mercoledì 28 giugno 2023

Il tempo dei critici letterari cooperatori

 Il giudizio di un critico letterario non si forma dopo la lettura del libro ma prima, perché è influenzato dal «pregiudizio dell’artificio». Come un architetto vede una casa quando non è ancora nata, così il critico immagina il libro da recensire sulla base di elementi che sono solo in parte comuni ai lettori.

Umberto Eco teorizzava che se il lettore non conoscesse l’autore e non vedesse né la copertina né il titolo, prenderebbe conoscenza del libro che intende leggere man mano che lo legge, diversamente dunque da un critico che nelle stesse condizioni capirebbe sin dalla prima pagina il genere, forse anche l’autore e lo stesso valore letterario, giacché il critico è sempre prevenuto perché, come teorizzavano Giacomo Debenedetti e George Steiner, è egli stesso un artista, cioè un preveggente. Il pregiudizio dell’artificio è quindi nello stesso tempo un vantaggio e un limite, giacché il critico previene l’artista che valuta secondo il proprio credo letterario. Di conseguenza è il lettore ad apparire più libero e oggettivo del critico, senonché manca di quegli elementi di conoscenza – dell’editore, dell’autore, del gusto prevalente del pubblico, della tendenza artistica – che del critico fanno un addetto ai lavori.
Quando gli arriva in mano il libro, la sua scelta - se leggerlo o no - è già in qualche modo stata fatta già dall’osservazione dell’allestimento grafico, del peritesto e dal possesso degli strumenti di giudizio. Che essendo un pregiudizio, muta il suo compito da deduttivo in induttivo, dovendo dimostrare una tesi anziché elaborare un’ipotesi. Questo succede quanto più il critico sia affermato e autorevole, in rapporto inversamente proporzionale rispetto al lettore che quanto meno è “forte” tanto più è obiettivo: di qui l’importanza che stanno avendo negli ultimi anni, nel determinare la fortuna di un titolo, i social network, dove si pronunciano “critici” che vorrebbero liberarsi delle virgolette ma non possono finché operano nell’estemporaneo ambito digitale. Tuttavia il loro giudizio è libero e non tiene mai conto delle logiche editoriali, atteggiamento proprio invece del critico tradizionale che è ancora oggi, accademico o militante che sia, quello che in tale veste – reputandosi anch’egli un artista – fa parte dell’apparato editoriale, dacché tiene pregiudizialmente conto della posizione dell’editore perché è dall’editore che possono venirgli curatele, incarichi, contratti di edizione, traduzioni, inviti, viaggi, prebende e libri gratis. 
Come si riconosce? Facile: basta cercare nelle recensioni quelle frasi a effetto, tipiche degli slogan, perlopiù valide per qualsiasi libro, che gli editori amano tanto adottare perché funzionano come marchi di garanzia nelle loro inserzioni pubblicitarie sulla stampa o sulle fascette delle copertine se non anche nei risvolti della stessa copertina. È pur vero che la gran parte dei critici che figurano come testimonial sono inconsapevoli della promozione, ma sanno bene che il proprio nome scelto dagli editori per il loro lancio è un riconoscimento di autorevolezza e dunque un risultato da ricercare. Di qui la natura delle recensioni di oggi, che appaiono drogate, artefatte, scritte non per valutare un libro ma per essere valutati dall’editore.
Ma più i critici cooperatori crescono (molte volte “chierici” educati alla lusinga che anziché un editore compiacciono poteri e apparati istituzionali) più spazio e credibilità concedono ai “critici” dei social, nella cui solo sfera (oggi però ancora poco autorevole) può ritrovarsi il genere dismesso da anni della stroncatura, che i critici cooperatori si guardano ormai bene dall’usare. Quello che, insieme con l’elzeviro, è stato il mezzo letterario principe dell'attività letteraria si è visto soppiantare dall’invalente principio di gradimento, per cui un libro che piace va recensito, mentre uno che non piace va semplicemente ignorato, né merita una breve menzione. E quando si tratti di autori famosi, benché abbiano scritto autentiche castronerie, invece di un giudizio negativo vengono offerte interpretazioni goffe e faticose nella ricerca di una chiave di giustificazione, ma mai si hanno stroncature come meriterebbero. Il caso più clamoroso e imbarazzante è stato quello di Andrea Camilleri, osannato sempre e comunque come "grande scrittore" anche quando ha mandato in libreria nullagini e stupidaggini.
Tale indice di gradimento comprende ovviamente anche l’interesse dell’editore verso quell’autore. La stragrande maggioranza delle recensioni che leggiamo sulla stampa e sui supplementi letterari (più che altro bollettini promozionali) è frutto dell’azione degli uffici stampa degli editori che orientano scelte e anche apprezzamenti coonestando i critici, ognuno dei quali ha perlopiù editori di riferimento agli occhi dei quali brillare. Un gioco divertente è verificare quanti e quali sono i critici che si occupano dei titoli di un editore presso il quale poi ne pubblicano uno anche loro. Così come ormai consolidata è la pratica di recensire il libro di un altro critico nella certezza che poi lui recensisca il proprio: in uno scambio di favori che dovrebbe costituire anzichenò reato perché il lettore viene puntualmente ingannato e fuorviato da giudizi sui quali pesa lo stesso pregiudizio dell’artificio che rende appunto artificiale la valutazione data mentre accosta sempre più la pubblicità dichiarata a quella redazionale subliminale.
Entro questa prospettiva non ci può essere certo spazio per la stroncatura, ciò che spiega la progressiva disaffezione dei lettori che non possono credere che tutti i libri siano dei capolavori assolutamente da non perdere. La speranza è riposta allora sui social, dove operano “critici” cosiddetti che hanno bisogno tuttavia di crescere ancora moltissimo e di farsi uno stato. Senonché il rischio, che già si vede qua e là consumarsi su Tik Tok e Youtube, è che la maggiore aspirazione dei “critici” divenga quella di diventare critici senza virgolette come gli altri, anch’essi cooperatori dell’editore.