giovedì 25 settembre 2014

Così si perdono le due vie del destino


Il cinema dovrebbe osare una maggiore verosimiglianza, persino a scapito dello spettacolo, perché basta un dettaglio per togliere credibilità anche al più realistico, pur tratto da una storia vera come Le due vie del destino.Eric Lomax dovrebbe avere almeno sessant'anni passati se ne aveva ventuno nel 1942, senonché Colin Firth che lo interpreta è del 1960 e si vede che ne ha perlomeno dieci meno rispetto al personaggio da adulto. Questo particolare, ancora più evidente perché il suo compagno di prigionia Finley (l'attore Stellan Skarsgard) si mostra senz'altro ultrasessantenne, induce straniamento e rende improbabili soprattutto due sviluppi: il primo si ha nella scena in cui Lomax dichiara disinteresse alla vendetta, progetto che ha piuttosto condizionato tutta la sua vita e che ha nutrito la sua coscienza di uomo umiliato e offeso - e che a cinquant'anni, l'età dell'interprete, dovrebbe essere invece ben vivo in lui e innanzitutto realizzabile, sul quale si ricrede solo dopo il suicidio di Finley che non ha accettato la sua rassegnazione; il secondo sviluppo incongruo è nell'arrendevolezza di Eric di fronte al suo aguzzino che vuole conoscere per ucciderlo e che alla fine invece perdona: atteggiamento comprensibile appunto in una persona della terza età e non in una persona nel vigore degli anni e nella piena delle sue intenzioni.
Ma la produzione ha voluto affidare il ruolo di Lomax a Firth sortendo l'effetto di irrelare i tempi. La moglie di Lomax, interpretata da Nicole Kidman, dovrebbe avere suppergiù la sua età ed essere almeno sessantenne ma non neppure cinquanta: in coerenza con l'età di Eric nel film ma non con la realtà dei fatti. Nelle foto in coda al film dei veri protagonisti della storia si vede infatti che i coniugi Lomax sono ben anziani e se lui muore novantenne nel 2012 non può avere meno di una settantina d'anni quando incontra il suo carnefice giapponese, Nagase, anch'egli di conseguenza ringiovanito nel film. 
Insomma non si vede la differenza di quarant'anni tra i fatti e la loro sublimazione, tempo invece la cui dilatazione costituisce l'elemento centrale, la spiegazione, del film. Solo perché sono trascorsi oltre quarant'anni Lomax può infatti dire, come scrive nel romanzo da cui il film è tratto, che "arriva il tempo in cui l'odio deve finire". Una frase che può essere meditata e pronunciata solo dopo che un lungo periodo di tempo abbia storicizzato i fatti e soprattutto cambiato anche fisicamente le persone coinvolte rendendole indulgenti, mature, disincantate e deboli.
Tutto questo nel film di Jonathan Teplitzky non c'è. Non è un fatto da poco, dal momento che il passaggio da un proposito di vendetta a una remissione di colpa sembra il risultato di una improvvisa rivelazione quando invece è l'effetto di un lungo processo di maturazione, sofferenza e riflessione dove la memoria - come del resto il film suggerisce con le sue continue analessi e prolessi - funge da cronotopo, soprattutto se si parla di destino come indica il titolo. Nonostante le scene crudissime della tortura, il film non appare come una tranche de vie, ma alla stregua di una rappresentazione liberamente tratta da una vicenda vera. 
Così, volendo colpire il pubblico con la vista di una bellissima signora come la Kidman e un bell'uomo pieno di vita (ma anche di tare psicologiche irrisolte)  come Firth, puntando dunque sulla cassetta, la produzione ha snaturato il film non osando portare sul set una coppia attempata quale quella delle foto autentiche. Ma forse questa volta il cinema avrebbe dovuto fare proprio questo dando un surrogato di docufiction, perché questa volta il contenuto equivaleva desactisinamente alla forma e non poteva questa distinguersi da quello.