È successo quattro mesi prima della morte che Bufalino tenesse l’ultima lezione della sua vita. Nel febbraio del 1996 ragazzi di un istituto superiore di Catania ascoltarono una voce che sembrava presagire il futuro per il tono di sentenza morale e vaticinio che le sentirono talvolta prendere.
Ma quel giorno fu memorabile per lo stesso Bufalino, assiso in piedi davanti ai banchi, come di fronte a un campo di artemisia, per sentire da vicino l’odore che fa la giovinezza. Né più né mai l’avrebbe più colto.
L’incontro comincia con un ragazzo - capelli fluenti, una sciarpa alla cintola e un’altra al collo, jeans stinti e felpa extralarge - che arriva al microfono, mette un’aria di riverenza, smette il suo appeal di liceale pieno di nonchalance e dice come deponendo in un tribunale: «Lei non ci crederà, professore Bufalino, ma in queste sere, mentre gli altri vedevano Sanremo, noi leggevamo i suoi libri». E sembra che il cambio non gli sia dispiaciuto affatto. L’applauso più forte gli viene dalla sua ragazza, stessa classe, stessa mise e stesse serate passate sulle metafore dello scrittore «che è meglio di Springsteen». Sarà perché sono del Classico («gente che sa di greco e di latino e scrive e scrive e ha molte altre virtù»); sarà perché hanno studiato la parte nei dettagli; sarà perché davvero hanno rinunciato a Sanremo preferendo i dolori di Marta e i sospiri di Isolina, risultato è che agli occhi del professore per eccellenza fanno un figurone e un altro ottengono che lo facciano anche i loro intimiditi ed emozionati insegnanti.
Bufalino li ha attesi arrivando per primo, come il più zelante dei professori, e li riceve facendosi loro incontro come il più premuroso degli anfitrioni, preoccupato che ci siano posti a sufficienza per tutti i centosessanta liceali dello Spedalieri - partiti alle sette da Catania e arrivati a Comiso con la faccia di chi debba sostenere un esame davanti al più esigente dei commissari. Il quale commissario, nella pienezza della maturità e nella costanza della sua «isolitudine», riassapora il tenero piacere di tornare a contatto con gli studenti in mezzo ai quali ha passato la vita. Lo ha fatto qualche settimana prima con i liceali del Vittorio Emanuele di Palermo ed è deciso a ripetere ancora in futuro l’esperienza, ma non sa che Atropo si prepara a recidere lo stame della sua vita.
Stentando, per scarsa confidenza o troppo retaggio scolastico, a rivolgersi con il tu agli studenti, Bufalino esordisce con una specie di melodia: «Per i miei anni che passano, questo odore di giovinezza che sento è una medicina che dà un sorriso a un’anima che di sorridere non è più capace». I liceali dello Spedalieri, pronti a ingoiare una delle lezioni più leziose, fuori ordinanza e per giunta del più difficile degli scrittori, «bello ma impossibile», credono di sentire come le parole di una canzone di Renato Zero e assumono la posizione di ascolto in un concerto, verificando quanto labili siano le differenze tra un cantante e un poeta. Cosicché, quando Bufalino «intona» uno dei suoi più celebri aforismi, un coro cui mancano le sole braccia tese per essere da sballo si leva a completarlo come un ritornello. «Ho imparato a non rubare…» dice appena Bufalino che gli studenti continuano «…ascoltando Mozart», facendo felici i loro professori che si vedono ripagare con una tangibile prova di profitto una kermesse cui sono occorsi chissà quali sforzi di preparazione.
Tremanti, con in mano il saputo discorsetto su un quaderno e una domanda di bell’effetto a conclusione, ogni classe sceglie un compagno per fare mostra di buona educazione liceale, di aplomb umanistico e soprattutto dello studio cui l’opera bufaliniana è stata diligentemente sottoposta con non pochi rivolgimenti dei programmi scolastici degli ultimi giorni. Bufalino apprezza le domande, quasi tutte «universitarie»; si diverte sui temi fatti in classe, riveduti e correttamente declamati; parla di poesia e letteratura con il linguaggio più gradito a liceali che amano essere toccati nella loro corda più estenuata e decadente; spiega i suoi ossimori, la sua ironia e il suo «barocchismo avaro»; parla del suo impegno civile che dev’essere il contenuto di un libro e non il contenitore; e quindi ammette che sì la sua scrittura è musica: pur sotto forma di retorica, ma non meno accattivante.
A un certo punto, un liceale con videocamera puntata come su un palcoscenico, si lascia scappare una considerazione che tradisce l’animo con cui ha atteso l’incontro: «Ehi, ma non doveva essere una persona ostica?». «Non bisogna mai farsi un’idea di uno scrittore secondo i suoi libri» lo riprende una compagna di scuola. «Magari tutte le lezioni fossero così divertenti» sospira al termine uno studente, contento di avere imparato «un sacco di cose» e incredulo alla vista delle centinaia di libri donati da Bufalino alla biblioteca del Comune: «Ma dite che li ha letti tutti?». «E come vuoi che non li abbia letti se è Gesualdo Bufalino. Non hai sentito cosa ha detto su scrittura e lettura» gli fa eco il primo della classe. E in realtà il discorso del «professore dei professori» è piaciuto come un concerto.
«Ora ragazzi vi dico perché si scrive e perché si legge. Qualche tempo fa Chiambretti mi chiese in un’intervista, che poi tagliò, perché scrivessi. Glielo dissi in greco, ripetendo le Baccanti: “Affinché io appaia manifesto demone agli uomini”. Gli dissi che non trovavo di dovergli tradurre la frase di Euripide essendo lui “laureato”, al che mi rispose con una battuta delle sue: “Per me non c’è naturalmente bisogno, ma la traduca a loro, ai telespettatori”. Un’altra volta, nell’81, quando molti di voi eravate appena nati, fui intervistato alla radio insieme con due attrici che non so se conoscete, essendo di qualche tempo fa: Monica Vitti e Marina Suma. Ebbene, mi fu chiesto dal giornalista perché scrivessi e io dissi che lo facevo per persuadere e per sedurre. Due operazioni diverse: con la persuasione si parla alla ragione e con la seduzione si invade l’anima altrui. La Suma che non mi conosceva chiese alla Vitti chi fossi. Le fu risposto che avevo appena vinto il Campiello. Le diedi una risposta che la gettò nella confusione più grande: “È un premio che danno ai più belli”. Capirete, a guardarmi come mi guardò lei, quanto quel premio sarebbe stato immotivato. La scrittura, ragazzi, è tre cose: religione, medicina e amore. È religione perché è una confessione. Uno scrittore che scrive si confessa e anche quando narra storie di altri non fa che narrare se stesso. È medicina perché serve a curarsi. Anche voi scrivete il vostro diario per guarire da una pena segreta, da una malinconia senza perché. È amore perché scrivere significa inventare un personaggio che non corrisponde alla realtà ma che è frutto della nostra fantasia e del quale ci innamoriamo».
«Accidenti, è proprio così!» s’illumina una studentessa come davanti a una verità rivelata da Dio. La lezione di letteratura diventa quindi lezione di vita. «Si scrive per narrare e si narra per non morire - spiega suadente Bufalino. - Lo scrittore è Shahrazade, che più racconta e più si allunga la vita. E si legge perché senza libri si diventa Calibano il mostro, che nella Tempesta di Shakespeare dice di Prospero il mago: “Per liberarsi di lui per prima cosa bisogna togliergli i libri”. Leggiamo allora: per restare dei maghi che hanno il potere di cambiare il mondo. Ho fatto incidere nella biblioteca che ho donato al Comune questa massima latina: “Tecta lege, lecta tege”: leggi i libri qui custoditi, custodisci i libri dopo averli letti. I miei libri sono il mio harem e mi ci trovo meglio che se fossero delle donne: non sono linguacciuti, non insolentiscono e mi dànno un sacco di buoni consigli. Io ci ho passato la vita. Passateci la vita anche voi. Sapete, nei miei fogli per lettera ho fatto disegnare un ex libris dove si vede sul fondo di un mare in tempesta la prua di una nave che affonda e in primo piano una mano che affiora e che tiene un libro. Ecco, quel libro rappresenta la nostra Arca di Noè».
Il «concerto» è finito. E allora i bravi e composti liceali dello Spedalieri, al termine di una gita scolastica più impegnativa di cinque ore di aorismi, salutano il «professore che non hanno» con un lungo applauso come si fa con una rockstar. E a stento qualcuno frena la voglia di salire sulla sedia e scandire: «Capitano, mio capitano».
Da Maschere siciliane (Aragno)