sabato 7 dicembre 2013

Il dramma antico si recita a soggetto


Il problema è a monte. O alla base. Cioè nello statuto: una farragine di figure dirigenziali e di attribuzioni tale da apparire una giungla. Tanto che, anche per cogenti ragioni di spending review, è stato modificato nel numero dei consiglieri, ridotti da otto a cinque.
E forse, c’è chi dice, nel titolo di presidente che non sarà più concesso al sindaco di Siracusa. Senonché il ministro dei Beni culturali Massimo Bray, forse aspettando che maturi un accordo politico di spoil system, s’è preso ancora tempo e non si decide ad approvarlo, tenendo congelata una situazione che invece si è fatta esplosiva. 
Se varasse il nuovo statuto (ma nessun parlamentare siracusano è riuscito finora a convincerlo) Bray permetterebbe il rinnovo del Consiglio di amministrazione e l’esonero del commissario plenipotenziario Alessandro Giacchetti, che da aprile ha esautorato tutti gli organi dando anche vistosa mostra di volere rimanere oltre il 31 dicembre, data della scadenza del suo mandato. 
Ed è forse proprio questo che Bray per il momento non vuole che avvenga, forte del fatto che il decreto con cui Giacchetti è stato ad aprile insediato specifica chiaramente due cose: che, a prescindere dal prossimo San Silvestro, lui rimarrà comunque fino al rinnovo del Cda e che il Cda non potrà appunto essere nominato se prima lui non avrà approvato lo statuto. Con molto aplomb e altrettanza arguzia il commissario ha potuto in questo modo dichiarare: “Sono mandatario del ministro Bray e sarà lui a decidere il mio ruolo”. Tradotto vuol dire che, siccome il ministro non vara lo statuto, non può dunque nascere il nuovo Cda, per cui Giacchetti rimane al suo posto, dove lavora alacremente, e da solo, all’organizzazione delle celebrazioni (se ci saranno) del centenario. Una ricorrenza questa che però è già trascorsa, dal momento che l’Inda nacque nel 1913. Eppure sono proprio i cento anni della fondazione dell’Istituto del dramma antico che si pensa l’anno prossimo di consacrare, quando semmai sarà l’inizio delle rappresentazioni classiche, avvenuto nel 1914, ad essere al centro di una festa che per tutti è diventata il pretesto per dirimere le spinose questioni sul tappeto. E’ un vecchio ritornello: la sacralità dell’Inda, la priorità degli Spettacoli, ora la preminenza del centenario, sembrano per esponenti politici, parti istituzionali, associazioni e cospirazioni motivi buoni per intervenire, ma la ragione è sempre la stessa: mettere le mani sulla fondazione.
Così nelle ultime settimane le interrogazioni parlamentari si sono moltiplicate allo scopo di mettere fretta al ministro. Ovviamente il più solerte è il Pd, visto che il sindaco di Siracusa Giancarlo Garozzo, presidente per statuto dell’Inda, è uno di area democratica e freme perciò per riprendersi il Dramma antico: al punto da aver approfittato dello scontro tra il vecchio Cda e l’assessore regionale Stancheris per ribadire che la città è stata estromessa e che, giustappunto, “diventa ancora più urgente riportare la fondazione sotto una gestione ordinaria”. La sua. 
Il timore generale è che Giacchetti, già commissario del Comune e ora della Provincia oltre che dell’Inda, possa passare alla storia come l’artefice massimo del centenario. Per questo un drappello di deputati nazionali del Pd ha definito in una interrogazione la permanenza di Giacchetti “oggettivamente inopportuna e lesiva dell’immagine della fondazione oltre che della collettività siracusana, rappresentando un vulnus per la preparazione delle rappresentazioni classiche del 2014 e della celebrazione del centenario”. Ma la verità è che il Pd vuole hic et nunc la poltrona di presidente dell’Inda: cosa che Stefania Prestigiacomo ha riconosciuto come legittima, salvo segnalare il paradosso per cui “il sindaco rivendica la presidenza che il governo Prodi, attraverso il ministro Veltroni, aveva allontanato da Siracusa, portandola a Roma”. 
Anche gli intellettuali siracusani (cioè nove avvocati, quattro sindacalisti, cinque esponenti politici del Pd e una squadra di insegnanti) hanno preso posizione contro il commissariamento e per la siracusanità dell’Inda, un’egida questa che è stata però fonte solo di confusione. Nel 2009 altri due parlamentari del Pd, Alessandra Siragusa e Antonino Russo, firmarono infatti un’interrogazione per la sprovincializzazione dell’Inda divenuto troppo siracusano dopo che l’istituto aveva “tradito le sue finalità cedendo a miopi spinte localistiche e facendo mancare il respiro nazionale e internazionale”. Ma erano palermitani e forse avevano in ubbia un Inda a denominazione d’origine certificata. Il fatto è che mentre si vuole una fondazione a trazione siracusana si fa ben poco per chiamare a bordo le personalità siracusane più in vista e si sceglie il doppio e distorto binario della xenofilia quanto ai consiglieri e ai sovrintendenti e della oikofilia quanto ai dirigenti con le mani in pasta. Un pasticcio. 
Sicché l’Inda è oggi un classico teatro di gran confusione. Come quella contenuta nel big bang, lo statuto appunto. Il quale ha creato ben cinque organi dirigenti: il presidente, il Consiglio di amministrazione, il consigliere delegato, il sovrintendente e il collegio dei revisori dei conti, i cui compiti si aggrovigliano e intrecciano come serpi intersecando quelli di altre figure esterne ma altrettanto incisive e nevralgiche quali sono il ministro dei Beni culturali, l’assessorato regionale al Turismo, il Comune, la Provincia e l’estemporanea associazione Amici dell’Inda che non ha nel Cda diritto di voto ma è quella che fa la voce più grossa e la più ascoltata. 
Intendendo insomma creare una rete sicura di controlli e di veti, i padri dello statuto non hanno in realtà che posto le basi perché esso fosse violato e interpretato in maniera levantina. Un esempio è l’art. 10 che fa obbligo a tutti i consiglieri di rispettare “il principio di riservatezza sui fatti inerenti la vita della fondazione” conferendo al solo presidente la facoltà di informare la stampa. Ma non c’è nessuno del disciolto Cda che abbia mai taciuto, anche solo aggiungendo la firma a un documento destinato alla stampa, com’è stato nell’ultimo caso di presa collegiale di posizione contro la Stancheris, assunta nonostante la decadenza da mesi dell’organismo. 
A ben vedere, la riservatezza all’Inda, un vero tabù, è un ufficio da tutti esercitato solo in riferimento ai conti di gestione, finiti prima sul tavolo della Stancheris e da questa portati su quello del procuratore capo di Siracusa ad arricchire il fascicolo giudiziario già aperto da anni. Quando qualcuno si è ricordato dell’obbligo statutario del silenzio c’è stato qualche altro che puntualmente ha fatto avere documenti e carte alla stampa. La quale ha finito per essere vista come ostile e quindi da combattere. E come succede in questi casi, è risultata la responsabile dello stato di instabilità della fondazione e quindi nemica della siracusanità. Il sovrintendente decaduto, Fernando Balestra (per il cui mantenimento in carica sono scesi in campo un po’ tutti, dalla Prestigiacomo alla solita società civile fino anche al cugino di Ivan Lo Bello, padre Rosario Lo Bello della parrocchia di San Paolo, attestati in una levata di scudi che tradisce i debiti morali di gratitudine accumulati nei suoi confronti), anziché stare zitto ha addirittura urlato. Contro il ministro Lorenzo Ornaghi. 
Successe di domenica, il 30 dicembre scorso. Balestra non esitò a precettare un’addetta di segreteria, fece aprire appositamente l’istituto e dettò una lettera di fuoco contro il ministro dei Beni culturali, colpevole di non avergli rinnovato per la terza volta il mandato. Balestra gli ingiunse anzichenò per iscritto di farlo immediatamente, si promosse sul campo salvatore dell’Inda e minacciò naturalmente le vie legali. Dopo otto anni aveva ritenuto di essere diventato inamovibile. E pensava di poter fare la voce grossa perché la deputazione siracusana, in maniera pressoché bipartisan, lo voleva ancora sovrintendente. Ma se aveva qualche possibilità di restare, quella lettera fatta arrivare a un quotidiano da qualche manina più lunga della linguaccia che la guidava gliela bruciò definitivamente. Infatti è sparito dalla scena e le vie legali aspettano ancora lui. 
In realtà - non si sa bene perché - non c’è nessuno che una volta all’Inda non voglia poi rimanerci. Non solo Balestra, ma adesso anche Giacchetti punta i piedi, anche se sulle punte. Intanto il sindaco Garozzo rivuole il telecomando in mano, mentre quello dimissionario, Roberto Visentin, continua a firmare come membro del Cda e il suo vice, Concetto La Bianca, evoca la feroce battaglia ingaggiata a inizio dell’anno con il consigliere delegato Enza Signorelli su chi spettasse convocare il Cda dal momento che anche in questo caso lo statuto è un enigma da interpretare. 
C’è anche chi va via, per la verità. Manuel Giliberti per esempio: un architetto siracusano che molti in città avrebbero voluto come sovrintendente al posto di Balestra, ma che non è entrato nemmeno nella lista dei tre disegnati dal Cda, per cui se n’è andato dicendo peste e corna dell’Inda e dei suoi reggitori. Dopo nove mesi, il tempo di concepire un rinsavimento, è però tornato come consulente dicendone meraviglie e mirallegro. Ora è in lizza per un posto nel futuro Cda ristretto. Anche questo, se si vuole, è siracusanità. 
Colpa di uno statuto che volendo fare ordine ha invece provocato un gran disordine dando la stura a una destabilizzazione permanente. In un fandango di conflitti, controversie, dispute e dichiarazioni di incompetenza, come se non bastasse la pletora di cariche dirigenziali, da anni è nata dal niente una nuova figura cacuminale e senza scadenza, fuori da ogni previsione statutaria: quella di responsabile dell’organizzazione generale. Nella guerra da basso impero in corso ormai da un decennio, questa figura è divenuta la più alta in carica, soprattutto oggi visto che l’Inda manca del Cda e del sovrintendente. Rimasta da sola ha moltiplicato il suo potere e continua ad allargarsi come l’universo. Si tratta di una donna senza arte né parte ma con grandi capacità organizzative, quelle che del resto richiede lo statuto. In sostanza chi comanda realmente all’Inda, molto più del commissario che non può conoscere tutto il bastimento e deve dipendere da lei, è un’addetta all’amministrazione che ha fatto carriera e che, come i centurioni romani, si è eletta imperatrice sugli scudi. Si chiama Vanessa Mascitelli ed è la stella attorno alla quale orbita l’Inda, oggi come ieri. Lo sanno tutti. Anche i deputati. Ad uno di questi non ha avuto remora alcuna a urlare al telefono parole definitive: “All’Inda comando io e me ne fotto di tutti”. Comanda tanto che quando partorì non perse tempo a fare la puerpera e chiese di poter lasciare l’ospedale per tornare subito in ufficio: non per smaltire l’arretrato ma per rioccupare una postazione che sapeva benissimo non può essere lasciata per troppo tempo vuota. 
Ma chi è Vanessa Mascitelli, la dea ex machina del Dramma antico e una delle migliori clienti di Papini? Fatta assumere come ragioniera dall’allora sindaco Titti Bufardeci, Vanessa è figlia di Umberto, un uomo con qualche problema con la giustizia dalle cui spire è uscito però pulito. Arrivata in istituto, Vanessa fa intendere presto quali sono le sue mire. C’è chi ricorda il trattamento usato a una aspirante impiegata che aveva presentato un curriculum: le disse che non c’era alcun curriculum suo ma glielo sbatté sul tavolo alla prima intimazione di denuncia. 
Allergica dunque alle complicazioni di legge e sensibile alle agevolazioni della carica, Vanessa piano piano mette sotto scopa tutti. Ma mette anche dentro gente a lei vicina: a stare almeno a un deputato, Pippo Gianni, che agli inizi dell’anno presenta una interrogazione al calor bianco, benché edulcorata rispetto alla bozza originale. Nella quale esprime il sospetto che “la gestione della fondazione susciti più di qualche perplessità”. 
Una di tali perplessità conduce al marito della Mascitelli, Angelo Renato, che avrebbe avuto affidata senza gara pubblica la stampa del materiale di promozione e la cura della campagna pubblicitaria nonché l’organizzazione della partecipazione alla Bit di Milano, sempre utilizzando personale, mezzi e attrezzature dell’Inda. 
Gianni sostiene che “da anni tutte le gare di appalto sono vinte sempre dalle stesse ditte”. Le ditte sono due, la Alessi e la Damir, che il 10 gennaio il consigliere delegato Enza Signorelli difende con forza trattandosi di  “concessionarie aventi capillare copertura sull’intero territorio regionale per cui non necessitano di intermediari”. Il riferimento è proprio al marito della Mascitelli. Il quale in realtà non è dipendente di nessuna delle due ditte, perché ne ha una sua, la Faan, che a Siracusa si occupa di pubblicità e che proprio il giorno prima, il 9 gennaio, ha trattato poster, impianti ed altre esposizioni per la stagione Inda ventura in virtù di una commessa avuta dalla concessionaria Alessi. La quale ha ricevuto l’appalto a trattativa privata, metodo che la Signorelli chiama “assegnazione di incarico” e che esalta senza riserve, convinta che sono ormai “lontani i tempi in cui l’Inda acquistava spazi pubblicitari da chiunque offerti, pagava provvigioni ad agenzie di servizi per reperimento sponsor locali e per fornitura hostess”. Insomma, il passaggio dal favoritismo verso tutti a quello verso pochi, anzi due fornitori soltanto, viene visto come un grande passo avanti. 
Per Pippo Gianni l’impulso della Mascitelli a pensare alla famiglia non si ferma al marito. Così, il suocero ottiene il servizio di distribuzione dei cuscini nella cavea, la cognata si occupa della vendita al pubblico del merchandising prodotto ovviamente dal marito, la nipote acquisita bada alla biglietteria e la figlia addirittura figura nella brochure di alcune tragedie. 
Il consigliere delegato, in altre parole l’amministratore dell’ente, la figura responsabile delle spese e degli incarichi, non batte ciglio e firma. Se Enza Signorelli, designata dal ministero dei Beni culturali e sponsorizzata da Stefania Prestigiacomo che l’ha definita “una donna con le palle”, appare in posizione subordinata rispetto a una addetta priva di un ruolo istituzionale e ufficiale alla quale sembra che faccia da segretaria, si può bene immaginare il peso almeno triorchistico che ha conquistato Vanessa nell’istituto. Praticamente ha fatto il bello e cattivo tempo, arrivando anche a pretendere di poter imporre al ministro la scelta del sovrintendente sulla base non certo dello statuto ma del fatto che lei è l’Inda. 
Fabio Granata, di cui oggi si sono perse le tracce ma che fino a qualche anno fa ha potuto godere anche di una copertina di Panorama per certe operazioni familistiche e affaristiche di collaterale tenore, ha definito la Mascitelli “una delle più esperte organizzatrici che ci siano in Italia”. Ma forse voleva dire “sperte”. Più sperta certamente di Enza Signorelli, che di per sé è già una potenza per efficienza ed efficacia. Ed è pure, almeno era, in quota Popolo della libertà. 
Gabriella Carlucci, parlamentare berlusconiana, si pronunciò nei confronti della Signorelli in termini così encomiastici da fare pensare all’avvento di un messia rosa che come aveva fatto miracoli in banca era pronta a esibirsi in teatro, sia pure antico. Ne lodò in commissione “la brillante carriera all’interno di istituti di credito principalmente in Sicilia e l’attuale impegno quale imprenditrice nel settore vinicolo” pensando che quei meriti fossero il massimo delle credenziali per dirigere l’Inda. Senonché lo statuto stabilisce che i componenti del Cda - e ancor di più quindi il consigliere delegato - debbano essere scelti tra personalità di alto profilo quanto a competenze letterarie in materia di studi classici. Ma l’abbiamo capito ormai: lo statuto dell’Inda è un’indicazione di massima, tant’è vero che insieme con la preparazione culturale richiede anche capacità organizzative: ma evidentemente non insieme, bensì a scelta. Certamente tali attitudini manageriali sono innegabili nella Signorelli se è vero che la bancaria vitivinicola non ci pensò due volte a dichiarare guerra al vicesindaco quando il sindaco Visentin si dimise sperando in una poltrona romana di deputato e lasciando l’Inda alla furia degli eventi e nelle mani di un vice tutt’altro che disposto a sbrigare l’ordinario e a restare nell’ombra. 
La Signorelli sostenne di essere l’unica titolata a convocare il Cda, adempimento necessario per stabilire la terna di candidati a sovrintendente da proporre al ministro. Il vicesindaco facente funzioni La Bianca s’impuntò invece sul contrario, assumendo di essere lui il presidente dell’Inda. Naturale fu allora rivolgersi allo statuto, ma la legge istitutiva della fondazione è rimasta come al solito muta. Anzi balbuziente. Prima dice che il presidente, cioè il sindaco, convoca e presiede il Cda e dieci righe dopo aggiunge che, in caso di assenza o impedimento del presidente, le relative funzioni sono esercitate dal consigliere delegato. Ed elenca tra il prima e il dopo una serie di funzioni tra le quali potrebbe e non potrebbe rientrare anche la facoltà di convocare il Cda. Facoltà che, spettando al sindaco, in teoria dovrebbe passare al vicesindaco. Che però non è nemmeno contemplato. 
Succede allora che sia il consigliere delegato che il vicesindaco convocano il Cda. Che va deserto. Ma questo conta poco o niente. Sicché la Signorelli esce con l’onore delle armi, o meglio con gli onori degli armigeri: quanti cioè hanno brigato per la riconferma di Balestra stilando una terna di nomi scelti perché due fossero scartati dal ministro e uno risultasse il solo da nominare. Cioè Balestra. 
Ma Ornaghi non ci cade e cassa tutt’e tre i pretendenti chiedendo che gli siano proposti altri nomi, adempimento cui provvede stavolta il vicesindaco facendone da solo non tre ma cinque e ottenendo un’altra ovvia bocciatura perché la proposta della terna è di competenza del Cda. 
Del tutto inevitabile dunque che, di fronte a un campo di battaglia così sconvolto e a un inasprimento continuo dello scontro, il ministero decida per la nomina di un commissario straordinario da insediare subito dopo la decadenza del Consiglio di amministrazione: mettendo così fine a una campagna condotta da schieramenti contrapposti che in realtà sono riconducibili uno al Comune, appannaggio del Centrosinistra, e l’altro all’Inda di Balestra e Prestigiacomo, retaggio di un’amministrazione decisamente berlusconiana. Ma alla fine quanti hanno partecipato alla guerra, parteggiando per i due fronti rivali, sono risultati gli stessi che, sotto un’unica insegna di strette alleanze e un’uniforme linea di attacco, si sono ritrovati ad accusare prima Ornaghi e poi Bray di non volere la normalizzazione dell’Inda. 
Il Pd mobilita allora le deputazioni perché il commissario vada via e l’Inda torni nel proprio alveo. Il Pdl invece si appella ai meriti conquistati nella missione di salvataggio dell’istituto compiuta da Balestra per mantenere la leadership. E in effetti è proprio vero che con la triade Balestra-Signorelli-Mascitelli, al comando per otto anni senza frizioni e fazioni, l’Inda ha potuto superare la lunga stagione della crisi e dei bilanci in rosso, collezionando dal 2007 in poi una serie ininterrotta di incrementi di fatturato che sono aumentati parallelamente alla crescita progressiva di pubblico. Non solo. La nomenklatura si è messa alle spalle anche la fastidiosa inchiesta giudiziaria sulla malagestione dei primi anni Duemila, inchiesta finita con oltre cento incriminazioni per mafia e un processo di assoluzione plenaria e generale. 
Ma proprio in tema di conti il solito Pippo Gianni ha voluto farne qualcuno per conto suo ed ha avanzato un sospetto bruciante circa la stagione dell’anno scorso. Ha proceduto acquisendo due dati certi: quello del pubblico presente, calcolato in 157 mila presenze, e quello dell’incasso, pari a tre milioni di euro. Ha poi sottratto 12 mila biglietti omaggio e ha moltiplicato il prezzo medio di ingresso di 35 euro con il numero degli spettatori risultanti paganti, cioè 145 mila. Il prodotto anziché fare tre milioni ne esita cinque. Mancano quindi due milioni, anomalia che induce Gianni a chiedersi se sono stati staccati più biglietti non conteggiati oppure se il surplus è semplicemente sparito, come succede spesso negli enti pubblici in tempi come questi. Avviata l’inchiesta giudiziaria, che punta a fare luce sui conti di gestione come anche sulla parentopoli che si è propagata anche all’esterno, includendo parenti di esponenti vicini all’establishment dell’Inda, il livello di tensione anziché abbassarsi si alza ancora di più e finisce per coinvolgere tutto il sistema di contributi soprattutto regionali. Ancora Pippo Gianni, stavolta nella veste di membro della commissione Cultura all’Ars, si fa promotore a questo punto di un’audizione e convoca la Signorelli per sentirla circa l’impiego dei contributi. 
La Signorelli, accompagnata da Monica Centanni, vanta la lotta per cacciare la mafia dall’Inda, ricorda la ripresa economica dell’ente e l’abbattimento del debito, onora il Cda e in definitiva non dice niente delle modalità di spesa, per cui il grillino Venturino, onorevole debuttante, chiede la riduzione dei contributi anticipando di otto mesi l’assessore regionale al Turismo Michele Stancheris che, sospendendo il finanziamento e avanzando richiesta di restituzione dei fondi, definirà le carte dell’Inda “allucinanti”, epiteto che il Cda dimissionario bollerà come “non consono al codice espressivo della buona politica” quando invece appare fin troppo espressivo, appropriato del resto a una sciatrice abituata alla luce forte. 
La Stancheris rilancia e parla apertamente della necessità di ripristinare condizioni di legalità prima che di normalità per cui porta le carte alla Procura di Siracusa adombrando quindi irregolarità in odore di reato. La replica del Cda è dello stesso tenore della lettera del sovrintendente Balestra al ministro Ornaghi, segno di una supponenza che all’Inda deve circolare come retaggio di un’antica retorica teatrale. Ma ha ragione il Cda quando afferma che le pratiche impugnate dall’assessore “sono state oggetto di atti amministrativi e decreti emessi dal Dipartimento del turismo della Regione” e che l’ente conta tuttora in piena attività gli organi di controllo previsti dallo statuto, cioè i revisori dei conti e il magistrato della Corte dei conti, che non sono decaduti. E per la prima volta il Cda fornisce qualche spiegazione circa la gestione della biglietteria, sostenendo “l’assoluta tracciabilità degli incassi” per via dei collegamenti elettronici con Siae e Agenzia delle entrate. I magnifici otto, Visentin, Signorelli, Buttafuoco, Centanni, Nuzzo, Patrizi, Portoghese e Trombadore, stigmatizzano da consiglieri “l’inconsulta valutazione dell’operato del tutto trasparente della fondazione” e come al solito si riservano di tutelare nelle opportune sedi “il buon nome della fondazione”, cioè il proprio. La Stancheris risponde che “va fatta piena luce sui conti eliminando sprechi ed inefficienze perché i bilanci devono essere inattaccabili”. Insomma è scontro. 
Proprio sui bilanci la magistratura vuole vederci chiaro, soprattutto dopo l’entrata in scena della Regione in veste di denunciante, testimone e autoaccusatrice. L’interesse della Procura è rivolto agli ultimi otto anni di attività, risalendo quindi al 2005, quando la fondazione chiude con un passivo di 846 mila 776 euro e il costo del personale passa da un milione 286 mila 965 euro a due milioni 298 mila 290 euro. Ma il 2005 è anche l’anno in rosso che segna l’inversione di tendenza perché nel 2006 il patrimonio netto registra un significativo incremento in bilancio grazie a un inatteso e misterioso contributo della Arcus di Roma, uno strano ente finanziato da più ministeri e di marca berlusconiana, definito un bancomat di Stato e del quale Fabio Granata, da componente della commissione Cultura alla Camera, ebbe a dire che “di positivo ha l’immediata operatività”. Infatti ha salvato l’Inda. Proprio nel 2005 Arcus concede infatti alla fondazione un milione e 400 mila euro e due milioni netti dal 2006 in poi, puntualmente ogni anno. 
E’ su queste somme che la magistratura si è concentrata oltre che sulla differenza tra incassi al botteghino, provento di una crescita di fatturato strombazzata dalla stessa fondazione, e somme riportate in bilancio. La parabola finanziaria dell’Inda cambia curva a partire proprio dalla metà degli anni Zero dopo il decreto legislativo del 2004, il quale istituisce la fondazione di diritto privato e sposta la sede amministrativa a Siracusa, lasciando a Roma quella legale; nomina il sindaco di Siracusa presidente al posto di una personalità della cultura; sopprime il comitato scientifico. 
E’ dopo il 2004, con l’affermazione della siracusanità e la laicizzazione dell’ente, non più gestito da nomi della cultura, ma da politici o figure designate dalla politica, che l’Inda regredisce involgarendosi. Ma nello stesso tempo è proprio da quegli anni che i bilanci migliorano e i fatturati crescono. La siracusanità porta la provincializzazione dell’istituto ma risana le finanze. Al posto dei gattopardi e dei leoni subentrano gli sciacalletti e le iene, le attività e le produzioni di prestigio ristagnano, invece degli Albini e dei Le Moli, di Maurizio Bettini e di Eva Cantarella, arrivano le ragioniere e le bancarie, i giornalisti e i sindaci. Che fanno un gran lavoro di rilancio finanziario. L’Inda vive meglio nel suo peggiore periodo. I posti di consigliere vengono assegnati secondo logiche politiche spartitorie, cosicché un Pietrangelo Buttafuoco, che non ha alcun rossore a proporre come sovrintendente il suo editore, può essere nominato con la benedizione del centrodestra ancorché sia presidente dello Stabile di Catania e, a norma dello statuto, in una condizione del tutto incompatibile perché concorrenziale. 
Nel Cda siedono promiscuamente uomini di cultura di livello nazionale e infimi Sedara ambosessi di anagrafe aretusea, o siciliana al massimo, sensibili al core business degli Spettacoli e molto attenti ai flussi di denaro anziché di coscienza. Vincono questi. Sicché lo spirito di Dionigi che volle soggiogare Platone rivive nel frutto delle tragedie promosse anche da lui nello stesso teatro dove oggi il ticket conta più dello stasimo. Uno degli studiosi che sono stati consiglieri ricorda ancora con certo raccapriccio la volta in cui in Consiglio di amministrazione sentì dire che le coriste non andavano pagate perché venivano a Siracusa per cercarsi l’amante per cui dovevano essere gli amanti a retribuirle. Non si è ancora ripreso.