Il Catania Calcio precipitato, anzi degradato, in Lega Pro è il segno dei tempi bui che oscurano una città in via di progressiva e inesorabile provincializzazione. Il declino non è solo sportivo, ma anche sociale, culturale e politico. Quella che aspetta di nascere con il carattere di “città metropolitana” stride perciò fortemente con le aspettative della riforma delle Province. Catania non è una grande città ma una città grande che, per qualità della vita, occupa nella classifica nazionale il numero 99 su 107 ed è dietro Palermo di quattro posizioni e Siracusa di ben sedici.
Palermo e Siracusa costituiscono le sue più dirette rivali, la prima sul piano politico e dell’egemonia regionale, la seconda per la prossimità e la sfida turistica. Se Siracusa non è più il suo satellite, neppure Palermo è più il mero capoluogo ufficiale, essendolo oggi pure economicamente e socialmente. La capitale morale della Sicilia, la Catania ”Milano del Sud”, ha invece perso il titolo più pregiato di regina commerciale detenuto sin dagli anni Sessanta. Il suo porto perde container a favore di Augusta, la stazione ferroviaria cancella treni, decrescono le esportazioni su gommato. Il solo, clamoroso, dato in controtendenza è il traffico passeggeri dell’aeroporto Bellini, cresciuto in un solo anno del 14,2% rispetto al 6% del Falcone-Borsellino, che però serve un’area ben più ristretta. Ma il vecchio Fontanarossa potrebbe fare molto di più e non lo fa: congelati sono infatti i progetti per il terzo terminal e l’allungamento della pista, che moltiplicherebbero l’utenza di oltre un terzo.
Mortifica non solo l’aeroporto ma l’intera città una incapacità generale di fare che si traduce in impotenza. Catania ha affrontato la crisi economica regredendo in un ridotto anziché andare al contrattacco, tradendo così la sua vocazione storica all’inventiva, all’espediente e all’azzardo. Spia di questo atteggiamento rinunciatario e di rassegnazione è il crollo del maggior gruppo editoriale, vissuto con diffuso e disperato sgomento.
Quali sono le cause più evidenti di questo regresso, al di là delle condizioni determinate dalla congiuntura economica in tutta Europa? Il processo di provincializzazione, appunto: uno stato di trasfigurazione della “città metropolitana” che nei fatti perde orizzonti, ideali e progetti comuni richiudendosi in se stessa e rinunciando alla propria identità. Ma ci sono cause più endemiche e inquietanti.
La scomparsa dei “cavalieri”, la trasformazione della criminalità organizzata da struttura verticale in orizzontale, più diffusa nel territorio ma meno aggressiva e litigiosa, la concentrazione radicale dei consumi in centri commerciali sempre più vasti e numerosi, fenomeno unico in Sicilia in così massicce proporzioni, motivo di modificazioni profonde nella mobilità, nella rete di vendita al dettaglio e nelle abitudini dei consumatori, sono tutti fattori di crisi di quella Catania che fino al volgere del secolo scorso poteva contare su un modello di relazioni carsiche in forza del quale i rapporti di forza erano consolidati e comunemente accettati. Caduti o involuti questi, è venuto meno il tessuto connettivo di una realtà fondata su un’economia drogata sì ma che era capace di fare sistema.
Hanno contributo a minare tale apparato almeno cinque elementi: la frantumazione dei partiti politici in indistinte forze minuscole e accidiose; la dispersione di uomini di prima grandezza cui sono seguiti eredi che si sono smarriti nella ricerca dell’eterna “primavera” come Enzo Bianco o inseguendo generosi ideali come Claudio Fava o abdicando alla cura del territorio come Anna Finocchiaro e quasi tutti gli altri; l’insorgenza di un clima di deprecazione del sé che si è rivelato il rovescio di quell’ipertrofia dell’io tenuta per decenni a crisma ispiratore di ogni condotta individuale; la depressione del commercio come arte dell’intrapresa che non è valsa però il rilancio dell’industria, rimasta a ristagnare nelle sue corrive logiche assistenzialistiche; e infine, ma non ultima concausa, il depauperamento della sfera culturale che ha ridotto pressoché a zero scrittori, registi, artisti, attori e intellettuali, ribaltando così il risultato a favore di Palermo che conta invece significative figure emerse negli stessi ambiti.
Le speranze della città (che intanto le giovani generazioni hanno conquistato presidiando giorno e notte piazze e bar, istituendo una ininterrotta movida e colorando il centro della loro ottimistica ma distaccata presenza: quasi uno spodestamento a nome di nessuno) sono sospese nell’attesa di un fatto nuovo che non si sa da dove o da chi debba venire, quel fatto nuovo che Giuseppe Fava invocava perché qualcosa potesse cambiare. Intanto l’aria sa di rappreso e di passato, tant’è che nella muta e attonita coscienza catanese è ormai entrata a far parte una scritta murale che ha fatto epoca ed è diventata un grido collettivo: “Il Pigno muore, Micale se ne fotte”. Ma stavolta di Micale, l’allora sindaco, ce ne sono forse ben di più, anche senza nome. La città intera pare diventata un grande e mortifero Pigno.