Le parità di Serafino Amabile Guastella escono nel 1884, tre anni dopo I Malavoglia e dopo che i demopsicologi siciliani (da Vigo a Salomone-Marino, da Pitrè ad Avolio) hanno conseguito i maggiori esiti nelle loro ricerche etnografiche.
Nel 1886, quando già Verga ha pubblicato Vita dei campi e Novelle rusticane, esce l’inchiesta Jacini sulle condizioni della classe contadina mentre Sonnino e Franchetti raccolgono i frutti delle loro clamorose indagini sociali in Sicilia. La stagione, sospesa tra arte e scienza, è quindi tra le più confuse, tenuta com’è in un patchwork di istanze positivistiche, gusto verista e vena folclorica. Nel momento in cui lavora alle Parità, presentate dallo stesso autore come una raccolta di documenti dal vero, Guastella dà alle stampe Vestru, opera scritta vent’anni prima e trattenuta perché considerata di genere troppo letterario e quindi non conforme alle mode scientiste che vanno prevalendo. Preoccupato di ciò, Guastella bada a dare a Vestru un carattere quanto più in linea con la tendenza demopsicologica, attento a precisare che si tratta di «scene del popolo siciliano con copiose illustrazioni in dialetto». Ma si lascia sfuggire che Vestru è un lavoro «sparso di un verismo crudo e plebeo», tradendo una sorgiva sensibilità alle forti stimolazioni che pur gli vengono dalla scuola verghiana.
Guastella si trova quindi a tendere un orecchio a Pitrè (che, lodando il dialetto siciliano come strumento di ricerca scientifica, esorta, per ragioni di scienza, a catalogare la viva parlata del volgo cercando in essa la poesia e la storia) e un altro a Capuana (che, per ragioni di arte, spinge a cogliere «le più spiccate differenze nei sentimenti, negli usi, nei costumi, nelle credenze, nelle passioni, nella morale, nelle tradizioni»). È con queste refluenze che arriva alle stampe Vestru, romanzo verista in sestine che, perché «ritrae - annuncia Guastella - costumi, credenze e affetti», Pitrè loda in quanto, «come lavoro di dialetto» e grazie alle «note che lo accompagnano, fornirà documenti di studio ai glottologi».
Un anno dopo la pubblicazione delle Parità, Guastella stampa un racconto scritto nel ’75, Padre Leonardo, che è prova tutta letteraria e che quindi come tale l’Archivio storico di Pitrè e di Salomone-Marino recensisce in poche righe non mancando però di rilevare, nel momento in cui ammette che «non è pei cultori del Folk-lore», il timbro di «vita reale» che lo pervade a motivo delle «scene crudamente vere, piene di una evidenza che fa fremere e pensare».
Tre anni dopo Le parità, Guastella rielabora L’antico carnevale della Contea di Modica e lo amplia alla maniera delle raccolte di canti popolari dei demopsicologi facendone un’opera che è a metà tra saggio di costume e canzoniere (ma anche rielaborazione letteraria per il recupero della memoria che opera) e che carica al pari delle Parità di un rigore scientifico alquanto sospetto agli occhi dei maestri delle tradizioni popolari. Guastella inclina più verso Capuana che verso Pitrè e, come Capuana, non si fa scrupolo di forzare la realtà pur di organare un’unità letteraria che, per quanto di mistificatorio l’operazione abbia, compiacerà molto Sciascia e Calvino che nel ricercatore vedranno invece il narratore.
Del resto, come Guastella ammette, gli apologhi e le storie morali portati nelle Parità non sono stati raccolti personalmente dalla viva voce del popolo ma gli sono giunti attraverso la testimonianza di gentiluomini e nobildonne del suo stesso ceto aristocratico. Lettere scambiate con Pitrè negli anni delle Parità comprovano la diversità tra i due e accertano «l’originale invenzione» che per Natale Tedesco sono Le parità, opera letteraria mascherata da saggio scientifico. Dopotutto se Guastella vuole tenere Le parità nella sfera della ricerca scientifico-naturalistica non ha che da riportare di peso le testimonianze in dialetto relegate in appendice, mentre fa cosa diversa: mette parità e storie sotto la propria luce di artista riducendole a «vera lezione», con intenti dichiaratamente etici e civili, e aggiungendo di suo un rapporto diretto con il lettore che svuota il documento di ulteriore contenuto e fa di Guastella un burattinaio sulla testa dei personaggi.
Ma cosa impedisce a Guastella, padrone di mezzi espressivi e di un talento narrativo che, come vuole Sciascia, non lo fanno sfigurare accanto ai veristi, di passare dalla parte degli artisti anziché rimanere in quella dei ricercatori? Tale è infatti la timidezza a proporsi come narratore che abbandona un romanzo, Due mesi in Polisella, al quindicesimo capitolo pur avendoci lavorato con grande frutto e impegno: il romanzo, scoperto e pubblicato da chi scrive, uscirà solo nel 2000 per Lombardi.
L’interrogativo circa le remore di Guastella a farsi narratore richiama da un lato il clima letterario e culturale nel quale l’autore di Chiaramonte Gulfi si lascia invischiare e da un altro induce a interrogare il barone molto più che lo scrittore in ciò che dello stato del primo pesa nell’approccio del secondo alla materia del suo interesse che, come per i veristi e i demopsicologi, è il popolo. Ma Guastella non è pitresco a tutti gli effetti perché intende la realtà come “parità”, ovvero come parabola, e quindi come valore analogico e mimetico.
Introducendo un personalissimo metodo di ricerca etnologica, Guastella finisce per insolentire Pitrè e gli altri demopsicologi contrari a concedere deroghe al dogma del rigore scientifico. Anche per questo Le parità sono un testo provocatorio che poco ha di demotico e molto invece di realismo nel senso romantico. Assumono un insistito tono a volte beffardo a volte sprezzante, sospeso tra pietismo e irrisione che tradisce la posizione di chi ostenta la sua appartenenza a un ceto superiore, pronto sì a versare una lacrima, a dare una pacca sulla spalla, ma anche a farsi beffa della monade rurale con un’ironia acre e sdegnosa. Guastella barone prende infatti decisamente le distanze dai contadini e si schiera dalla parte dei lettori invitandoli a seguirlo su una postazione prominente dalla quale osservare il mondo rusticano e farselo da lui spiegare. Gli basterebbe scendere per strada e parlare ai villani non da professore ma da siciliano per anticipare Verga e prendere la strada del verismo anziché quella del regionalismo che lo porterà a rimanere un narratore mancato e un erudito minore.