sabato 25 giugno 2022

Joël Dicker, come rompere il romanzo a colpi di testa


Nelle mani di Joël Dicker, le regole poste da Aristotele a fondamento della tragedia, essenzialità e accidentalità, per le quali ciò che serve alla narrazione – anche in un romanzo - va salvato mentre quanto è superfluo deve essere ignorato, sono diventate solo cenere. Lo scrittore svizzero che scrive in francese ma sta attento ad ambientare i suoi romanzi negli Stati Uniti, ben altro mercato, crede di rendere più visiva la scena disseminando particolari o raccontando di un personaggio episodi marginali e trascorsi. Non conosce l’indiretto libero per cui non lascia, come insegna proprio la tragedia classica, che sia un personaggio a raccontare avvenimenti passati, perché li sceneggia nei dettagli al pari dei principali (al solito in vista di un film), trattandoli come conducenti allo sviluppo diegetico. In più ha fatto sua una regola esecrata anche alla scuola media: la ripetitività. I suoi libri sarebbero un terzo più corti se non fossero così ridondanti nel capriccio di fare a ogni momento il punto delle indagini, ricapitolare rivolgimenti complessi magari solo per chiarirli meglio e sperare di farli sembrare semplici, senza mai lasciare che sia il lettore a farsi detective e interprete, come stimola ogni poliziesco.
Dicker si compiace di essere ricorsivo e si diverte a mostrare quanto perfetta sia la sua macchina narrativa nella costruzione delle trame, per cui non fa che smontarle e riassumerle come a voler dimostrare la mancanza di difetti ed errori. Che però ci sono eccome, né potrebbe essere diversamente quando si imbastisce una fabula tutto sommato elementare associata a un intreccio che appare un vertiginoso otto volante. Dicker rompe senza indugi le strutture narrative del romanzo canonico moderno e non esita a preferire l’antiromanzo, forse proprio per riuscire diverso, capace cioè di fare strame delle regole narratologiche e addirsi come il calabrone che vola benissimo perché non sa che le leggi fisiche non gli permettono di farlo per via delle sue ali cortissime. Dicker allo stesso modo non tiene conto di alcuna legge narratologica, a cominciare da quella base: l’omogeneità del narratore. Che può essere plurimo ma non può essere schizofrenico. Perciò cade.
Nel ciclo che ha per protagonista Marcus Goldman, arrivato con Il caso Alaska Sanders (La nave di Teseo) al terzo titolo dopo La verità sul caso Harry Quebert e Il libro dei Baltimore, il narratore principale è di tipo omodiegetico (presente nella storia e quindi intradiegetico) ed è lo stesso Marcus (che in realtà è una sfacciata trasposizione di Dicker), che dunque scrive in prima persona come autore implicito fornendo una conoscenza contingentata dei fatti in evoluzione e di conseguenza non raccontando la verità ma riportando solo la versione via via acquisita: sviluppi e colpi di scena sono dunque ammessi e attesi. Senonché – ed ecco la trovata di Dicker che ricorre in tutto il ciclo – con una frequenza fin troppo accentuata il narratore in prima persona lascia molte volte il posto all’io narrante in terza, cioè all’autore che è Dicker, il quale perciò racconta i fatti in una posizione onnisciente e non più di focalizzazione interna sul narratore. E mentre l'io narrante si rivolge al lettore, il narratore parla agli altri personaggi: con il risultato distorsivo che gli altri personaggi apprendono dall'io narrante quanto il testimone-narratore non riferirebbe certamente loro con la dovizia di dettagli dell'autore che riporta pure i dialoghi e le sensazioni personali dei personaggi di secondo grado.
Si tratterebbe in teoria di una nuova marca dei famosi “cantucci lirici” dei Promessi sposi nei quali Manzoni conversa direttamente con il lettore e lo aggiorna superando i singoli punti di vista, ciò che nella commedia antica era la parabasi, la quale designava l’attore che rivolgendosi al pubblico per istruirlo sapeva come procedeva la storia e come finiva. Ma nel modello dickeriano vediamo che chi assume tale veste fornisce a sua volta nuove versioni contingentate, esposte a una successiva palinodia di propria mano, e compare a ogni occasione per dare informazioni che servono solo alla circostanza. Ma trattandosi non più di un personaggio né del narratore implicito, libero di ingannare il lettore, bensì dell’autore in persona, per il patto stretto con il lettore non può mai mentirgli o usare la ritrattazione per continuare a portarlo fuori via. Non a caso, quando Dicker (io narrante) in una sua analessi decide di non giocare più ad affastellare depistaggi, intitola il paragrafo “La verità sul 22 marzo 1999”, rivelando così di non averla detta in precedenza. 
Quel che in sostanza fa è di togliere a piacimento la parola al narratore che sta rendendo testimonianza di un evento trascorso e riferisce i fatti proponendoli come in realtà sono avvenuti e non come risultano a chi li ha vissuti: ma non dicendo di fatto la verità e quindi imbrogliando la trama al solo fine di accrescere la suspence, ottenendo così di confondere il lettore, che è costretto a imparare a non fidarsi nemmeno del suo autore. Un macello, perché l'io narrante si rivolge al lettore mentre il narratore parla agli altri personaggi.
Insomma Dicker verrebbe bocciato a una scuola di scrittura perché dà prova di non conoscere la differenza tra narratore e io narrante, nondimeno non gliene importa nulla benché l’effetto che adduca nel lettore sia di facile stanchezza: anche perché l’io narrante interviene per riportare il tempo della narrazione al passato, sicché il lettore deve compiere due esercizi mentali frequenti e faticosi: deve ciò seguire non più il narratore omodiegetico a conoscenza di fatti sempre parziali ma l’io narrante onnisciente che gli fa credere di metterlo di fronte alla verità dei fatti; e deve riportarsi al passato tenendo fila che non corrispondono a quelle appena lasciate, perché il genio di Dicker è tipico del prestigiatore abilissimo a imbrogliare le carte sul tavolo. Più che uno scrittore, Dicker è allora un giocoliere che ama impressionare. Non trasmette alcun messaggio né lascia al lettore un pensierino sul quale meditare, giacché la sua vocazione è di esibirsi in numeri da circo, creare personaggi che si presentano con un carattere e si rivelano poi con un altro come matrioske.
E’ il caso di Alaska Sanders, la ragazza senza macchie e la più amabile creatura che esista, la più innocente e altruista, un angelo fatto persona: finché si scopre che sa minacciare senza scrupoli oltre che rubare ed ha qualche preferenza sessuale, a parte l’attrazione per gli uomini maturi, che lei stessa vorrebbe tenere nascosta ritenendola una perversione. Più che un modello di ragazza, è una ragazza senza modelli. Ma non solo lei è una insospettabile trasformista. Lo sono anche Eric Donovan e Walter Carrey, considerati prima uno e poi l’altro i suoi assassini e di pagina in pagina mutevoli come serpenti che cambiano continuamente pelle. L’idea di Dicker di rappresentare individui esplorati nei loro più reconditi e contradditori recessi di coscienza, calati in una realtà provinciale, qual è un piccolo paesello del New Hampshire, troppo simile a una Peyton Place peccaminosa e tale che padri di famiglia rovinano le figlie, madri adultere corrompono minorenni, insigni professionisti si dedicano alla fornicazione sistematica, mogli insoddisfatte si danno all’omosessualità, regge fino a implodere nell’inverosimiglianza e nello stucchevole. Se in un romanzo tradizionale i caratteri sono un punto fermo, perché permettono di identificare i personaggi e farli propri, come conoscendoli di persona, in Dicker questo non succede, dal momento che è vano sforzo cercare di immaginare le numerose figure sia fisicamente che nella loro indole. Sfuggono come anguille, apparendo non più che marionette che non popolano la scena, ma la riempiono.
La trama di Il caso Alaska Sanders (che come La verità sul caso Harry Quebert ricorda Truman Capote e il suo A sangue freddo, cronaca di un fatto di sangue seguito e risolto da uno scrittore famoso) è infatti una progressiva locupletazione di personaggi sempre nuovi, processo che confuta ogni tipo di giallo nel quale invero l’assassino non è mai l’ultimo arrivato né è del tutto sconosciuto al lettore. Peraltro non è mai uno dei personaggi positivi e conducenti, altrimenti il giallo diventa un gioco di maschere piuttosto facile: per modo che, mentre il lettore si macera su chi possa essere il vero assassino, arrivando a sospettare anche il capo della polizia di Mont Pleasant (mentre Marcus insinua il dubbio su Sally Carrey, ma viene smentito dagli altri e lascia morta un’altra delle tante piste) e si guarda attorno per osservare meglio i personaggi in circolo, ecco che compaiono d’emblée altre presenze - l’avvocato Patricia Windsmith, Lauren la poliziotta, Eleanor Lowell, lo psicologo Banjamin Bradburd… - in una sarabanda utile solo ad estendere la cerchia dei possibili sospettati: giochetto ruffiano di Dicker che però prendendo in mano troppi birilli per farli vorticare in aria alla fine ne perde il controllo.
Chi ha letto il romanzo si sarà fatto certamente domande sulle tante implausibilità e con quelle sarà uscito dal libro frastornato: perché Bradburd si suicida subito dopo che i poliziotti aprono il pozzo nel quale non può sapere che c’è un cadavere? Perché Helen cede alla disperazione e muore addirittura di infarto solo per una lettera anonima indirizzata al marito, per il quale ha paura, mentre in realtà non ha alcun motivo di essere inquieta al punto da farsi venire un colpo al cuore, visto che la lettera contiene solo un’informazione utile a una sua vecchia indagine? Perché Alaska minaccia con stupidi bigliettini Eric, sospettato solo di istigazione al suicidio nei confronti di una ragazza, la quale peraltro le è notoriamente nemica e di cui tuttavia si preoccupa, quando è stato proprio Eric a tirarla fuori dai guai dandole ben diecimila dollari? Perché Lauren tiene per sé una foto di cui non parla nemmeno all’avvocato mentre poi, senza alcun motivo, la tira fuori undici anni dopo per mostrarla a Marcus e al sergente Gahalowood con la faccia di chi ha una rivelazione? Perché Alaska, così pervasa di principi morali, quando scopre che la sua amante è una assassina invece di troncare escogita un piano addirittura per salvarla? Si potrebbe continuare, giacché le incongruenze nel romanzo sono tali e tante che l’impulso è di buttare il libro dietro la poltrona come una figlia del principe di Salina se, per una malìa di Dicker, non costringesse ad arrivare alla fine come per uscire da un tunnel asfissiante. Ma si sa che quando si mette troppa carne al fuoco si finisce per bruciarla. E Dicker questo ha fatto: ha voluto abbondare sia nell’arrosto che nella legna finché non ha saputo dominare le fiamme. Che però è affascinante vedere ardere.
Ma se i tempi della narrazione sono una prova da sforzo, quelli della scrittura costituiscono un gioco di specchi. Marcus Goldman adombra chiaramente Joël Dicker: entrambi giovani e scrittori di grande successo, benché uno americano e l’altro svizzero, uno figlio di una famiglia della classe media, l’altro figlio di un ricco avvocato ebreo, uno senza mai una precisa descrizione fisica e l’altro ben noto al pubblico. Il colpo che tira al lettore Dicker è di una sottigliezza sopraffina: il suo precedente romanzo, La verità sul caso Harry Quebert, è lo stesso cha ha scritto Marcus Goldman, il quale però ne ha scritto ancora un altro precedente, G come Goldstein, mentre Dicker conta il suo antecedente in Gli ultimi giorni dei nostri padri. La verità sul caso Harry Quebert, da cui in realtà è stato tratto un film, è un prequel di Il caso Alaska Sanders, mentre Il libro dei Baltimore uno spin-off. Ma sono tutti legati e Marcus è attento a non rivelare nell’ultimo romanzo qual è stata la tragedia dei cugini di cui tratta Il libro dei Baltimore, nel chiaro intento (di Dicker) di mandare il lettore nuovamente in libreria. Marcus scrive La verità sul caso Harry Quebert a conclusione di un’indagine condotta con il sergente Gahalowood, il quale nel mezzo dell’inchiesta su Alaska Sanders gli chiede: “Non avrà intenzione di scriverci un libro?”, giusto perché Marcus gli ha appena detto con enfasi e sussiego, come vedendo uno slogan: “Il caso Alaska Sanders, la nuova indagine di Perry Gahalowood e Marcus Goldman”. Marcus è uno scrittore che tutti riconoscono per avere scritto La verità sul caso Harry Quebert, il cattedratico che torna in Il caso Alaska Sanders solo per fare una comparsata e pontificare sui massimi sistemi ma con il compito smaccato avuto da Dicker di dare continuità al suo ciclo di maggiore fortuna. 
Anche in La verità sul caso Harry Quebert l’autore interrompeva ogni personaggio e stabiliva personalmente come erano andate le cose, ma bluffando come stavolta. Un vizio che a Dicker deve sembrare una genialata, che è piuttosto un modo per costringere il lettore ad avere a che fare, oltre che con una pletora di personaggi senza volto, anche con una specie di grillo parlante che viene voglia di schiacciare o di deus ex machina che fuori campo dice la sua nella babele di voci e versioni. Qualcuno dovrebbe dirgli che la violazione delle leggi narratologiche non è una legittima obiezione di coscienza ma un torto che si fa al lettore attirato in una trappola. Una trappola nella quale non si sta male, il tempo di riuscire a liberarsi.