Marlon Brando è Vito Corleone nel film Il padrino |
Quando il boss ebreo Meyer Lansky telefonò all'attore Lee Strasbgerg congratulandosi per l'interpretazione del capomafia anch'egli ebreo Hyman Roth, sua trasposizione nel Padrino II del 1974, non fece che confermare la rispondenza del film alla verità dei fatti narrati da Francis Ford Coppola e Mario Puzo.
In realtà la saga in tre parti del film (ritenuto il primo o il secondo più bello del cinema mondiale) è rigorosamente aderente al vero storico - motivo che ne spiega in parte il successo - fino al punto che il terzo episodio del 1990 pecca proprio nell'eccesso di realismo, volendo dire tutto circa le trame vaticane e le vicende dello Ior legate a Calvi, Marcinkus, Gelli e Papa Luciani, senza però intendere colpire direttamente nessuno. La terza parte è infatti quella più debole pagando l'ambizione dei due sceneggiatori di voler rappresentare la mafia nel suo insieme, dalla nascita al loro tempo, non tenendo conto che la perfetta riuscita dei primi due film della prima metà degli anni Settanta non era stata dovuta alla distanza di tempo trascorsa (perché anche nell'ultima parte la prossimità agli eventi è di circa vent'anni così come tra gli anni Cinquanta e i Settanta quanto alle ultime vicende di Michael Corleone e la realizzazione del secondo film), ma alla storicizzazione dei fatti, non essendo quelli italiani ancora stati accertati in profondità e nel loro complesso al momento della terza parte.
Nondimeno la saga non ha risentito nel tempo di questi inciampi, così può ancora oggi essere rivista e rivissuta con lo stesso spirito originario: di un film che come certi quadri realisti del Rinascimento e del Romanticismo porta dentro e rende non solo informato lo spettatore ma anche partecipe in una scala di immedesimazione che va dalla prima, dove è massima, alla seconda parte e infine alla terza.
Ancorché pensata perché fosse di ambientazione autenticamente newyorkese, la saga ha prodotto tutta la sua efficacia nell'offrire al mondo un'immagine della Sicilia che ancora oggi continua ad essere quella stereotipata fissata da Coppola dal 1972 al 1990 in un lungo laboratorio di contraffazione talmente sofisticata da rendere originale, o tale ritenuta, quella che doveva essere la copia. Come se il film abbia fatto da statuto, se non da manuale, a Cosa nostra.
Tuttavia il regista di ascendenze lucane non volle fare lavoro di mistificazione imponendo al mondo un cliché già consolidato (se è vero che prima dell'inizio della seconda parte mandò per sei mesi Robert De Niro a Corleone perché imparasse a parlare, meglio a echeggiare, il dialetto siciliano ottenendo che il suo accento nel film in lingua madre fosse proprio quello che si sentiva pronunciare a Little Italy), ma certamente non seppe, nel suo incessante sforzo di risultare vero nel riprodurre la realtà, cogliere gli aspetti meno appariscenti del costume siciliano. Né gli servì girare in Sicilia, soprattutto sui Peloritani, molte scene di tutt'e tre le parti.
L'aver voluto che i boss siculoamericani come soprattutto Sonny gesticolassero vorticosamente in maniera da essere riconosciuti nei loro i modi più tipici dei siciliani, quantomeno come apparivano agli occhi degli americani; l'aver vestito Michael Corleone di abiti lucidi e inamidati, di dubbio gusto, così da fare risaltare la volgarità dei siciliani; l'aver costruito scene macchiettistiche e da operetta come quella del padre di Apollonia cui un bandito siciliano fa da controcanto nel tradurre le parole di Michael Corleone; e l'aver disseminato le piazze e le strade dei paesi siciliani, risonanti di marranzani e mandolini, di asini e capre, bambini sciamanti e vecchi incartapecoriti, ricercando ovunque, in ogni volto e in ogni scorcio non l'elemento pittoresco e suggestivo né quello stigmatizzante e marchiante ma quello più corrivo e percepibile, tutto ciò e altro ancora ha fatto di Coppola un mimetico analogico rimasto fermo all'aspetto superficiale e vistoso e non un esploratore che raccontando la mafia siciliana non si limitasse a stabilire un facile rapporto di filiazione così per le vie di New York potessero rivedersi gli stessi volti, gli stessi modi e le stesse Madonne in processione lasciati nella madrepatria.
In questo vasto disegno di riproduzione anziché di rappresentazione e studio, Coppola ha restituito il volto della mafia onorata, tutto sommato buona o quantomeno dotata di suoi principi e sue leggi, così vestendo i panni dell'antropologo, esaltando la visione di Puzo e replicando gli stessi mezzi di conoscenza che nel 1961 erano stati di Leonardo Sciascia, autore del primo romanzo sulla mafia siciliana dove la mafia si presenta nella sua veste di rispettabilità e di necessità.
Volendo raccontare cos'è la mafia al di qua e al di là dell'oceano, Coppola ha contribuito a cementare la maledizione della Sicilia, il cui nome è assimilato all'onorata società a causa, per grandi gradi, proprio di un ciclo di film nel quale sono entrati non tanto i mafiosi ma quello spirito di mafiosità che Michele Pantaleone, proprio quando usciva il romanzo di Sciascia, indicava in un altro libro come il nemico da combattere e il male da debellare. Non tanto perché realmente presente in Sicilia, aggiungiamo noi col senno di poi, ma perché profondamente diffuso fuori dalla Sicilia. Spaghetti, lupare, ciuri ciuri, coppole e cannoli continuano ad essere i prodotti siciliani di maggiore esportazione. Con in più una interiezione che oggi ha raggiunto ogni bocca non siciliana: la parola "minchia", che in tutti i film del Padrino si sente pronunciare solo una volta da Michael Corleone. E' bastata.
In realtà la saga in tre parti del film (ritenuto il primo o il secondo più bello del cinema mondiale) è rigorosamente aderente al vero storico - motivo che ne spiega in parte il successo - fino al punto che il terzo episodio del 1990 pecca proprio nell'eccesso di realismo, volendo dire tutto circa le trame vaticane e le vicende dello Ior legate a Calvi, Marcinkus, Gelli e Papa Luciani, senza però intendere colpire direttamente nessuno. La terza parte è infatti quella più debole pagando l'ambizione dei due sceneggiatori di voler rappresentare la mafia nel suo insieme, dalla nascita al loro tempo, non tenendo conto che la perfetta riuscita dei primi due film della prima metà degli anni Settanta non era stata dovuta alla distanza di tempo trascorsa (perché anche nell'ultima parte la prossimità agli eventi è di circa vent'anni così come tra gli anni Cinquanta e i Settanta quanto alle ultime vicende di Michael Corleone e la realizzazione del secondo film), ma alla storicizzazione dei fatti, non essendo quelli italiani ancora stati accertati in profondità e nel loro complesso al momento della terza parte.
Nondimeno la saga non ha risentito nel tempo di questi inciampi, così può ancora oggi essere rivista e rivissuta con lo stesso spirito originario: di un film che come certi quadri realisti del Rinascimento e del Romanticismo porta dentro e rende non solo informato lo spettatore ma anche partecipe in una scala di immedesimazione che va dalla prima, dove è massima, alla seconda parte e infine alla terza.
Ancorché pensata perché fosse di ambientazione autenticamente newyorkese, la saga ha prodotto tutta la sua efficacia nell'offrire al mondo un'immagine della Sicilia che ancora oggi continua ad essere quella stereotipata fissata da Coppola dal 1972 al 1990 in un lungo laboratorio di contraffazione talmente sofisticata da rendere originale, o tale ritenuta, quella che doveva essere la copia. Come se il film abbia fatto da statuto, se non da manuale, a Cosa nostra.
Tuttavia il regista di ascendenze lucane non volle fare lavoro di mistificazione imponendo al mondo un cliché già consolidato (se è vero che prima dell'inizio della seconda parte mandò per sei mesi Robert De Niro a Corleone perché imparasse a parlare, meglio a echeggiare, il dialetto siciliano ottenendo che il suo accento nel film in lingua madre fosse proprio quello che si sentiva pronunciare a Little Italy), ma certamente non seppe, nel suo incessante sforzo di risultare vero nel riprodurre la realtà, cogliere gli aspetti meno appariscenti del costume siciliano. Né gli servì girare in Sicilia, soprattutto sui Peloritani, molte scene di tutt'e tre le parti.
L'aver voluto che i boss siculoamericani come soprattutto Sonny gesticolassero vorticosamente in maniera da essere riconosciuti nei loro i modi più tipici dei siciliani, quantomeno come apparivano agli occhi degli americani; l'aver vestito Michael Corleone di abiti lucidi e inamidati, di dubbio gusto, così da fare risaltare la volgarità dei siciliani; l'aver costruito scene macchiettistiche e da operetta come quella del padre di Apollonia cui un bandito siciliano fa da controcanto nel tradurre le parole di Michael Corleone; e l'aver disseminato le piazze e le strade dei paesi siciliani, risonanti di marranzani e mandolini, di asini e capre, bambini sciamanti e vecchi incartapecoriti, ricercando ovunque, in ogni volto e in ogni scorcio non l'elemento pittoresco e suggestivo né quello stigmatizzante e marchiante ma quello più corrivo e percepibile, tutto ciò e altro ancora ha fatto di Coppola un mimetico analogico rimasto fermo all'aspetto superficiale e vistoso e non un esploratore che raccontando la mafia siciliana non si limitasse a stabilire un facile rapporto di filiazione così per le vie di New York potessero rivedersi gli stessi volti, gli stessi modi e le stesse Madonne in processione lasciati nella madrepatria.
In questo vasto disegno di riproduzione anziché di rappresentazione e studio, Coppola ha restituito il volto della mafia onorata, tutto sommato buona o quantomeno dotata di suoi principi e sue leggi, così vestendo i panni dell'antropologo, esaltando la visione di Puzo e replicando gli stessi mezzi di conoscenza che nel 1961 erano stati di Leonardo Sciascia, autore del primo romanzo sulla mafia siciliana dove la mafia si presenta nella sua veste di rispettabilità e di necessità.
Volendo raccontare cos'è la mafia al di qua e al di là dell'oceano, Coppola ha contribuito a cementare la maledizione della Sicilia, il cui nome è assimilato all'onorata società a causa, per grandi gradi, proprio di un ciclo di film nel quale sono entrati non tanto i mafiosi ma quello spirito di mafiosità che Michele Pantaleone, proprio quando usciva il romanzo di Sciascia, indicava in un altro libro come il nemico da combattere e il male da debellare. Non tanto perché realmente presente in Sicilia, aggiungiamo noi col senno di poi, ma perché profondamente diffuso fuori dalla Sicilia. Spaghetti, lupare, ciuri ciuri, coppole e cannoli continuano ad essere i prodotti siciliani di maggiore esportazione. Con in più una interiezione che oggi ha raggiunto ogni bocca non siciliana: la parola "minchia", che in tutti i film del Padrino si sente pronunciare solo una volta da Michael Corleone. E' bastata.