Il blues, come dice Piazzese, è un ritmo lento, pigro, indolente. E’ anche circolare: come il suo ultimo romanzo, Blues di mezz’autunno (ma nel testo troviamo scritto “blues da mezz’autunno”, titolo più congruo e conforme), un racconto lungo privo di trama che si può ridurre in due parole: un biologo incontra un amico d’infanzia che gli chiede della Spada, l’isoletta dove Lorenzo La Marca è stato da studente e della quale s’imprende a raccontare la sua esperienza, cioè una serie di incontri con tipi chiamati, molto poco sicilianamente, “stravaganti”. Tutto qui.
Il resto è un blues, come dire un rimestamento, a volte anche stucchevole, di atti minimi e tutto sommato insignificanti.
Si aspetta che da un momento all’altro si abbia un morto (e uno sta per capitare, ma è un falso allarme) o che parta comunque un intreccio, una storia narrabile. Ma non è così. Solo alla fine balugina l’accenno a un segreto che custodisce uno degli stravaganti, ma è un segreto nemmeno rivelato, solo dato all’intuizione o meglio ancora all’immaginazione. Perché allora Santo Piazzese ha scritto questo libro che riesuma dopo quindici anni il detective-biologo palermitano La Marca (sua esibita trasposizione), specializzato in gialli privati e inufficiali, facendone inopinatamente un ritratto da giovane tutt’altro che interessato a risolvere casi giudiziari?
Non si capisce. Ma più che La Marca, in questo romanzo vediamo riprodotto il commissario Spotorno di Il soffio della valanga, dove ritroviamo un altro ritorno all’età dell’adolescenza e assistiamo al delinearsi, nei tratti del bildungroman, della linea d’ombra conradiana, del superamento della giovinezza attraverso un’esperienza di crescita, che qui è evidente al punto non solo da essere dichiarata ma anche ostentata nel soprannome con cui il giovanissimo biologo viene chiamato, Marlowe, corruzione del Marlow conradiano di Cuore di tenebra.
Blues di mezz’autunno appare dunque una sintesi della produzione precedente, da non vedersi però come un progresso. Tutt’altro. Forse perché frutto di precedenti racconti rielaborati nella misura del romanzo breve, quest’ultimo titolo riesce una specie di tiki taka letterario che nel tentativo di volere creare una clima remoto, conradiano appunto, tale da apparire esistenziale ed evocativo della condizione umana, ottiene solo di offrire l’esotismo di un’isola che non c’è sulla quale non accade niente che meriti di essere raccontato.
Il giovane studente vi torna più volte nel giro di alcuni anni e sembra averci lasciato l’anima tanto da rimanerne stregato, ma non si capisce se questa fascinazione derivi dalla natura e dal paesaggio o dalle conoscenze tutto sommato ordinarie che stringe con alcuni suoi abitanti.
Quello che scrive in prima persona è una sorta di diario del naufrago nella terra robisoniana dell’eccentricità o stravaganza, che però manca e che tuttavia dovrebbe costituire il pabulum della sua formazione. Ma non si comprende come tale risultato possa aversi solo stando a contatto con un barista, un esaltato militarista, un borioso minidotato e qualche altro esemplare di comunissima umanità.
Il romanzo, peraltro, sembra lasciato a metà, perché nulla l’autore ci dice delle due studentesse che all’inizio promettono, per la loro baldanza, sviluppi accattivanti, né - dopo la lunga analessi rimemoriale - il racconto ritorna dove è iniziato, cioè a Erice. Quel che rimane è allora proprio un blues, una melodia lenta, pigra e indolente. Che pure ha molti pregi, a cominciare dal tocco ironico e dallo stile spumeggiante, discorsivo, venato di sicilianismi à la Camilleri ormai ineluttabili in uno scrittore siciliano.
La maggiore proprietà di Piazzese resta comunque la capacità di preferire ai nomi comuni quelli propri, per cui non c’è un liquore o un oggetto qualsiasi che non sia chiamato per il marchio e la specie anziché per il tipo e il genere. Questa propensione deriva forse all’autore dal mestiere che svolge, quello di biologo, condizione che lo porta per esempio a non parlare di nuvole ma di cumulinembi, per darne l’esatto aspetto, e a servirsi di espressioni tecniche come “aminopeptidasi”, “beute eparinizzate”, “usare il Bouin”, che suppongono nei lettori dei partecipanti a un congresso di chimici. Piazzese si compiace fin troppo nelle sue competenze, che però sono quanto di più arido si possa immaginare e quanto di meno letterario si trovi in giro. Le sue tirate sulla preparazione degli ovociti smuovono davvero i nervi di chi vorrebbe leggere solo una storia.
La storia non c’è, ma c’è la ribalta. O meglio, c’è un doppio modello che è prepotentemente invalso nel catalogo Sellerio: quello della comitiva da bar che fa squadra associato a quello del condominio che fa comunità, alla maniera di Malvaldi e Recami, entrambi nipotini di Camilleri. E’ una formula che funziona e Piazzese ha pensato di sfruttarla inventando una comitiva alla Barlume che si forma su un’isola inesistente dove la comunità residente si costituisce in caseggiato di ringhiera vivendo scene di interni che dividono e uniscono secondo canovacci di commedia dell’arte ed espedienti alla Andrea Vitali, di storielle minime, casarecce e strapaesane, la cui cifra è la facile ironia, l’ammicco salace, la versicolarità dei singoli caratteri.
Il ritorno alle maschere sembra dunque il terreno comune di un gruppo di autori riuniti sotto la stessa sigla editoriale che si sta specializzando nella sit-com traendone peraltro notevoli vantaggi economici, segno che il filone di moda è questo. Con buona pace dei tragici Sciascia, Consolo e Bufalino.