Ora si ha la prova che – come un buon cristiano, presago forse della morte o comunque deciso nel ribadire il suo unico credo: “Più m’attempo e più voglio morire” – Gesualdo Bufalino negli ultimi giorni fece i conti con l’Angelo e scrisse un testo, chissà se l’ultimo, destinato in un primo tempo a “Famiglia cristiana” ma regalato poi (in un conato di risipiscenza) a un amico di Lentini, un capitano di marina accanito raccoglitore di suoi cimeli, Leonardo Siliato, che ne ha fatto un quadro.
Il dattiloscritto, travolgente e rivelatore, giunge a spiegazione anche del legame che univa Carmelo Barone e Bufalino, non limitato certamente alla Fiat 127 che lo scrittore, sprovvisto di patente e sempre ansioso in macchina, gli aveva affidato scegliendolo come “automedonte” (e chiamandolo tale) per i suoi viaggi fuori Comiso.
Era probabilmente la fede a unirli, proprio perché religiosissimo il primo e decisamente ateo l’altro. In macchina non parlavano d’altro. E litigavano. Senonché una volta Bufalino gli regalò una Bibbia con una dedica spiritosa: «Al mio caro compagno di viaggio». Ma il pomeriggio del 14 giugno 1996 è stato lui a non tornare dall’ultimo viaggio quando, per una discussione, una delle tante sul tema, Barone imboccava distrattamente la statale Vittoria-Comiso anziché l’abituale «via del Deserto», portandolo sotto un’impossibile pioggia di giugno («Da ragazzo mi piaceva il rumore della pioggia» ha appena scritto nell’incipit del suo ultimo romanzo) all’appuntamento con il destino. Barone ricorderà l’epitaffio che lo scrittore gli aveva rivelato anzitempo: ”Hic situs, luce finita”. Aveva protestato vibratamente: «Dopo la morte la luce comincia, non finisce!». Quella volta Bufalino era rimasto per tutto il tempo zitto, preda dei dubbi che rendevano Barone pur ottimista circa l’auspicata illuminazione del suo compaesano più nichilista. I presupposti c’erano in realtà.
In un suo libro regalato a una suora, Bufalino non si era forse detto «uomo di ricerca»? E non aveva alla fine accettato che fosse posta la croce sulla sua tomba dopo che gli era stato fatto notare che anche suo nonno mangiapreti aveva detto sì? E sposandosi a 62 anni non aveva partecipato devotamente ai corsi preparatori? Di più: il giorno del matrimonio padre Farruggio (lo stesso che celebrerà anche i funerali) non aveva detto che Cristo era venuto non per spiegare la croce ma per distendersi su di essa sicché Bufalino, raggiungendolo in sacrestia dopo la funzione e prima dei confetti, gli aveva chiesto se avesse citato Claudel per lui?
Quei presupposti e le speranze dell’autista trovano ora nuovi elementi di approfondimento nel testo sconosciuto di Bufalino, che è contenuto sul retro di due pagine di una enciclopedia delle religioni, misura 65 righe dattiloscritte cosparse di numerosi emendamenti apportati anche a penna e costituisce un testamento di fede e dubbi. Bufalino dà conto della sua frequentazione sin da ragazzino con la Bibbia e della paura mista all’attrazione che ne aveva: «Il testo sacro mi entrò negli occhi prima ancora che nella testa e nel cuore. Vero è che lo leggevo e lo rileggevo tumultuosamente, cercando con maggiore passione le pagine dell’antico Testamento, specie quelle dove le peripezie romanzesche e le attrattive della paura trovavano varco più favorevole. Non che non mi turbasse, nella sua misteriosa ambiguità, il lamento amoroso della Sulamita, epperò a scolpirsi e a durare nella memoria furono certi solitari frammenti epico-tragici, vere e proprie schegge di folgore: “Ed ecco cantarono le tube delle Tue cataratte!”; oppure: “Passai e l’empio era là. Passai di nuovo e l’empio non c’era più…”».
Poi il Levitico, «minuziosa casistica di prescrizioni rituali, grondanti del sangue di bestiole innocenti» segna un lungo distacco che sarà però colmato dalle lettere agli Ebrei e ai Colossesi, ma soprattutto dal Salmo 10, «che afferma e celebra il sacerdozio eterno e l’universale regalità del Messia. Ciò bastò, non dico a disarmare, ma a disorientare il mio pregiudizio». A questo punto la Bibbia diventa per Bufalino un polo di attrazione e repulsione insieme: «Ne nacque e crebbe dentro di me la visione della Bibbia come labirinto infinito, dentro i cui meandri ogni parola risponde da lontano alle altre e le propaga, arricchisce, rimodula non diversamente da un organo che di canna in canna moltiplichi una frase di musica eterna. Ne dedussi, obbedendo a un impulso dell’anima e contro ogni filologia, la particolare natura di opus sacrum per un libro così straniero ad ogni altro. Un libro da cui ritengo che nessuno possa prescindere, nemmeno chi (io fra questi) si logora nel suo rapporto col divino come in un duello funesto e interminabile, una notte di Giacobbe perpetua, senza vinti né vincitori».
La conclusione della lettera sembra una palinodia, ma chiunque può leggerci anche una confutazione in articulo mortis del suo anarchico ed eretico epitaffio: «Ciò che in me sopravvive – e voglia il cielo che sopravviva sino alla fine – è solo il tremito intermittente d’una nostalgia, d’un rimorso, d’una speranza. Un tremito che pare annunzi l’epifania d’un istante di privilegio. Come chi, espulso da un Eden, nell’esilio della sua cecità, avverte d’un tratto un bagliore tornare a insinuarglisi fra le palpebre cucite e resta, incerto fra riverenza e spavento, a rabbrividire di fronte all’inconoscibile».