La guerra in Ucraina ha un precedente nel romanzo dell’anno scorso di Ken Follett, Never, tradotto inopinatamente in italiano con un titolo, “Per niente al mondo” (Mondadori), che appare un calembour sottendendo una distruzione totale e anticipando insomma il finale, mentre “Giammai”, nell’accezione originale, esprime uno scongiuro perché una guerra nucleare non abbia a scoppiare mai, soprattutto nei modi in cui li prefigura l’autore britannico ricordando in premessa le futili scaturigini della Prima guerra mondiale.
“Ciò che dà inizio a una guerra è diverso da ciò che la provoca” scrive Tucidide, intendendo come la scintilla venga sempre accesa da motivi pretestuosi e occasionali, pur nel fondamento delle ragioni del conflitto. Follett esaspera questo teorema e nel dito medio levato in alto da un soldato giapponese contro un elicottero cinese, che sorvola un’isoletta rocciosa contesa tra i due Stati e occupata da Tokyo, rintraccia il casus belli che dà origine all’Apocalisse, quella cui si giunge attraverso l’escalation, come è chiamata anche nel linguaggio che oggi risuona minaccioso e ricorsivo dai teatri martoriati e bombardati dell’Ucraina.
Il romanzo è infatti la storia di una escalation data dalla facilità con cui può essere innescata e dall’impossibilità, una volta intrapresa, che sia arrestata. Letto oggi, a ridosso dei fatti ucraini, assume un valore paradigmatico e divinatorio, nella sorprendente scoperta di quanto gli eventi reali ricalchino, persino nelle dichiarazioni ufficiali, quelli immaginari. Ciò lascia pensare che se Follett è riuscito a supporre quale potrebbe essere l’esatto quadro che si verrebbe a creare nello scacchiere internazionale a seguito di una crisi pur circoscritta è segno che nella realtà non può aversi escalation che non sia come è possibile prevederla nella finzione, per concludere con l’agghiacciante riflessione che una guerra nucleare è molto più facile da determinare che da evitare. L’idea che richiama è di una reazione a catena.
Un ministro del governo cinese cerca di raffreddare la tensione montante a Pechino e chiede se abbia senso “dare inizio alla Terza guerra mondiale solo perché una nazione confinante di secondaria importanza è stata attaccata.” La Corea del Nord, alleata della Cina, ha subìto un attacco ritorsivo da parte degli Stati Uniti in risposta a un precedente attacco di Pyongyang contro la Corea del Sud, Stato protetto da Washington. A sua volta la Corea del Nord bombarda postazioni giapponesi, che sono amici degli americani, e la reazione nipponica è l’invasione di un’isola rivendicata da Pechino. Tale escalation porta all’inevitabile scontro diretto tra Cina e Stati Uniti, pur nella reciproca volontà e negli sforzi realmente compiuti da entrambe le parti perché non avvenga. Addirittura un notabile conservatore cinese, Chang Jianjun, dice che “ogni persona sana di mente ha paura delle bombe nucleari”, ma milita tra i falchi favorevoli allo scontro diretto, mentre suo figlio Kai dei Servizi segreti per contrappasso si batte contro l’escalation finendo per soccombere.
Le due concezioni di Stato nella stessa famiglia rappresentano per Follett l’inconciliabità di posizioni opposte che neppure rapporti di sangue possono avvicinare: al punto che il padre lascia che il figlio sia arrestato per tradimento nel nome del primato della nazione anche sugli affetti. La verità di fondo è nelle parole della presidente Usa Pauline Green alla figlia Peppa, la ragazzina che interpreta il sentimento comune degli americani: “I problemi facili si risolvono subito, poi mi restano solo quelli difficili. È per questo che non devi mai credere a un politico che ha risposte facili”. Il riferimento è a James Moore, rivale della Green e favorevole all’uso della forza per affermare la leadership degli Usa nel mondo, pur’anche con argomenti che l’autore rende grotteschi in un’intervista in televisione.
Insomma è complicato spegnere la miccia una volta accesa per via di forze che sembrano presenti in natura, ovvero nella natura umana, inestirpabili e potenti. Follett, così come nelle sue saghe medievali, ripropone l’ancestrale scontro tra bene e male, ma bada a non dividere Occidente ed Oriente nella logica tutta americana del western che vedeva i cattivi nei pellerossa e i buoni nei soldati blu. In nome di una invalente e ormai consolidata political correctness, in Follett bene e male operano sia in una che nell’altra parte, con la sola eccezione della Corea del Nord il cui “leader supremo” non entra mai in scena, né sentiamo mai parlare se non limitatamente a quanto riferisce della loro conversazione telefonica il presidente della Cina Chen. Altro volto del male è quello del terrorismo jihadista, sostenuto in Africa anche dalla Corea del Nord, contro il quale si battono i governi occidentali confidando nella missione sotto copertura di un agente americano in Ciad.
Sembrerebbe in un primo tempo che l’escalation monti per via di un banale conflitto a fuoco nel quale rimane ucciso un militare americano, ma via via la crisi dall’Africa si sposta in Asia che diventa il teatro principale relegando a margine le vicende dell’audace agente segreto Abdul, destinato a perdere progressivamente la scena. Il difetto di fondo del romanzo è proprio nella doppia disposizione di due punti di crisi geograficamente distinti a ognuno dei quali fanno capo diversissimi protagonisti che solo superficialmente e surrettiziamente si vanno incrociando. L’avventura di Abdul e della bella ciadiana Khai col figlioletto in fuga verso la Francia, un’avventura che sottende anche una tenera storia d’amore, occupa la prima parte e sembra dovere rimanere prevalente e conducente, ma così non è. Dalla metà in poi è come se Follett scriva un nuovo romanzo che, pur riguardando sempre un continuo accrescimento di allarme globale trova in ragioni distinte e lontane le sue origini, sicché la crisi ciadiana e sudanese, la caccia agli jihadisti del Sahara, l’enorme traffico di droga che finanzia il terrorismo orientale recedono di fronte a spauracchi che investono direttamente i governi e il loro capi di Stato. Di Abdul e Khai si perdono le tracce, come anche di Tamara e Tab, agenti segreti Usa e francese, riuniti infine in matrimonio e in un primo momento candidati a protagonisti del romanzo.
L’intento di Follett di dare un grande romanzo polifonico si immiserisce dunque in un effetto solo poliedrico con due grandi parti che rimangono separate e tante altre più piccole che vanno perdendosi come rivoli in secca. Avrebbe potuto essere, come sembra all’inizio, echeggiando le atmosfere di Wilbur Smith, un canto africano, ambientato attorno al lago Ciad e ad alcune figure che assurgono a entità magiche, come nel caso del dialogo surreale di Khai con lo spirito della madre, e rappresentare le tensioni congenite e proprie del Sahel, ma ha preso altre pieghe: nello stile piuttosto analogico e incalzante ricorda John Grisham e il suo gusto di americanizzare ogni scena, ma è a John Le Carrè e Frederick Forsyth che principalmente si rifà agendo tra spy story, political drama e war thriller.
Il Follett che dai grandi deserti porta alle sale operative supertecnologiche e passa da un volgare trafficante di migranti ai presidenti di Usa e Cina ha il torto di fare apparire l’avventura un gioco a rimpiattino tra guardie e ladri e i massimi vertici internazionali pari a comuni individui bizzosi e stizzosi. Se invece che uomini politici di Stati repubblicani, avesse dovuto portare sulla ribalta monarchi e aristocratici li avrebbe fatti più che ridicoli mantenendo lo stesso approccio. Ha voluto rendere l’escalation una questione nella quale le grandi masse, l’opinione pubblica, la stampa internazionale non abbia alcun peso e alcuna ragione per essere sentite, una volta delegate ai soli capi di governo le decisioni sui destini dell'umanità. Questo è forse il solo difetto di miopia che può essergli imputato, giacché il grande merito di Follett è stato di immaginare con acribia e capacità d’intuito quale potrà essere l'excursus di una ordinaria escalation nucleare. Avesse scritto il romanzo dopo lo scoppio della guerra ucraina si sarebbe detto che aveva copiato dalla realtà, ma nel suo caso sembra proprio che la realtà abbia copiato da lui, salvo che al posto della Russia a furoreggiare è la Cina.