venerdì 5 dicembre 2014

Giovani showjournalist crescono


Sono giovani, perlopiù carini, non dicono mai "non ci sono novità" ma "si aspettano novità", hanno sempre un taccuino in mano e credono che la notizia venga sempre dopo di loro. Sono i giornalisti della televisione di oggi.
Il loro maggiore problema è che non si considerano parti estranee ai fatti che raccontano ma testimoni di essi se non comprimari. Nei casi di cronaca azzardano ipotesi, posano a investigatori, stanno per strada ma si sentono in studio in veste di esperti. Nelle interviste politiche non fanno domande ma suggeriscono risposte quando non instaurano autentici tu per tu. Dicono sempre "pensate che", "come vedete", "siamo qui" e amano farsi inquadrare più che fare inquadrare. Sono quelli che avvicinano le madri appena private dei loro figli, le mogli divenute vedove da un'ora e chiedono loro con voce sottile e ispirata "cosa si prova?". Si credono sempre sulla linea più avanzata, come al fronte, e provano a passare innanzitutto da eroi in guerra o da cronisti d'assalto se non addirittura come angeli giustizieri. 

Per loro è sempre spettacolo, più o meno macabro ed emozionante, tale da meritare un tono di voce più alto, un po' di enfasi e un tanto di accaloramento. Li abbiamo visti nel fango di Genova, con gli stivaloni sporchi, le mani pulite e gli occhi truccati, poi nelle manifestazioni di piazza, come davanti a una diga da guardare girandosi sempre indietro, infine nei luoghi di delitti efferati come a Santa Croce Camerina dove però hanno trovato uno che si è messo in testa di cacciarli tutti a pedate.
Parlano per trasmettere sensazioni più che per dare notizie, sicché è necessario comprare i giornali l'indomani se si vuole essere informati, sembrano recitare e appaiono ieratici e ierofantici. Ci sono anche quelli che, pur di dare l'impressione di parlare senza leggere e quindi di sapere parlare, si fanno inquadrare per venti secondi e dicono quattro parole di circostanza che bene avrebbero potuto evitarsi o dire prima o dopo. Se c'è freddo mostrano di intirizzirsi, se c'è vento sembrano voler volare, se c'è caldo appaiono madidi e ovunque si trovino danno l'impressione di aver fatto una grande scoperta e di aspettarsi una medaglia per averla rivelata per primi.
Quanto aigiornalisti televisivi che si occupano di politica e che posano a inviati per i talk show, trattano parlamentari, ministri, premier e personalità varie col cipiglio molesto di creditori e pretendono, puntando loro il microfono come una baionetta (ne ha un ricordo indelebile Berlusconi che se ne vide, e sentì, uno sui denti), che parlino a prescindere da quel che possano dire. Il fine irrinunciabile e obbligatorio è di far dire da studio "Abbiamo sentito...". 
Famosi e passati in proverbio sono i casi del giornalista che seguì, insieme col cameraman, un parlamentare per tutto il tragitto del suo footing e dell'altro che tampinò Enrico Cuccia per mezza Roma senza strappargli una sola sillaba di bocca. Sia l'uno che l'altro sono stati tenuti per grandi reporter.
Sono quasi tutti giovani, scalpitanti, con l'aria di chi ha fretta e il collo alto per guardare il futuro. Hanno americanizzato l'informazione televisiva italiana facendone un nuovo modello di infotainment ribattezzabile infoshow. Grillo li detesta, Renzi li cerca con gli occhi, Berlusconi li coccola addirittura. Hanno imparato che i direttori e i talkshowmen li premiano quanto più si rivelino aggressivi, petulanti, fastidiosi e insolenti. Riuscire a fermare un parlamentare per strada e fargli dire anche una parolaccia o una sciocchezza è considerato uno scoop e favorisce la carriera. Credono che conti molto più saper parlare, quindi recitare, che scrivere, così distorcendo una professione che vive anche di uno stile proprio e dirottandola verso una forma di spettacolo dove trovano come compagni di strada i non-giornalisti delle Iene e di Striscia la notizia, rischiando di diventare anch'essi non-giornalisti perché nel loro esempio vedono un modello di giornalismo.
Il gradimento del pubblico dà del resto loro ragione così ponendo le basi per l'invalenza di una nuova professione o arte, quella dello showjournalist, una figura più vicina al camerino che al desk e che alla redazione tende a preferire la ribalta. Ma non è il mestiere a cambiare perché non fa che conformarsi alla televisione, la quale è preda di un vortice rivoluzionario che, risucchiando anche il giornalismo, ne sta facendo un campo di informazione inteso come comunicazione e intrattenimento.
Tra giornali e televisione la gara è tutta a favore della seconda perché i numeri dell'audience sono di gran lunga superiori a quelli della tiratura. L'errore che commettono i giornali è di favorire questa prevalenza che segna il loro soggiogamento citando sempre trasmissioni, telegiornali e talkshow dove la politica oggi predilige pronunciarsi e dove i giornalisti della carta stampata (l'ultimo è stato Massimo Giannini, il penultimo Nicola Porro) preferiscono traghettare per maggior visibilità e migliore trattamento economico.
Eppure i giornali rimangono la fonte primaria di documentazione e di informazione, la più seria e affidabile, al punto che pesa di più uno sciopero della carta stampata che un blackout dei telegiornali. Nessuna chiacchiera o recita potrà valere quanto un testo scritto, ma occorre dare ragione a Platone che invitava a diffidare della scrittura se oggi è l'oralità a primeggiare. Quella oralità che i giovani giornalisti televisivi imparano per strada davanti alla telecamera pensando di far parte di una redazione mentre in realtà sono attori chi di una compagnia teatrale e chi di un circo.