L’immediato Secondo dopoguerra fu caratterizzato in
Sicilia da una serie continua di rivolte popolari scatenate essenzialmente
contro il carovita. La Sicilia si confermò una terra cresciuta nello spirito
del Vespri e dei moti del 1848. Il 1946 fu l’anno che più infiammò l’intera
Sicilia.
Il 22 febbraio ’46 a San Cataldo si ebbe l’assalto al Consorzio agrario per la mancata distribuzione della pasta e l’uccisione di un bambino da parte del proprietario di una drogheria presa d’assalto. Il 12 marzo ’46 a Palermo reduci di guerra, lavoratori della società anonima Arenella del cantiere navale e tranvieri guidarono la folla che alzò barricate in Via Maqueda. Venne prese d’assalto l’Ufficio imposte e la documentazione portata in strada e bruciata. Davanti all’Ufficio Annona uno scontro provocò la morte di un ispettore di polizia e di un civile, all’Esattoria comunale furono devastati gli interni e dalle finestre gettati per strada documenti e archivi. Feriti si ebbero anche davanti alla prefettura in un assalto dei carabinieri a cavallo. Il 30 aprile ’46 ad Agrigento la rabbia popolare si scatenò contro la pessima confezione del pane e per il recupero di notevoli quantità di grano non versato all’ammasso; il 5 agosto ’46 per le stesse ragioni a Caccamo quattro tra carabinieri e agenti di polizia furono uccisi dalla folla e il paese fu messo in stato di assedio del paese fino all’intervento di mediazione dell’arcivescovo di Palermo Ruffini.
Il 22 febbraio ’46 a San Cataldo si ebbe l’assalto al Consorzio agrario per la mancata distribuzione della pasta e l’uccisione di un bambino da parte del proprietario di una drogheria presa d’assalto. Il 12 marzo ’46 a Palermo reduci di guerra, lavoratori della società anonima Arenella del cantiere navale e tranvieri guidarono la folla che alzò barricate in Via Maqueda. Venne prese d’assalto l’Ufficio imposte e la documentazione portata in strada e bruciata. Davanti all’Ufficio Annona uno scontro provocò la morte di un ispettore di polizia e di un civile, all’Esattoria comunale furono devastati gli interni e dalle finestre gettati per strada documenti e archivi. Feriti si ebbero anche davanti alla prefettura in un assalto dei carabinieri a cavallo. Il 30 aprile ’46 ad Agrigento la rabbia popolare si scatenò contro la pessima confezione del pane e per il recupero di notevoli quantità di grano non versato all’ammasso; il 5 agosto ’46 per le stesse ragioni a Caccamo quattro tra carabinieri e agenti di polizia furono uccisi dalla folla e il paese fu messo in stato di assedio del paese fino all’intervento di mediazione dell’arcivescovo di Palermo Ruffini.
Messina si rivelò la città più turbolenta a dispetto della sua fama. Il 1946 e
il 1947 furono due anni che i messinesi trascorsero in piazza in decine di
migliaia per protestare contro il governo nazionale e la politica fiscale. Nel
1946 il grave stato di disoccupazione porta alla proclamazione da parte della
Camera del lavoro di uno sciopero generale che, a seguito di un incontro in
prefettura, il 17 marzo viene sospeso sulla base di un accordo che prevede la
distribuzione entro una settimana di un chilo di pasta a persona e altre due
distribuzioni successive di mezzo chilo di pasta e 400 grammi di sapone a
persona; l’assunzione di un migliaio di operai licenziati dall’Arsenale e di
trecento operai qualificati nella riparazione della nave-traghetto “Reggio”.
La distribuzione della pasta ha inizio solo il 26 marzo, ma già il 22 gruppi
organizzati di disoccupati scendono per le strade e costringono enti, negozi e
amministrazioni a sospendere il lavoro. Verso mezzogiorno, per l’infiltrazione
di facinorosi, la dimostrazione degenera. Un folto gruppo invade il bar
Trinacria, rompe le vetrate e fa razzia dei dolci in vetrina. Un altro gruppo
assalta lo spaccio di vendita del Consorzio agrario in Piazza Municipio
asportando i generi esposti. La folla intanto si ingrossa e procede lungo Viale
San Martino dirigendosi verso Gazzi. A Provinciale blocca un’autocisterna di
carburante e preleva ingenti quantitativi di benzina che porta all’Esattoria
comunale di Villa Salvato dove vengono devastati gli uffici e la benzina
versata per dare fuoco ai locali. I danni saranno di cinquanta milioni. Altri
gruppi si dirigono alla sezione provinciale dell’Assistenza postbellica che
invadono distruggendo gli interni e lanciando gli incartamenti dalle finestre
dando fuoco per strada. Un impiegato riesce a salvare ben un milione di lire in
contanti dalla cassa. I dimostranti si portano poi al pastificio Curcuruto che
saccheggiano mentre verso le 14.30 altri rivoltosi vanno verso Palazzo delle
finanze dove la folla molto eccitata invade gli uffici delle imposte, del
bollo, del demanio, della tesoreria provinciale, delle pensioni e di tutti gli
uffici amministrativi dell’Intendenza dando fuoco a ogni cosa e provocando un
incendio di vaste proporzioni impegnando duramente i pompieri accorsi. Le forze
dell’ordine, perlopiù militari dell’esercito, in numero insufficiente e male
organizzate, fronteggiano il grosso della folla ma vengono travolte.
I dimostranti sono muniti anche di bombe a mano che lanciano provocando feriti.
Un giovane dimostrante si impossessa di un moschetto e spara a un soldato,
Salvatore Caramonna, uccidendolo. I soldati rispondono al fuoco e si hanno
altri feriti, trenta in tutto, di cui cinque gravi. Contemporaneamente altri
gruppi prendono d’assalto i magazzini della stazione Unrra in Via Tommaso
Cannizzaro. Vengono portati via sacchi di farina, zucchero e scatolame. Più
tardi sono assaliti anche i depositi del Consorzio agrario in Via Garibaldi.
Vengono asportati anche venti chili di farina bianca destinata a topicida. Il
Consorzio emette tempestivamente un comunicato di avvertimento ma non fa in
tempo a fermare un ragazzo di quindici anni, Mario Basile, che muore
avvelenato. Le forze dell’ordine intanto vanno prendendo il sopravvento, con la
partecipazione al loro fianco di combattenti e partigiani armati, e conquistano
il controllo della città. Cominciano quindi gli arresti e le perquisizioni.
Alle 16 la sommossa è sedata e il prefetto emette un’ordinanza con cui vieta
riunioni di più di cinque persone.
La pace cittadina è però di breve durata. Non passa nemmeno un anno e il 27
febbraio 1947 la popolazione messinese torna in rivolta. L’occasione è data da
un provvedimento del Comune che affigge all’albo pretorio l’avviso con cui
vengono rese note le aliquote daziarie che si riferiscono alla tassazione dei
vari generi elencati, balzello che colpisce, secondo le leghe della Camera del
lavoro, la classe lavoratrice. La Giunta comunale, senza interpellare il
Consiglio, ha deliberato rendendolo esecutivo il provvedimento del 16 aprile
1946 relativo all’imposta di consumo sui generi di prima necessità, provvedimento
preso dubito dopo la rivolta popolare ma tenuto fermo.
Il 6 marzo, a seguito di proteste formali di alcuni consiglieri comunali e di
associazioni, il prefetto dispone la sospensione degli effetti della
deliberazione che è stata decisa “per fronteggiare le più ingenti spese
attinenti ai servizi pubblici”. Ma nonostante la sospensione la Camera del
lavoro proclama lo sciopero generale chiedendo l’aumento salariale del 15% per
i lavoratori edili e l’istituzione di mense in alternativa all’indennità sostitutiva.
L’Associazione degli industriali oppone che la richiesta non può essere accolta
poiché “si ritiene che l’attuale paga, che parte da un minimo di 515 lire
giornaliere per il manovale più assegni familiari di 42 lire per ogni figlio,
34 lire per la moglie e 16,50 lire per il genitore a carico, costituisce il
massimo che nelle attuali condizioni economiche si possa corrispondere agli
operai della nostra città”.
Venerdì 7 marzo, giorno dello sciopero, confermato dopo che gli industriali il
giorno prima hanno disertato l’incontro convocato in prefettura, i negozi
rimangono chiusi e gruppi di dimostranti si riuniscono in Via Santa Cecilia, al
Supercinema, da dove si muovono verso la prefettura. Alle 10,30 gli operai in
sciopero si dividono in due gruppi con l’incarico di fare chiudere i negozi
ancora aperti. Alle 11 una delegazione viene ricevuta in prefettura dove però
il prefetto Antonino Longo fa sapere di esser ammalato e quindi indisponibile.
Questo annuncio accresce la rabbia ed eccita gli animi. Sulla fontana del
Nettuno viene eretta addirittura una forca. Alle 11.30 si affaccia al balcone
il viceprefetto Castrogiovanni insieme con un dirigente della Camera del lavoro
contro i quali i dimostranti iniziano una sassaiola costringendoli a ritirarsi.
Scoppiano scontri con la polizia e carabinieri nel convincimento che il
prefetto non è affatto ammalato ma solo contrario a intavolare trattative.
Gruppi tentano di invadere il palazzo di governo ma vengono ricacciati con
l’uso di sfollagente e colpi d’arma da fuoco in aria. Alle 12,15 la marea di
scioperanti sempre più minacciosa viene fronteggiata da un nutrito fuoco di
fucileria in aria, iniziativa che scatena la reazione della folla e crea il
panico fra le forze dell’ordine. La folla lancia pietre contro i vetri della
prefettura e della questura e gli agenti a questo punto sparano ad altezza
d’uomo. Due persone vengono colpite e muoiono all’ospedale Piemonte: Giuseppe
Maiorana di 44 anni e Biagio Pellegrino di 54. Feriti rimangono il manovale
Filippo Comandé, 21 anni, e Giuseppe Lo Vecchio, 20 anni, che morirà in
ospedale il 18 marzo,
Alla vista dei caduti i dimostranti mostrano l’intenzione di linciare quanti
avevano sparato. Un agente, Francesco Staglianò di 27 anni, viene aggredito ma
è soccorso dai compagni e portato al Piemonte dove però la folla prova a
raggiungerlo a tutti i costi. L’agente, di fronte all’irruenza dei dimostranti,
viene allora trasferito di nascosto al Margherita mentre al Piemonte vengono
medicati sei carabinieri e altri quattro poliziotti, uno dei quali rischia di
essere linciato ma riesce a chiudersi nella stanza del medico di guardia del
Pronto soccorso da dove scappa attraverso la finestra, ma viene visto e fatto
oggetto di colpi sparati da un fucile sottratto ad altri agenti. Alla fine
riesce a mettersi in saldo.
La Camera del lavoro addossa le gravi responsabilità anche ai carabinieri dal
momento che “alcuni elementi dell’Arma in combutta con elementi monarchici
segnalati nella nostra città hanno causato con ordini inopportuni e criminali
l’eccidio”. Anche il Pci critica i carabinieri e chiede l’arresto del capitano
che al grido “Viva Savoia” ha ordinato il fuoco, nonché la destituzione del
viceprefetto Castrogiovanni accusato di avere esasperato gli animi con la sua
indecisione. Il prefetto Longo dispone, con decorrenza già dal primo febbraio
l’aumento del 13% della paga-base, l’aumento di 10 lire giornaliere quale
indennità sostitutiva della mensa aziendale ed estende lo stesso trattamento ai
lavoratori pittori dipendenti di aziende artigiane. Il governo dispone
un’inchiesta e, dopo cinque interrogazioni parlamentari al ministro Scelba, il
Viminale invia un ispettore generale che riceve i cittadini chiedendo
particolari sui fatti avvenuti. Alla Camera del lavoro intanto vengono deposte
le salme dei lavoratori uccisi alle quali rende visita l’Alto commissario
Selvaggi. Ai funerali partecipa una folla calcolata in cinquantamila persone.
Ma oltre la tensione non si hanno incidenti. Il sipario cala su una stagione di
fuoco che fa conoscere Messina come città tutt’altro che sonnacchiosa.