giovedì 18 dicembre 2014

La doppia morale di Benigni

 


Se al posto di Roberto Benigni, diploma di ragioniere e scuole basse, ci fosse stato Umberto Eco a illustrare i Dieci comandamenti oppure un teologo come Ratzinger o Hans Küng, il numero dei telespettatori sarebbe stato miserrimo anche in prime time su Raiuno. A prescindere dalla reale preparazione e dagli studi fatti, un artista qual è Benigni riscuote oggi un credito che, grazie alla forza dello show, lo rende preferibile al più autorevole esperto. Come dire che una cosa diventa perciò più importante di cosa dire. Sono le regole debordiane della società dello spettacolo a fare oggi stato trasformando il popolo in un pubblico.
L'artista, attore o cantante che sia, si è promosso intellettuale ed esercita non più un'arte mimetica, cioè riproduttiva, ma un ruolo rappresentativo, in sostanza politico. Quanto più celebre divenga tanto più cresce il suo potere di opinion maker, ovvero di influenzare la società, perché richiesto sempre più di pronunciarsi e di esprimere commenti su campi dottrinari e sapienziali a lui estranei. Così vediamo cantanti, calciatori, atleti, attori, tutti perlopiù di modestissima cultura, intervenire sulle questioni più disparate e determinare i gusti e le opinioni del pubblico, interessato a conoscere cosa pensano loro per conformare la propria idea. "La penso come Mara Vernier" o "Ha ragione Totti" sono espressioni che stabiliscono un riconoscimento e una identificazione in un Forrest Gump che finiamo per seguire senza sapere né perché né chi è e né se meriti che diventiamo suoi discepoli.
Come già Celentano e prima ancora Dario Fo, o come Saviano che per qualche motivo è considerato un grande esperto di mafia, anche Benigni si è elevato a predicatore di tipo quaresimalista e si è offerto al pubblico pretendendo stavolta di svelare addirittura il mistero divino, ritenendo alla fine di averlo pure fatto. I giornali ne parlano (ma solo per riportare le sue battute comiche), la gente si è incollata alla televisione aspettando magari di ridere ma perlopiù finendo per addormentarsi, molti hanno creduto di aver finalmente capito tutto.
L'attore toscano è senz'altro bravo a tenere il palco. Questo gli è bastato per essere creduto anche affidabile e degno di attenzione. Non solo, ma anche meritevole di ammirazione e rispetto. E' così che un istrione diventa un guru e può propinare e propalare tutte le versioni che vuole della verità. Quanto ha detto dei Dieci comandamenti è ovviamente condivisibile perché ne ha fornito una versione clericalmente corretta, agiografica e ufficiale. Ma da lui ci si aspettava di avere ben altre risposte alle domande di sempre e non un rifacimento del catechismo in salsa autobiografica e autoreferenziale. Ci si aspettava per esempio che ci dicesse di più di Mosé pluriomicida, stregone, imbonitore e rivoltoso. Ci si aspettava che spiegasse la vera natura del Dio veterotestamentario terribile e malvagio, così diverso dal Signore neotestamentario della misericordia e del perdono, un Dio attento solo a uno dei mille popoli della terra e che indurisce il cuore del Faraone dando all'Egitto le piaghe solo per dimostrare che è il dominatore anche degli egiziani, quando in realtà gli egiziani non hanno fatto che impedire agli ebrei di lasciare il territorio, cosa che farebbe anche l'Italia se il Veneto davvero dovesse separarsi. Un Dio che, peggio di Erode, arriva ad uccidere tutti i primogeniti egiziani a Pasqua dicendo a Mosé che fa tutto ciò perché racconti ai suoi figli e ai figli dei suoi figli quello che ha fatto in Egitto. Vuole insomma che il mondo conosca l'orrore che ha commesso, cosa che nemmeno Hitler ha concepito. 
Nulla ci ha detto poi Benigni di un mistero di cui la stessa Bibbia adombra la soluzione, se cioè Dio non sia anche Satana e se quando nel Credo lo preghiamo perché non ci induca in tentazione ma ci liberi dal male, come se fosse nelle sue intenzioni volerci peccatori, in realtà non ci rivolgiamo anche al diavolo. Niente Benigni ci ha detto della redenzione di Caino e se Dio salvando Adamo, nel peccato quanto e più di Caino, abbia anche ammesso alla vita eterna il traditore del Figlio, quell'apostolo che peraltro si è reso compartecipe della realizzazione del suo progetto e quindi si è pure sacrificato..
Quel che ci ha detto Benigni è quanto gli hanno suggerito alcuni divulgatori, più inclini a ricercare il fatto sorprendente, il facile aneddoto, il predicozzo di presa immediata, che a proporre nuovi scenari e chiavi di interpretazione, nonché quanto ricordava dei tempi della parrocchia e da bambino. Ciò che abbiamo sentito vale davvero quattro milioni di euro, il gadget della Rai che pare sia stato ancora maggiore? Sicuramente no, anche se - alla Santoro e alla Floris - è facile replicare che Benigni ha portato alla Rai più soldi di quanti ne abbia intascato e che la colpa non è sua se prende tanto denaro (pare anche facendo questione sugli spiccioli), ma della Rai che dilapida così i fondi pubblici non imponendo un nuovo paniere. E' facile dire che Benigni vale tanto e chi lo vuole deve pagarlo quanto chiede.
Il problema invece si affronta alla luce proprio di uno dei Dieci comandamenti: non rubare. Su questo tema Benigni si è impegnato in una tirata che ha assunto il tono moralistico del pulpito comprendendo nell'accezione di furto ogni atto contrario all'onestà fino a porre una vera e propria questione etica. Ha fatto benissimo a volgere il furto in un peccato di coscienza. Senonché ha fatto come Seneca, che predicava lo stoicismo e si abbandonava all'epicureismo, non applicando nessuno degli insegnamenti che intendeva impartire. In pratica abbiamo capito da Benigni che noi non dobbiamo rubare perché la coscienza ci è giudice e ci condanna per violazione della nostra etica, mentre lui può farlo liberamente, anche in pubblico. Cioè lui può rubare (nel senso da lui proposto di appropriarci di un indovuto) quanto vuole. Noi no.