Come il “piccolo giudice” dello Sciascia di Porte aperte, anche il “professore” di Claudio Fava de Il giuramento (add editore, pp. 127, euro 14) non ha un nome. Non serve quando un personaggio da romanzo assurge a ipostasi di una coscienza morale: in Sciascia contro la pena di morte nel 1937, in Fava contro l’obbligo posto nel 1931 dal governo Mussolini ai docenti universitari di giurare fedeltà al regime fascista e dichiararsi quindi collusi. Capitando entrambi i casi negli “anni del consenso”, a maggior motivo il no opposto dal “piccolo giudice” e dal “professore” assume il senso di una ribellione ma soprattutto di un punto d’onore, “l’onore della vita” scrive Sciascia. Sia l’uno che l’altro sono trasposizioni di figure reali, il giudice racalmutese Salvatore Perrone e il medico legale torinese Mario Carrara, il primo espulso dall’università, il secondo detenuto e poi morto in carcere proprio nel ’37, quando il “piccolo giudice” prende le mosse, a segnare come il passaggio di testimone da un’etica di rigore a un’altra.
Il giuramento è liberamente ispirato alla vita di Carrara, che come lo sciasciano Perrone svolge un ruolo archetipico e non biografico, perché intento di Fava (forse l’autore siciliano più vicino, per il tramite del padre, ai sentimenti di Sciascia) è di denunciare la presenza di un tralignamento sociale – il potere prevaricatore sotteso al fascismo o alla mafia – che non è relativo a un’epoca storica ma si rivela recidivante e sempre in agguato nel degenere di un male assoluto. Fava fa di Carrara uno scienziato preda non solo del suo gurgite antifascista, ma anche un uomo succube di un mal di vivere che è figlio del suo tempo, un solitario déraciné indotto a isolarsi nel suo mondo piccolo che va dal tinello all’aula delle lezioni, popolato dalle sole figure di Tilde, la domestica segretamente innamorata, un collega medico che presterà giuramento, anche se socialista militante, e alcuni studenti ai quali lo lega l’amore per la patologia e lo divide la fede fascista.
Quando uno di questi studenti viene torturato dagli squadristi e si suicida, il professore sente di non poter concedere più nulla al regime, nemmeno un falso giuramento di parata, sicché al secondino chiede in carcere di chiudere la porta della cella nel proposito di isolarsi ancora di più e restringere ulteriormente la propria circostanza.
Il giuramento, versione letteraria di una pièce teatrale prodotta dallo Stabile di Catania, è ambientato a Catania, città dell’autore, nell’idea di attribuire al proprio impegno civile il significato di una lotta contro ogni forma di potere extra legem fuori soprattutto da ogni spirito di tolleranza e umanità. Il frequente ricorso al parlato dialettale risponde in Fava a un’istanza di radicamento territoriale. Il rifiuto del diktat fascista da parte di un docente torinese non è diverso, né può esserlo, dal sopruso mafioso esercitato su un cittadino catanese, anche al quale spetta il fomite camusiano dell’“uomo in rivolta”. Nell’Italia civile degli eroi per caso non rimane, dice Fava, che “un’estrema decenza: il coraggio di dire no”.