché riflette un contrasto ancora più grande, quello dell’umanità, «il dramma dell’esistenza umana» nel quale Gesù deve fare parte, compiendo «una discesa nei pericoli che minacciano l’uomo».
È una «discesa agli inferi» connaturata all’intero cammino di Gesù, da Betlemme al Golgota: già a cominciare perciò dal battesimo, atto al quale da un lato le tentazioni si legano perché sia lì che qui «Gesù si rende solidale con i peccatori» e dal quale da un altro lato ha inizio quella che Ratzinger chiama «teologia della croce». Il battesimo è inteso dunque come compendio della storia di Gesù e partecipa anch’esso - sebbene Ratzinger non lo specifichi - a stabilire la misura pneumatica, tutta interiore, perché «viene ripreso il passato e anticipato il futuro», involgendo perciò un movimento di memoria e predestinazione.
L’«agnello di Dio» è entro questa scala una ipostasi che al momento del battesimo annuncia già la croce e prepara il terreno a una ininterrotta e permanente discesa all’inferno come «ingresso nei peccati degli altri». Lungo questa disposizione della vicenda di Gesù la coesione dei fatti è ferma e il metodo storico-critico ha motivo di affermare le sue ragioni. Di qui il passo a una panoptica di tipo dottrinario e confessionale è più facile. L’agnello di Dio chiamato a togliere i peccati del mondo interpreta infatti un carattere universalistico della redenzione, giacché Israele rappresenta l’umanità intera e «non esiste solo per se stesso».
C’è di più: il «discorso della montagna» è la nuova Torah perché Matteo che lo riferisce presenta Gesù come il nuovo Mosé mentre la Montagna non è che il nuovo e definitivo Sinai. Inoltre le «beatitudini» sono dei «paradossi», dimostrazioni fondate nel senso di «promesse escatologiche nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell’uomo» dentro una logica di «rovesciamento dei valori». Che vuol dire? Che il vero profeta è Gesù, col quale si compie la promessa del messia, l’unico che possa guardare «faccia a faccia» il Padre perché ne è il Figlio. Che viene sulla terra per «ritrovare la pecorella smarrita, caricarla sulle spalle e riportarla a casa». Quindi il Deuteronomio non annuncia un nuovo David ma un nuovo Mosè. Che è Gesù, la cui dottrina deriva proprio dall’esperienza di Mosè e la cui parola va nel segno dell’adempimento della Torah.
Ratzinger è chiaro quando avvisa in partenza di avere fiducia nei vangeli e che nei soli vangeli intende impegnarsi per stabilire la natura storica di Gesù. Ma è anche al Vecchio Testamento che risale perseguendo l’obiettivo di dare un credo a tutti i discendenti di Abramo. Un progetto ambiziosissimo che risponde a un programma ecumenico e di riconciliazione a partire da Gesù di Nazaret. Il cui avvento viene annunciato proprio da Mosè, al quale è negato di vedere immediatamente il volto di Dio, dovendosi accontentare soltanto di vederne le spalle, mentre il privilegio spetterà, giusta l’enunciazione di Giovanni, al solo Figlio unigenito, nel cui nome si realizza quanto in Mosé, dice Ratzinger, «era solo imperfetto».