giovedì 16 maggio 2019

Nel "Giorno della civetta" tre puntini come chiave


Quando capomafia non era un unico sostantivo e Leonardo Sciascia lo divideva in due; quando cioè la mafia era davvero «nella fantasia dei socialcomunisti» e la Commissione Antimafia solo una proposta parlamentare, Il giorno della civetta arrivò nelle librerie come, esattamente venti anni prima, nel 1941, erano apparsi di Brancati Don Giovanni in Sicilia e di Vittorini Conversazione in Sicilia: primi romanzi siciliani antifascisti questi, primo romanzo antimafia quello. Ma non arrivò da solo. Nello stesso 1961 uscì anche Mafia e politica di Michele Pantaleone, che rivelò dal vero le collusioni tra l’una e l’altra sfera, facendo nomi di boss e di colletti bianchi e operando così al contrario di Sciascia che, affrontando proprio il tema degli intrecci tra mafia e politica, si preoccupò tanto, scrisse nella Nota finale, di «parare le eventuali e possibili intolleranze» di mafiosi e politici da esitare un romanzo dove a «ritirarsi nell’anonimo» non fu solo «qualche personaggio», ma quanti nella realtà avessero motivo di sentirsi colpiti dalla sua «rappresentazione»: onorevoli, ministri, burocrati di Stato, vescovi – trattati tutti, come anche il capomafia di cui solo appresso svelerà l’identità, al pari di ombre parlanti, ipostasi di ruoli, maschere su un teatro di figure da mimo.
«Rappresentazione» la chiama Sciascia, dichiarando da un lato di non sentirsi «eroico al punto da sfidare imputazioni di oltraggio e vilipendio» e da un altro di avere scritto il romanzo «non con quella piena libertà di cui uno scrittore dovrebbe sempre godere», libertà che nell’Italia del suo tempo vedeva soffocata dalla «suscettibilità» dell’autorità pubblica come pure del potere privato e che evidentemente faceva premio sul suo coraggio. Non per caso lo scrittore scomparso trent’anni fa imputò la sua rappresentazione della Sicilia, metafora dell’Italia «che sta diventando Sicilia», alla propria «immaginazione» per confermare come il suo atto di denuncia dell’insorgenza mafiosa commista al tralignamento statale fosse e restasse non altro che un romanzo: la controstoria della Sicilia raccontata in antitesi alla storia della Sicilia spiegata da Pantaleone e destinata ad avere un successo tale da fare di Sciascia, suo malgrado, quello che Pantaleone era già: un mafiologo. Fatto che Sciascia non visse di buon grado nel timore di maggiori e ancor più «possibili intolleranze», per scongiurare le quali scrisse che molto si diede «a cavare, a cavare», riducendo un romanzo più lungo e ricco di personaggi e rivolgimenti, dove la sensazione è piuttosto che si impegnò a cavare alla mafia gli abiti sporchi per lasciarla non tanto nuda quanto meno definibile e forse un po’ seducente.
L’episodio che il capitano Bellodi racconta in chiusura ai suoi amici emiliani – di un medico pestato in carcere che, deluso dalla mancata protezione dello Stato e del suo partito, si rivolge al capomafia che gli rende giustizia punendo il responsabile – è posto come a suggello di una interpretazione che suona a futura memoria e a propria difesa, ma anche a decoro di una mafia che “l’onorevole” ritiene dotata di un senso della giustizia, «istintivo, naturale, un dono», per cui merita di essere «oggetto di rispetto». L’onorevole in realtà non parla di mafia ma di mafiosi, perché la mafia non esisterà come figura giuridica fino al 416 bis, norma con la quale dopo Dalla Chiesa sarà introdotto il reato di associazione mafiosa. E tuttavia nel momento in cui, richiamando Hobsbawm, riconosce la categoria dei mafiosi, Sciascia intravede un embrione di mafia già formato e solo antifrasticamente lascia che lo stesso onorevole dica che non «c’è mai stato un processo da cui sia risultata l’esistenza di un’associazione criminale chiamata mafia cui attribuire con certezza il mandato e l’esecuzione di un delitto», perché già per bocca del capitano Bellodi quella parola, “associazione”, è stata pronunciata e proprio per parlare di mafia. Siamo al suo preludio e la terminologia è ancora inappropriata, tanto che l’imputazione a don Mariano Arena di aver ordinato l’uccisione di Colasberna e a Pizzuco di aver commissionato la morte di Nicolosi è da Sciascia configurata come “mandato d’omicidio”, un titolo di reato allora inesistente e oggi compreso tra i capisaldi dell’associazione mafiosa, purtuttavia intuito da Sciascia nel modello del mandante che si serva di un potere intimidatorio e sovrastante.
Ma del modello, quello di “capo mafia”, ha già piena coscienza nella retorica della osservazione che il solito onorevole oppone a Bellodi: «Ditemi voi se è possibile concepire l’esistenza di un’associazione criminale così vasta ed organizzata, così segreta, così potente da dominare non solo mezza Sicilia ma addirittura gli Stati Uniti d’America: e con un capo che sta qui, in Sicilia». La risposta implicita è nel senso che è possibilissimo: e questo già nel 1960, quando nessuno conosce la Cupola, la stessa mafia è ricondotta da Pantaleone a un sulfureo “spirito di mafiosità” e i rapporti transoceanici tra “famiglie” integrano solo una vaga nebulosa.
Non è la sola prevenienza quella di una mafia che esiste come realtà scissa dai mafiosi, i soli che i siciliani conoscano. Quando interroga don Mariano Arena, il capitano Bellodi indaga sui suoi profitti e quel che pensa è quanto vent’anni dopo costituirà l’arma vincente di Falcone: «Bisognerebbe di colpo piombare sulle banche, sorprendere nel covo dell’inadempienza fiscale», come in America avevano fatto per incastrare Al Capone.
Il giorno della civetta è allora una prova di lucidità ma anche di sforzo, tra l’impulso a esercitare un impegno civile sentito come vocazionale e il freno di una coscienza che, educata in terra di mafia, consiglia all’autore molta prudenza. Alla fine la rappresentazione della mafia si svolge entro un quadro di inevitabili rimandi allo Stato intuito come collusione e allo Stato visto come istituzione, assumendo non un potere contrario a un contropotere, ma due autorità contrapposte, non ancora indotte a una qualsiasi “trattativa” ma già unite in un “patto”, egualitarie, entrambe legittime e reciprocamente rispettose. Quindici anni dopo, questo punto di equivalenza che è una equidistanza dai poteri forti si preciserà nello slogan “Né con lo Stato né con le Br” (forse mai da Sciascia pronunciato benché certamente, nei fatti, condiviso), ma intanto nel romanzo breve che teorizza l’accrocco, Stato e mafia sottendono due corpi della stessa natura che esercitano sulla Sicilia forze di attrazione diverse, quella Sicilia così irrazionale che al fascismo è rimasta debitrice essendo stata la sola regione a guadagnarci «la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni».
Stato e mafia dunque nella Sicilia irrazionale. La legge scritta dello Stato «nasce dalla ragione ed è ragione», ma poi si fa appunto irrazionale perché «ad ogni momento creata da colui che comanda, da chi ha la forza» per cui diventa «il braccio dell’arbitrio che si può allungare da una parte sola». Nel capitano Bellodi – e nello sbirro in genere – il siciliano vede quindi il braccio della legge muoversi a piacimento, mentre nel mafioso trova i caratteri del giudice di pace che amministra giustizia in modo rapido e soprattutto chiaro, secondo una legge materiale a base popolare. Un giudice tuttavia strano, quanto estraneo è l’uomo della legge. Tollera che “Parrinieddu” (equivalente di ipocrita) faccia il confidente ma non che tradisca. Così scrive Sciascia, sottilmente: «Credeva la morte gli venisse per l’infamità che aveva fatta, che la conoscessero o la sospettassero, e non perché esplodendogli la pazzia in paura, avesse offerto di sé l’immagine del traditore consumato». La sottigliezza è nella pirandelliana dicotomia tra l’essere e l’apparire, non detto e dichiarato, Forma e Vita, di cui Ciampa si è fatto celebre monumento: in segreto “Parrinieddu” può fare l’infame per campare ma quando si mostra pazzo e il suo atto di infamia diventa pubblico, allora non si tratta più di infamia ma di tradimento, colpa più grave perché riguarda «la santa chiesa» e perciò si muore «nel cuore degli amici».
Strano è ancora l’innominato capomafia quando al giovane manutengolo fa un discorso su sbirri, preti e cornuti che sono le categorie umane nelle quali si nasce tali e quando riesce a fare valere una verità che tutto il paese conosce come mistificazione: la tresca adulterina accampata dietro l’omicidio Nicolosi.
Sciascia tratta a tal punto pariteticamente Stato e mafia che fa il nome del maresciallo maggiore di S. solo quando si decide a fare quello di don Mariano Arena, entrambi già – anonimamente – noti al lettore. È un procedimento che risponde alla cautela adottata, comprensibile se si pensa all’epoca in cui Sciascia scrive e alla dirompente novità che un romanzo sulla mafia rappresenta. Sciascia ha già scritto di delinquenza, per esempio in Le parrocchie di Regalpetra, divulgando le condizioni sociali registrate nel suo paese, Racalmuto, ma è ben cosciente che la descrizione di una realtà non è rischiosa quanto la sua narrazione: la prima è reale e può essere discussa e smentita, la seconda è frutto dell’immaginazione e costituisce un’opinione che può essere solo messa a tacere e non sconfessata. In un tempo in cui di Cosa nostra non si sapeva niente (molto prima che Buscetta cominci a rivelarla, dopodiché la mafia sarà oggetto di interesse di giornalisti e storici, non più dei narratori che non avranno nulla da immaginare), diventava estremamente pericoloso avanzare ipotesi che sia pure romanzesche centrassero la verità.
Sciascia dava l’impressione di conoscere molte cose, per modo che la sua prudenza fu dettata dalla consapevolezza che aveva della realtà. Sapendo bene che in Sicilia occorre scrivere sempre tutto ciò che si apprenda per salvarsi la vita, perché la reticenza espone al rischio di essere impediti nel fare nuove rivelazioni, Sciascia si trovò dunque nello stato di poter dire molto di più ma nello spirito di non doverlo fare per la mancanza della libertà che gli era necessaria. E scelse di precisare che non c’era personaggio o fatto che fossero rispondenti al vero, così contraddicendosi nel presupposto che, godendo di piena libertà, avrebbe voluto – come scrisse – «fare sul serio» e cioè rispondere al vero: ciò che in effetti la critica ha poi colto come motivo per legare ogni personaggio e ogni fatto a persone ed eventi reali.
Tra il timore di dire troppo e la spinta a dire tutto, Sciascia all’inizio assecondò il secondo richiamo e scrisse un romanzo molto più lungo e circostanziato, ma poi lavorò «a cavare», ovvero a rendere tollerabile quanto anche agli occhi degli intolleranti potesse stare entro «i limiti che le leggi dello Stato e, più che la legge, la suscettibilità di coloro che le fanno rispettare, impongono». Ciò facendo si segnò a preconizzatore, involontariamente votandosi a fare credere di sapere più di quanto in realtà conoscesse, ma smentirà deliberatamente le opinioni e le attese perché non scriverà più un romanzo come Il giorno della civetta. Che cercò di elevare a stati generali di allegoria circonfondendo nell’indistinto non solo le figure ma anche i luoghi. Dov’è infatti ambientato il romanzo? Sciascia lo inscena in tre Comuni che indica con le iniziali di S., di C. e di B. Dalla trama si capisce che sono a poca distanza uno dall’altro e che S. offre un servizio pullman per Palermo. Per confondere la mappa Sciascia chiama la cooperativa della quale Colasberna è presidente “Santa Fara” intitolandola a una santa che in Occhio di capra dirà di non ricordare di quale Comune siciliano fosse patrona, ma che certamente non è venerata nell’Agrigentino. Il nome gli piace anche perché ricorre in un proverbio nel quale significa “minimo sforzo” e “poca cosa”, ciò che fanno i pavidi soci dell’impresa edilizia. Poi cade in una svista, quando Bellodi dice in quale paese siciliano svolge servizio: essendo il comandante della Compagnia non può che dimorare in un capoluogo e questo capoluogo non è che Agrigento, una città. In realtà non ci sono riferimenti toponomastici, tranne due, decisivi: il primo è al patrono di S. che ha la faccia nera e che dunque è San Calogero, il quale – molto venerato nell’Agrigentino – è patrono di Naro, paese vicino Racalmuto che Sciascia amò molto e che compare come Nisima nel racconto Il mare colore del vino. Il secondo è il “chiarchiaro Gràmoli” che è «incongruo e assurdo nella pianura verdeggiante». Sciascia precisa di avere scritto il libro «da un’estate all’altra» e quindi nella sua casa di campagna in contrada Noce, a pochi chilometri da Racalmuto, dove ogni anno soggiornava e scriveva. Dall’alto della sua collina, che dà su quella oggi chiamata “Strada degli scrittori”, vedeva nella pianura verdeggiante, appena dopo la strada e davanti a sé, la contrada detta Garàmoli nella quale un terreno sassoso, «incongruo» in tanto verde, «assurdo», gli ricordò un “chiarchiaro” e storpiò quindi il nome di Garàmoli in Gràmoli immaginando un luogo di morte.
Il romanzo è dunque ambientato nell’Agrigentino, a Racalmuto addirittura, cosa che permette di rivedere in meglio la prudenza di Sciascia, che ben poteva, come farà nei successivi romanzi, evitare ogni riferimento territoriale e geografico. Lo fece, reduce dalle Parrocchie, solo per il suo romanzo a rischio, l’unico che minacciasse l’intolleranza della mafia del suo stesso paese, così apertamente additata anche nel titolo, la civetta essendo non solo simbolo di morte ma – giusta l’epigrafe tolta da un brano di Shakespeare – uccello notturno che ora però compariva di giorno, come la mafia proditoriamente venuta allo scoperto. Ne ricavò cocenti polemiche e accuse di avere dato un volto umano alla mafia nonché fatto del capomafia un signore d’altri tempi per saggezza e modi. C’è del vero, è innegabile.
Ma c’è anche, come una chiave segreta, un aggettivo sul quale vale rompersi la testa, come Bellodi giura di fare in Sicilia. L’aggettivo è “incredibile”. Perché il capitano definisce tale la Sicilia e con essa anche la mafia? Parliamo di un aggettivo che viene usato quando non se ne trova uno specifico e appropriato, quando si esprime un senso di meraviglia e quando soprattutto non si è capito quanto dovrebbe essere invece comprensibile e credibile. Visto che lo ripete per dare prova che è questa, come scrive, «la parola che ci vuole», viene da chiedersi il perché di una qualificazione così generica.
È curioso, ma l’aggettivo è il più frequente in bocca e nelle pagine di Andrea Camilleri, il cui Il corso delle cose, il suo primo romanzo, è ricalcato senza rossore alcuno su Il giorno della civetta, dal quale egli ha peraltro tratto l’intera sua presa letteraria. Il talento del commissario Montalbano che riesce a scoprire l’assassino il più delle volte grazie a un’intuizione improvvisa, un flash che gli accende la mente come una lampadina di fronte a uno “sfaglio”, qualcosa che non quadra per dirla con lo stesso Camilleri, viene di peso da quanto scrive Sciascia a proposito del maresciallo, il quale ha il senso che «qualcosa fosse fuori posto o mancasse: come quando una cosa che viene improvvisamente a mancare alle nostre abitudini, una cosa che per uso o consuetudine si ferma ai nostri sensi e più non arriva alla mente, ma la sua assenza genera un piccolo vuoto smarrimento, come una intermittenza di luce che ci esaspera: finché la cosa che cerchiamo di colpo nella mente si rapprende». In questa teoria c’è tutto lo statuto letterario di Camilleri, che a Il giorno della civetta deve anche il suo “saltafosso”, come chiama lo stratagemma con il quale fa cadere un soggetto sospettato di un delitto procurando le prove col tendergli una trappola. È esattamente quanto fa Bellodi nell’interrogatorio a Pizzuco, indotto a parlare dopo aver creduto che, vedendolo attraverso una finestra in un’altra stanza, Marchica stia confessando e lo stia accusando. Anche la “voglia di sgorbio” che è un altro cespite capitale di Camilleri, la contaminazione cioè di vero e falso nel gioco di dissimulazioni per trovare una verità di comodo ufficiale derazzando su un’altra via, è sciasciana nell’epilogo de Il giorno della civetta che si risolve infatti in un giallo su un delitto non più mafioso né politico, ma passionale.
Lo sciasciano Camilleri (che in Il giorno della civetta ha trovato anche la Livia di Montalbano) è anch’egli agrigentino e usa dunque spesso l’aggettivo “incredibile”, che nella sua parlata è molto comune. Perché invece lo fa Sciascia, reiterandolo e ponendolo a coronamento di un apologo sociale sulla Sicilia, l’Italia e la mafia? Lo fa perché nella sua genericità l’aggettivo possa sottendere significati specifici, criptici e diversi in ogni riferimento. L’aggettivo è inizialmente riferito alla Sicilia e suona come “fuori dal comune”, tant’è che l’amico di Bellodi dice di aver conosciuto dei siciliani e di averli considerati straordinari, anche perché hanno un loro governo autonomo e questo governo – ed ecco la pietra d’inciampo, la palinodia – è quello della lupara. A parlare è Brescianelli che poi riferisce la sua idea della palma che sale verso il Nord, sennonché prima compare la frase «Incredibile è anche l’Italia: e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia», frase che non è attribuita a Brescianelli, che anzi Sciascia interrompe per esprimere una personale considerazione: vuole essere lui a mettere per iscritto che l’Italia è incredibile, intendendo che non riesce a credere che il suo Paese neghi agli scrittori la libertà di espressione incondizionata. Andare in Sicilia per capire questo significa guardare proprio al suo caso di scrittore costretto a tacere.
Poi “incredibile”, in un altro significato, è detta Livia («Sei incredibile anche tu: bellissima») che Brescianelli paragona alla Sicilia, «donna anche lei: misteriosa, implacabile, vendicativa e bellissima». Giudizi contrastanti, in linea con la straordinarietà della Sicilia che di straordinario ha il governo della lupara. Giudizi confusi e imprecisi, deliberatamente equivoci. Infine “incredibile” è inopinatamente detta anche la mafia: «È molto complicata da spiegare, è… incredibile, ecco» dice Bellodi. Tre puntini di sospensione e un’esclamazione che vuole essere una trovata.
La chiave segreta dell’intero romanzo è in questi tre puntini e nell’avverbio. Sciascia sembra dire che, essendo incredibile, la mafia non è credibile, quindi non esiste, oppure che non è definibile, opzione che equivale a una sospensione del giudizio, una epoché che lo solleva dalle conclusioni, giacché della mafia c’è ancora molto da capire. Più precisamente sembra che l’aver dichiarato la Sicilia, l’Italia e Livia incredibili gli sia servito per arrivare ad affermare incredibile la mafia, così da non pronunciarsi su di essa. Tre puntini come per cercare la parola, trattandosi di una realtà «molto complicata», e poi quell’«ecco» che giunge a sua attestazione.
Ma non è questa l’interpretazione corretta. I tre puntini di sospensione non denotano una reticenza né segnano una ritrattazione. L’uso di un aggettivo così comune e la contraddizione nel giudizio dei siciliani straordinari e della Sicilia bellissima e implacabile sono forme di una nuova antifrasi, chiavi nascoste per fare intendere che se la mafia è incredibile non è perché è difficile crederla esistente ma perché non è facile credere quanto piuttosto sia presente e vera. Con un vero atto di coraggio finale Sciascia vuole dunque fare sapere agli intolleranti e ai suscettibili, proprio in quei tre punti di sospensione, che ha capito tutto. Anche l’incredibile.