giovedì 27 febbraio 2020

Sciascia, la questione del canone


Preconizzando nel 1991 che, «prima o poi, agli esperti di cose sciasciane sembrerà di poter procedere a un censimento di tutti i testi dello scrittore siciliano e tenteranno di ordinarli e stamparli», Claude Ambroise, curatore delle Opere Bompiani, si rifaceva al naturale destino riservato dalla «fortuna critica postuma» a quegli «scrittori che riteniamo importanti». Tale fortuna è spettata certamente a Leonardo Sciascia, la cui produzione è da tempo in via di riproposizione da Adelphi in un ricco catalogo che per ultimo vanta, dopo il primo sulla narrativa, il secondo dei due tomi saggistici (pp. 1484, euro 75) delle Opere. Curatore è Paolo Squillacioti, reduce dalle miscellanee Il fuoco nel mare, Fine del carabiniere a cavallo e Il metodo Maigret, artefice nel complesso di un’operazione di recupero dell’attività sciasciana che ha del mirabile non meno che del certosino per l’acribia filologica impiegata.

Avvertendo Ambroise che, davanti alla gran mole del corpus sciasciano, solo in parte sarebbe stato possibile pubblicare i testi dispersi, di fatto il ricercatore toscano non ne ha raccolto che una piccola percentuale, calcolando che il totale supera i millequattrocento articoli, una vera e propria farragine che costringe qualsiasi curatela a fare lavoro di selezione: Squillacioti ha dovuto perciò, per trovare spazio, rinunciare non solo all’indice dei nomi ma anche a mantenere l’impegno, preso in Fine del carabiniere a cavallo, di rendere nota in tale occasione la bibliografia completa in ordine allo «studio più avanzato della ricerva», dal momento che l’elenco richiede non meno di duecento pagine, reperibili forse in un terzo volume ancora di saggi dispersi che l’editore milanese sta in realtà valutando di realizzare.
E non a caso il critico francese amico di Sciascia intitolava la premessa alle Opere Bompiani “Tutto Sciascia?” con un punto di domanda inteso a indicare una missione impossibile che tuttavia Squillacioti ha voluto intraprendere facendo come Erodoto che ricerca la verità storica a fuochi spenti, a differenza di Ambroise che si è mosso come Tucidide, sempre presente agli eventi in qualità di testimone o, diciamo meglio, in veste di assistente. Quanto infatti, riguardo alla produzione sciasciana degna di compilazione, Squillacioti chiama “canone Ambroise” riflette in realtà scelte prese dallo stesso Sciascia che selezionò i testi dispersi da raccogliere in volume secondo un criterio basato sull’esistenza di scritti già costituiti in libri e cestinando tutti i “testi vaganti”.
Non solo. Sciascia volle che fosse seguito un ordine cronologico che non tenesse conto del genere letterario, perché da fedele pirandelliano non poteva concepire che la vita sottendesse una forma, nella consapevolezza più volte espressa di essere un autore impuro posto al di sopra dei generi, addicendosi ogni volta a scrivere senza la coscienza di fare narrativa o saggistica. Inoltre dispose che la sua bibliografia ufficiale cominciasse da Le parrocchie di Regalpetra del 1956 e che dunque andasse ignorato quanto era uscito in precedenza, a cominciare dal ripudiato Pirandello e il pirandellismo come anche di Pirandello e la Sicilia. Sennonché lasciò liberi il curatore e l’editore di provvedere loro al terzo volume delle Opere Adelphi, motivo per cui Ambroise si sentì autorizzato a pubblicare – ma in Appendice – nove testi espunti dall’autore.
Sciascia non credeva nell’opportunità di pubblicare tutti i testi dispersi avendo fatto esperienza con l’amatissimo Savinio per il quale, pur essendo riuscito a mettere insieme il complesso dei suoi libri, non poteva dire di averlo tutto, mancando gli articoli usciti nelle occasioni più diverse. D’altra parte vale a rendere impossibile avere “tutto Sciascia” il fatto che né gli eredi né alcun esperto sono riusciti a stabilire quanti siano i suoi scritti. 
Nondimeno Squillacioti ha raccolto la sfida e ormai da anni è impegnato in una ricerca forsennata che conta un punto di forza e uno di debolezza: il primo è dato dalla fortuna di potere leggere o rileggere Sciascia attraverso la sua vasta pubblicistica, scoprendo per esempio uno scrittore sempre coerente e costante nel mantenimento di uno stile che non è, come nota Squillacioti, osservanza del “tipico sicilianismo” teso a coniugare i verbi alla fine della proposizione, perché tale abbrivio lessicale non si ritrova in nessun altro autore siciliano; il secondo riguarda la violazione, consumata con gli scarponi chiodati anche dagli eredi, della volontà di Sciascia quanto non solo alla proposizione di testi dispersi, ma anche alla divisione di essi secondo il genere, giacché Il fuoco nel mare raccoglie testi narrativi, Il metodo Maigret interventi sul tema del giallo, Fine del carabiniere a cavallo elzeviri e note letterarie.
Sorge dunque la questione della convenienza dell’iniziativa adelphiana, tale da poter apparire a danno della stessa figura di Sciascia dopo che egli stesso aveva stabilito un preciso canone della sua opera, mentre Squillacioti ha agito senza vincoli, ma certamente in accordo con la famiglia e con il consenso dei migliori ricercatori sciasciani e di enti morali e associazioni che gli sono stati vicini. Iniziativa arbitraria sì ma ragionata, altamente specialistica e professionale, locupletatrice e non certo depauperatrice degli studi di ricerca su Sciascia: crea un nuovo canone, ma offre anche un nuovo assetto alla produzione dello scrittore contribuendo a fare ulteriore luce, più che necessaria vista la complessità della sua poetica come pure della sua attività. 
Si apprende per esempio che, come membro di una giuria per un premio letterario, si vantò con il vincitore per avergli fatto avere ex aequo il primo premio di mezzo milione. E si scopre che incorse in solenni infortuni: quando, pur dicendosi non del tutto convinto, alla fine stabilì che in una foto era riprodotto Pirandello mentre si trattava del sindaco di Capri; e quando si accanì a trovare nel Don Chisciotte la parola “mafia” che gli sembrò di leggere in un elenco di Manzoni, avventurandosi così in ardite congetture sulle più remote scaturigini dell’onorata società, senza avvedersi che la parola non era “mafia” ma “maña” che significa “astuzia”.
Ben vengano comunque le particolarità (parola carissima a Sciascia) sulla vita dello scrittore. Che se è vero che sconfessò i generi, è anche nei fatti che lavorò alla compilazione di antologie tematiche quali Pirandello e la Sicilia, La corda pazza, Cruciverba, Fatti diversi di storia letteraria e civile, A futura memoria (i maggiori titoli presenti nel secondo tomo) che pur accogliendo il principio cronologico si articolarono nondimeno in base agli argomenti scelti: di cose siciliane la prima, di variazioni letterarie europee la seconda, di costume e di colore la terza, di denuncia civile e politica l’ultima.
Sciascia volle dunque un canone che comprendesse testi che erano disseminati e che nel tempo sono diventati dispersi e non pochi di essi rari. Scrisse per la precisione, pubblicando Cruciverba: «All’incirca ogni dieci anni mi avviene di pubblicare una raccolta di saggi. Pirandello e la Sicilia, La corda pazza e ora questa che intitolo Cruciverba. Dico “mi avviene” perché questi tre libri si sono formati più per memoria e sollecitazione altrui che per memoria e volontà mia». È vero in parte, perché per La corda pazza Squillacioti ha documentato che, dopo la decisione dei dirigenti Einaudi di privilegiare il saggio sul romanzo, Sciascia propose a Giulio Einaudi la ripubblicazione, sotto il titolo “La linea della palma”, di «tutti gli scritti sulla Sicilia, su scrittori e cose siciliane, di questi ultimi anni»: scrittori e cose siciliane la cui definizione si ritrova anche nella nota finale di Pirandello e la Sicilia a indicare un interesse per la Sicilia tenuto costante tra il 1961 e il 1970 e tuttavia motivo perché nel suo canone finisse solo il titolo einaudiano. Da un lato perciò Sciascia respinse l’idea di ripubblicare i testi occasionali mentre da un altro si impegnò a salvarne una parte secondo un preciso codice di selezione. Preparando Fatti diversi di storia letteraria e civile annotava infatti: «La raccolta è la terza che io faccio di miei articoli e saggi dispersi». In realtà è la quarta, ma ha già deciso di cestinare Pirandello e la Sicilia (che pure faceva parte della terna di raccolte intestata) perché di Pirandello vuol portare nel canone solo Alfabeto pirandelliano.
Forte di queste contraddizioni che aprono la strada alla sconfessione del catalogo Ambroise, Squillacioti si è dato all’immane opera di sottrarre all’oblio proprio quei “testi vaganti” che il canone ufficiale aveva inteso espellere. Ma quale criterio si è dato? La risposta si è avuta nel 2016 in Fine del carabiniere a cavallo: «Il problema, evidentemente arduo, di operare una scelta in un insieme così vasto si è posto sin dal momento in cui sono state disegnate le Opere, il cui obiettivo primo è quello di contestualizzare i volumi che Sciascia diede alle stampe e di attingere alla produzione dispersa in modo selettivo e circoscritto. Si prevedeva, con le parole dell’Introduzione [nel primo volume], un recupero “mirato non tanto alla riesumazione di pezzi eccellenti – operazione in cui il vaglio facilmente avrebbe rischiato di scivolare nell’arbitrio, e che fra l’altro avrebbe dilatato a dismisura la selezione stessa – quanto all’esemplificazione delle esperienze culturali, delle collaborazioni giornalistiche e dei rapporti personali da cui è scaturita la scrittura dispersa e delle tipologie della sua diffusione”».
La scelta del curatore è stata ispirata perciò a un’idea di florilegio e di crestomazia che però si presta a essere vista come troppo soggettiva, dando adito al dubbio se i brani selezionati siano gli stessi che avrebbe semmai indicato Sciascia o per lui Ambroise. L’interrogativo diventa allora non più quello se avere “tutto Sciascia” ma “quale Sciascia” avere. L’autore scomparso poco più di trent’anni fa rimane certamente legato alle sue opere principali, ma l’arricchimento del catalogo che sta allestendo Squillacioti non può non avere influenza sia sulla produzione che sulla figura. Si prenda per esempio il travagliato saggio “Breve storia del romanzo giallo”: una versione, quella uscita su “Epoca” nel 1975, è stata pubblicata da Squillacioti in Il metodo Maigret mentre un’altra, compresa nel 1983 in Cruciverba, appare anche in questo secondo tomo dei saggi delle Opere. Si tratta di testi diversi, non solo nella forma ma anche nella sostanza per quanto per esempio riguarda il richiamo a Borges che nella seconda stesura non figura, facendo pensare a una deliberata penalizzazione quando probabilmente si è trattato di un disguido capitato in Einaudi sulla base di un dattiloscritto andato perduto.
Ma quale dei due testi riflette meglio il pensiero di Sciascia, al di là del fatto che entrambi gli scritti sono di sua mano? Essendo Cruciverba un’antologia concepita dallo stesso autore, è da supporre che sia il testo einaudiano quello definitivo e stabilito, ma è anche da domandarsi a questo punto se non sarà stato a motivo di tali ricorsivi rifacimenti che Sciascia pensò bene di tenere fuori dal canone i testi spurî così da risolvere alla base la questione della loro coerenza e conformità. Auspice Squillacioti, la Adelphi («dopo Einaudi, il mio editore; mentre Sellerio è stato, come si suol dire, il mio “hobby”» ha scritto Sciascia) si trova a ben vedere nel pieno di un’impresa che ha del temerario e tutta l’aria di voler proseguire: magari nella scommessa di togliere il punto interrogativo alla domanda, “Tutto Sciascia?” che per Bompiani poneva predittivo e scettico Ambroise.