mercoledì 23 ottobre 2013

Reportage di Consolo da Palermo infelicissima


Scherzava il capo di gabinetto dell’assessorato alla sanità quando nell’agosto del 1975 diceva a Vincenzo Consolo che la Regione non avrebbe più fatto assunzioni. E l’autore, che aspettava di lì a poco la pubblicazione del Sorriso dell’ignoto marinaio, il libro dell’infingimento massimo, l’aveva ben capito se subito dopo si faceva ammettere che il nuovo personale sarebbe stato reclutato dalle mutue e dunque assunto.
Il Consolo che compie quello che chiama «viaggio di agosto negli uffici di Palermo» (capitolo inspiegabilmente posto dal curatore del libro Sellerio, Esercizi di cronaca, sotto il titolo vittoriniano e fuorviante di “Conversazioni”, come per due volte - per non chiamarle “interviste” quali in fondo sono - Consolo intende gli incontri con i capi dell’ufficio di Stato civile e il funzionario regionale) è lo stesso che anni dopo, in Le pietre di Pantalica e L’olivo e l’olivastro, allungherà il passo da Palermo a tutta la Sicilia: ma lo farà con una sensibilità diversa e un accento amaro e dolente che nei suoi reportage dalla città di vent’anni prima sono ancora allo stato larvale e innocente della curiosità disincantata intrisa di un’ironia pronta e divertita. 
Consolo visita l’anagrafe comunale, l’assessorato regionale alla sanità, la sede dell’Inps e l’ufficio delle imposte in taccia di un ispettore che capiti in incognito e improvvisamente in un ufficio pubblico, tant’è che non avvicina nessuno degli utenti né rivolge loro domande ma si confonde con essi, in coda, registrando quel che sente e annotando ogni sequenza - salvo essere smascherato e portato nella direzione dello Stato civile dove per, “chiarire la faccenda”, ottiene un’intervista. 
Soltanto alle Imposte dirette Consolo si presenta nel suo ruolo per seguire lo sciopero dei dipendenti con cui parla, ma nemmeno questa volta usa la prima persona o la terza (tipica da La ferita dell’aprile fino ai libri d’inchiesta futuri), fermandosi piuttosto ad una esclusiva forma impersonale e riflessiva tanto più significativa perché connota una scelta di identità, per cui il Consolo “giornalista”, pur servendosi del dialogo e della descrizione, prende personalmente e apertamente le distanze dallo scrittore che intende continuare a essere e col quale non vuole sia fatta confusione. 
In realtà di giornalistico c’è poco nel Consolo embedded a “L’Ora”, il quotidiano sul quale scrive già dal ’64 e dove continuerà a pronunciarsi ancora dopo il ’75: la spinta è in effetti a narrare fatti anziché riportarli. Ma lo stile, sia pure non squisitamente giornalistico, è magro, essenziale, colloquiale: lo stesso degli scrittori siciliani della sua generazione, da D’Arrigo a Brancati a Sciascia, che usano gli organi di stampa cominciando per raccontare faits divers e finendo per essere critici letterari o d’arte, per poi affrancarsi in definitiva dal giornalismo inteso come esercizio. Appropriato allora appare il titolo della raccolta selleriana, dove gli articoli di Consolo sugli uffici pubblici palermitani restituiscono un autore quarantaduenne che, ancora non minato dalla disillusione, nel capoluogo siciliano vede non più che un teatro sul quale lo Stato è intento, prima e molto più della Regione, ad arricchirsi a spese della «comunità sociale».
Nel ’75 Palermo è ancora una città socialmente uguale alle altre e i suoi impiegati pubblici travet come quelli che vede da tempo a Milano. Meno di quindici anni dopo Palermo sarà invece quella irredimibile delle Pietre di Pantalica: «fetida, infetta», dove (in un «luglio fervido», perché i viaggi di Consolo, smanioso di tornare sempre in Sicilia, si svolgono immancabilmente in estate) «esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo». 
Ma nei primi quindici giorni di agosto di 38 anni fa, appena reduce da un ben diverso “viaggio”, a Marsala, nell’abominio della natura umana, Consolo si immerge nella sociodiversità dell’apparato pubblico, con una febbre gioiosa e un lucido esercizio di intelligenza, alla scoperta di andazzi e paradossi, figurine e siparietti che, se ritroviamo tutt’oggi immutati, ci danno tuttavia un Consolo più indulgente critico dei guasti statali, ancora lontano dal diventare l’irriducibile e implacabile inquisitore degli sfaceli sociali e culturali di una Sicilia che percorrerà da allora in poi con un crescente senso di morte. 
Senonché la Palermo che Consolo coglie nel ’75, nei suoi meandri pubblici e le scartoffie, le code agli sportelli, il malcontento popolare, addirittura la crisi economica, una Palermo resa in naïvité nell’eco del chiacchiericcio e del motto salace, degli strepiti e delle grida, nella coscienza vieppiù di non essere “felicissima”, è la stessa di oggi. Raccontando quella che vedeva, Consolo ha insemprato una città dal vivo, un retablo di quadri realistici e divinazioni di cui ha preso l’anima e ce l’ha lasciata in ostensione.