giovedì 31 ottobre 2013

L'incapacità di raccontare la mafia


La letteratura sulla mafia può essere divisa in due grandi stagioni: quella antecedente al fenomeno del pentitismo e quella successiva ad esso. Una data di svolta può essere quella della legge 82 del '91 che introdusse la figura del collaboratore di giustizia, ma non disciplinò che un fenomeno nato già da qualche anno. Con l'avvento dei collaboratori, primo fra tutti Buscetta che rivelò la "cupola", la mafia smise di essere un mondo avvolto dentro una nebulosa, per penetrare la quale fossero necessari i narratori, i soli capaci di immaginarla e di raccontarla, per divenire un emisfero rivelato nei suoi recessi più remoti: cosicché, non essendoci più niente da immaginare, il compito di osservarla passò dai narratori agli studiosi, in particolare ai giornalisti. 
In sostanza non si trattava più di ricorrere ai mezzi della letteratura per conoscere la mafia quale oggetto misterioso congeniale all'invenzione letteraria quanto di studiarla nelle sue dinamiche reali in via sempre più di acquisizione. Più aumentavano i pentiti e maggiore diventava il materiale portato sul tavolo di saggisti e giornalisti, di conseguenza cessò il romanzo di argomento mafioso del tipo di Sciascia e invalse un genere più conforme alle nuove acquisizioni storiche: ma non più nel modello de Il giorno della civetta quanto in quello rivisitato della serie Tv, format che diede La piovra prima e poi Il capo dei capi, una docu-fiction più che una fiction tout-court.
E’ agli inizi degli anni Sessanta che narrativa e storiografia si disputano il campo: nel 1961 esce il primo romanzo sulla mafia, Il giorno della civetta (ma Sciascia ha già scritto di mafia in sede di recensione di due saggi militanti) e nel 1962 arriva Mafia e politica di Michele Pantaleone. Si tratta dei due libri che hanno svelato, pur da ambiti opposti, la mafia agli italiani. Quando però nel 1963 nasce la prima Commissione antimafia, è più la figura di Sciascia che emerge, quindi è la letteratura nella sua forza di testimoniare la verità che fa premio, affermando così un primato che conserverà fino a pochi anni fa, anzi una prerogativa: quella di interpretare il fenomeno mafioso. Un fatto straordinario, perché l’invenzione letteraria si sostituisce alla ricerca storica e per decenni si propone come una fonte documentale di gran lunga più autorevole.
Negli ultimi anni solo due romanzi, di faticosa impronta epigonale, Più scuro di mezzanotte di Salvo Sottile e Willy Melodia di Alfio Caruso (e dispiace - ma è significativo - che a raccontare ancora storie di mafia nei modi dei più triti e corrivi stereotipi siano due siciliani), hanno avuto qualche visibilità, mentre sono prolificati libri testimoniali di vittime della mafia e di giudici, inchieste giornalistiche e sociologiche, saggi a sfondo politico, ricerche universitarie. Due meritano la stessa palma che Sciascia attribuì a Eric Hobsbawn e Henner Hess quando disse che sulla mafia entrambi avevano detto tutto; e si tratta ancora di due stranieri: Alexandre Stille, autore di Nella terra degli infedeli, e John Dickie che ha scritto Cosa Nostra, il primo del 2007 e il secondo del 2005. Del 2008 è poi Quando la mafia trovò l’America di Salvatore Lupo, giunto a integrare i primi due dal lato mancante degli intrecci oltreoceano tra siciliani e americani. Poi sono venuti saggi pregevolisismi come Il codice Provenzano e I pezzi mancanti di Salvo Palazzolo nonché, per citarne uno sugli altri, Pizzini, veleni e cicoria di Grasso e La Licata.
Cosa è successo? Lo studioso ha forse preso il posto del romanziere nel farci capire cos’è e dove va Cosa Nostra? Proprio così. I narratori non scrivono più di mafia perché non la conoscono negli svolgimenti interni che l’hanno trasformata in quella forma finale nella quale Sciascia prefigurava l’esito del fenomeno, e cioè nell’intermediazione parassitaria tra cittadino e Stato. L’ascesa al potere dei corleonesi, che dalla campagna hanno poi trasferito il regno nella città, l’espandersi dei campi d’azione della mafia, la sua globalizzazione, hanno sterilizzato i narratori rimasti fermi alla mafia rurale, ai rapporti di gomito tra il mafioso e il maresciallo o tutt’al più il deputato del posto. Se prendiamo i maggiori narratori siciliani, da Sciascia a Camilleri a D’Arrigo, Bufalino, Bonaviri, Fava, Addamo, tutti sono nati negli anni Venti e quelli più interessati al tema non hanno conosciuto che la mafia “onorevole”, quella di cui la relazione dell’Antimafia ha poi fatto un libro aperto e ricco di suggestioni romanzesche, di figure di cuntu e di una filologia del potere che si costituiva come contropotere, morgana fortemente tentata di elevare la mafia a sensi epici.
Nulla hanno mai saputo (dopo le inchieste di Falcone e Borsellino, la scoperta della cupola e del nuovo sistema di potere mafioso, il dilagante pentitismo) della nuova mafia, la mafia nuda. 
Così la letteratura, che ha fatto conoscere al mondo la mafia, oggi induce a travisarla e quella che restituisce quando prova ad aggiornarsi non è che una recensione.
Fintantoché “la Cosa Nostra” è rimasta un mondo oscuro e impenetrabile, i narratori si sono impegnati in un’opera di rappresentazione che ha anche ricoperto un ruolo efficace di interpretazione. Ma quando molti sipari si sono alzati e da Buscetta in poi la mafia ha cominciato a mostrarsi sempre più dal vivo e dal vero, il compito di spiegarne l’evoluzione - e lo svolgimento - è passato di mano secondo una logica inversamente proporzionale che tanto più penalizza il romanzo quanto minori lati oscuri la realtà manca di svelare.
I romanzieri hanno smesso di occuparsi di mafia quando hanno visto che la mafia era sempre meno immaginabile. Prima hanno provato a innestare in un contesto preso dal vero, ma tutto sommato non noto, personaggi di fantasia rimasti però dentro una sfera passatista e dismessa, infine - di fronte all’accumulo di realtà -hanno abbandonato il campo agli interpreti di mestiere. Che - dopo Gomorra e la prepotente insorgenza di una disciplina multimediatica di forte presa qual è lo storytelling - sono saliti in cattedra spodestando i narratori con l’introduzione di un espediente paradossalmente di natura narrativa e cioè la docu-fiction, il genere invalente non solo in editoria ma anche nella documentaristica. Anche il cinema ha cominciato a disinteressarsi del fenomeno sotto la specie narratologica, mentre la televisione ha potuto conquistare il grande pubblico con lo sceneggiato Il capo dei capi in forza non già dell’invenzione narrativa ma della resa ben aderente ai fatti che ne ha dato appunto la docu-fiction, ultima mediazione tra romanzo e saggio prima del consolidamento che si è avuto della forma interpretativa su quella rappresentativa. I tempi della Piovra, invenzione pura, sono davvero tramontati.
Ma c’è un’altra ragione intervenuta a sfavore dei narratori. Il romanzo contemporaneo si nutre di scene forti, di figure icastiche, di terribilismo e può avere fortuna solo se anche la realtà offre altrettanti eccessi. Fino a quando la mafia sparava e uccideva, riempiendo i giornali di sangue, il romanzo era nel pieno delle sue possibilità. Ma da quando la mafia ha smesso di uccidere e dopo Riina ha scelto il profilo basso, il romanzo si è trovato a scegliere tra rappresentare una realtà che non c’era più, e finire dunque nella favola, o farsi romanzo storico. Oppure ancora tacere. Ed è quello che è stato costretto a fare. Manca sì il romanzo ma per fortuna e in compenso c’è un sacco di gente viva
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