domenica 8 maggio 2022

Saviano e il fallimento della sua docufiction

 


Articolo uscito su Libero il 7 maggio 2022

Rilanciando in letteratura la docufiction, Saviano dimostrò nel 2006 con Gomorra che la realtà è narrabile e che il “misto di storia e invenzione” teorizzato da Manzoni può valere anche per il contemporaneo, ma a condizione che sia sconosciuto. Un romanzo sulla camorra era quindi concepibile, come ancora di più lo sarebbe oggi sulla ‘ndrangheta, perché si tratta di mondi rimasti oscuri e poco esplorati, per cui sapendosene poco l’esercizio di immaginazione - l’invenzione letteraria - giova a ricrearli con successo.
Ma da quasi quarant’anni, dopo i grandi pentiti, da Buscetta in poi, e le dirompenti inchieste giudiziarie, la mafia è solo descrivibile, materia di giornalisti e studiosi, non più di narratori, giacché non c’è più nulla da immaginare. Può solo essere esperita la mera invenzione letteraria. Epperò, memore di Gomorra, dove sciorinò rivelazioni scottanti e vicende dal vero sceneggiandole e quindi narrandole (soltanto il piacere del racconto e la dovizia dei dialoghi lasciati di propria invenzione), Saviano ha riprovato con Solo è il coraggio (Bompiani, pp. 512, euro 22,80) a rinverdire quei primi fasti e a raccontare la mafia siciliana, profilata nella vita di Falcone, replicando il modello della docufiction. Non ha funzionato. 

La prova è nelle oltre 150 pagine finali che, poste sotto il titolo di “Bibliografia”, in realtà appaiono un commentario alla farragine di libri, siti web, articoli di stampa, trasmissioni radiotelevisive, atti ufficiali e di archivio affastellata nel tempo su Cosa nostra: per modo che Saviano non ha fatto che risistemare a tavolino l’enorme materiale disponibile a tutti, senza proporre una sola intervista né una novità frutto di indagine, provando piuttosto a dargli un ordine cronologico di tipo narrativo con il risultato, volendo posare a romanziere e non a storico, di stravolgere anche la realtà documentata. Due soli esempi bastano: sul viaggio del ’91 di Ilda Boccassini e Falcone in Argentina, Saviano scrive di averlo voluto anticipare di un anno, prima della sentenza del Maxiprocesso, “per non spezzare la linearità del racconto”; e la sera del delitto Dalla Chiesa, immagina che Chinnici e Falcone siano insieme in ufficio perché, “per necessità narrative”, ha “bisogno che la notizia dell’assassinio giungesse tra capo e collo a due predestinati”.
Ma se la verità storica viene adattata a pretese letterarie quando dovrebbe essere intangibile e semmai ad essa sarebbe da piegare ogni artificio narrativo, qual è il nuovo genere di cui Saviano si è fatto stavolta artefice? Probabilmente non si tratta di un genere, quanto di un capzioso gioco a nascondere, cosicché il lettore ad ogni pagina sia indotto a correre al commentario per scoprire se ha appena letto il vero o il finto. E se in Gomorra il contesto storico era ben distinguibile dal novero dei personaggi, tutti reali, in Solo è il coraggio i contesti si intersicano confusamente mentre compaiono figure di tutta fantasia accostate ad altre ben note, come nel caso dell’intervento all’università di Rocco Chinnici che parla agli studenti prima di un anonimo medico incaricato da Saviano di illustrare loro una stucchevole storia dell’eroina. E insieme alle figure inesistenti ricorrono anche conversazioni di ogni improbabilità, come nell’occasione di Emanuela Setti Carraro che in macchina dice a Dalla Chiesa “Ora ci mettiamo un po’ di pesciolini freschi nello stomaco e ti faccio vedere che…”
Saviano è maestro riconosciuto nelle impennate lessicali e nei ghirigori verbali, preso dalla smania di creare quadri immaginifici voluti per cavare brividi nel lettore, sicché non tradisce rossore alcuno quando scrive “La morte seduta davanti al bar a lamentarsi degli acciacchi dell’età”, “La sera scende su Palermo come gelatina sopra una crostata”, “Se i corleonesi vogliono, possono poggiare un scala sul duomo di Monreale, salire su, fino in Paradiso, e prendere Dio a fucilate nel petto”, “Dalla piccola finestra si riescono a vedere alcuni raggruppamenti di stelle che, pur non riconoscendole, Caponnetto intuisce essere costellazioni”.
Tanta voglia di raccontare storie e storielle, pur a scapito della Storia, è motivo anche per distorcere, sempre “per necessità narrative”, anche i Codici. Per rappresentare un dissidio interno al “Palazzaccio”, troviamo che il procuratore generale Pizzillo chiede conto e ragione al capo dell’Ufficio istruzione Chinnici di quanto sta facendo, come ne fosse il capo, dimenticando però che nel cessato rito processuale l’Ufficio istruzione non dipendeva dalla Procura generale essendo una sezione del Tribunale. Né Francesca Morvillo può chiamare “presidente” il procuratore generale, né Falcone può diventare per Pizzillo “un magistrato del suo tribunale”. Volendo insomma rifare, Saviano ha finito per strafare. Succede a chi insegue ideali e trova ideologie.