Roma non è solo la piazzaforte della banda Carminati-Buzzi ma anche la capitale dove operano governo, parlamento, comandi nazionali delle forze dell'ordine, le più alte sfere ecclesiastiche, sedi centrali di tutti i più importanti quotidiani e periodici, studi dei principali talkshow e dei telegiornali. Nessuno si è mai accorto che i campi Rom e i centri immigrati erano allo sfascio e non ricevevano un centesimo dei fondi destinati dallo Stato.Bastava mandare l'ultimo dei reporter o il primo agente di polizia appena assunto per scoprire lo scandalo, ma nessuno l'ha fatto. Bastava al più scalcinato giornale capitolino farsi una facile domanda e fare due più due - perché i fondi non sono impiegati e perché risultano comunque erogati? - per portare a segno quello che nemmeno uno scoop sarebbe apparso ma un semplice uovo di Colombo. Ora da tutti gli studi televisivi e dalle colonne di ogni giornale si grida al sistema, alla mafia capitale, all'intreccio consociativo tra mafia e malaffare, come se televisioni e giornali romani non fossero anch'essi responsabili quantomeno di omissione di servizio: dove è stata tale e tanta l'omissione da fare pensare a una collusione o comunque, visto che si parla di mafia, a un concorso esterno in associazione mafiosa. Nella sua ultima trasmissione il serafico Corrado Formigli ha rimproverato il presidente del Pd Orsini di non aver mandato neppure una telecamera in un campo Rom per accertare la verità e molto facilmente Orsini ha ribattuto che le telecamere le mandano i giornalisti, cosa che Formigli non ha mai fatto pur intestandosi battaglie cosiddette civili.
Non si tratta però di coinvolgimento della stampa nel sistema ma di semplice pressapochismo, cattivo mestiere, dabbenaggine.Migliaia di giornalisti paludati e coronati, pronti a pontificare e farsi opinion maker e nessuno che abbia mai allungato un piede su un campo di zingari, che abbia annusato l'aria di una vera periferia, che si sia sporcato le scarpe nel fango. Carminati e Buzzi sono stati lasciati liberi di agire non solo dai solo sodali, che ne avevano tutto l'interesse a coprirli, ma soprattutto da una stampa che prova a scimmiottare quella americana e si ritrova ad essere parruccona quando non corriva.
Il problema di Roma è anche quello di una stampa troppo corriva con il potere, quello ufficiale e quello collaterale, e troppo lesta a intentare processi levandosi ad aeropago e censore. E' stata così macroscopica la disattenzione su una situazione che era sotto gli occhi di tutti se si avesse avuto la premura di guardarla che si fatica a discolpare la stampa dall'aver contribuito, solo abdicando al proprio mestiere, all'insorgenza mafiosa. La colpa della stampa è forse maggiore di quella del governo che non controlla il reale impiego dei propri fondi, perché una stampa libera e indipendente, non pifferaia, ha il dovere di operare come un organo inquirente se vuole poi dichiararsi dalla parte dei suoi lettori e del Paese. Abbiamo copiato dall'America anche come fare colazione col burro di arachidi, ma abbiamo ignorato a copiare il tipo di giornalismo che lì viene esercitato.
Il giorno prima di essere ucciso dalla mafia, quella vera, così scriveva Giuseppe Fava: "Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo si fa carico di vite umane".
Chi oggi è disposto a condividere queste parole? Soprattutto a Roma?