giovedì 13 maggio 2021

John Fante è ancora sulla strada tra Italia e America


L’avere sempre scritto di sé, anche servendosi di narratori impliciti, non ha giovato a John Fante fino a quando, poco prima della morte, Charles Bukoswki lo ha proposto al pubblico americano come un autore non già wop (“senza passaporto”, cioè immigrato e cattolico) ma wasp, ovvero bianco, anglosassone e protestante, in qualche modo confrère di Salinger e un po’ “maledetto”. Fin troppo sottovalutato in vita, è oggi considerato un autore cult controcorrente, ma in realtà è ancora in attesa di definizione. Certamente originale, Fante è stato ribelle e anticonvenzionale per aver fatto della propria vita il portato di una sofferta condizione sociale e il precipitato di uno stato esistenziale, ma è apparso tutto sommato indifferente al suo tempo, cui non importavano davvero le sorti di un giovane immigrato sognante e di una famiglia sfigata.


Solo quando nel 1952 esce Una vita piena Fante ottiene attenzione, trattandosi di un romanzo testimoniale, costruito in prima persona e costituito come tranche de vie, che dileggia gli italoamericani nel solco di una cultura sovranista, retaggio dell’Ottocento xenofobo, che a un critico come Henry S, Pancoast faceva dire così nel 1898: «Forse non è lontano il giorno in cui la letteratura americana verrà arricchita da scrittori di origine italiana, russa, ungherese e polacca». Ma tale giorno arriverà soltanto negli anni Settanta del Novecento con la nascita negli Usa degli studi etnici per consolidarsi nell’arco di un ventennio nel nuovo interesse per la letteratura italoamericana, quando anche l’autore di origini abruzzesi troverà finalmente pieno riconoscimento. Ma sarà tardi.


Fante era del tutto cosciente di essere in anticipo con i tempi e provò a superare il deficit assumendo un atteggiamento bivalente, ora rinnovando la sua discendenza italiana, ora esaltando la sua anagrafe americana: senza tuttavia rinunciare a occuparsi di italoamericani, pur non chiamandoli mai come tali. E se La confraternita dell’uva è un romanzo interamente italiano, con personaggi italiani e modi, costumi, ritrovi e piatti esclusivamente italiani (con un solo personaggio estraneo, tedesco, ma non americano, la suocera Hilde Dietrich che ha in odio Henry Molise perché italiano e dunque sicuramente armato di coltello), in La strada per Los Angeles l’io narrante, Arturo Bandini, dice a un filippino: «Io non sono nato nelle Filippine. Io sono nato proprio qui, nei cari, vecchi Stati Uniti d’America, sotto le stelle e le strisce». Esattamente ciò che lo stesso Bandini scrive di sé in Chiedi alla polvere: «Ero americano e ne ero maledettamente orgoglioso. Questa grande città, con i suoi larghi marciapiedi e i suoi superbi edifici, era la voce della mia America. Dalla sabbia e dai cactus noi americani avevamo eretto un impero».


In realtà Fante è nato in Colorado ed è decisamente americano, ma i genitori sono italiani e in casa parlano abruzzese e lucano, per cui egli stesso si sente italiano. Un italiano della profonda America, diviso tra identità e appartenenza, richiamo del sangue e vagheggiamento del sogno americano: ambivalenza che rimane irrisolta e che si trasfonde anche e soprattutto nell’opera narrativa, concepita come mezzo di superamento dell’impasse e affermazione di sé in nome e per conto non solo degli scrittori oriundi ma di tutti gli americani di seconda e di terza generazione come lui.
Ma i tempi sono prematuri perché possa passare una logica di inbetweenness che frapponga un’idea di interrazzialità capace di vincere lo stato di disadattamento di cui proprio l’opera fantiana è prova e si rende interprete. In Un’etnicità complessa (La scuola di Pitagora, 2020), così scrive Elisa Bordin: «Il macrotesto fantiano è un viaggio all’interno della discriminazione etnica vissuta dalle seconde generazioni di italoamericani, nate negli Stati Uniti, indiscutibilmente americane, ma che pur devono negoziare istanze identitarie e culturali fra la sfera intima, della famiglia, e quella sociale della scuola, della strada, del paese dove vivono, in un continuo movimento di allontanamento e riscoperta del sé a conferma della necessità di accettare la flessibilità e la fluidità delle definizioni identitarie».


Infatti Fante si impantana proprio nel mezzo tra discendenza e assimilazione, «senso di esclusione e desiderio di inclusione» scrive Bordin. Vuole apparire americano ma nello stesso tempo rimanere italiano e quel che sortisce sono tre autori in uno: un Fante italiano iconico e postumo, un Fante italoamericano etnico e un Fante americano di nicchia. Nella consapevolezza di non essere mai intero e di dover scontare uno stato di minorità che lo costringe a due pluridecennali periodi di inattività, evidente spia di una condizione di disagio che purtuttavia lo colloca in due sfere distinte ma complementari, una americana e l’altra italiana. La prima lo associa ai trentisti americani quali Faulkner, Steinbeck e Sinclair Lewis (oggetto quest’ultimo in Sogni di Bunker Hill di un sapido e velenoso bozzetto) – e trentista è il primo Fante, avendo negli anni Trenta pubblicato i suoi primi romanzi con Bandini protagonista: Faulkner soprattutto, dal quale Fante mutua lo strumento del flusso di coscienza, l’istanza proletaria e quel tono chiamato “gongorismo dixie” che ne fa un autore attestato su ragioni meridionaliste declinate entro uno stile ornatissimo e spumeggiante, venato di un umorismo che è connaturato nella narrativa nordamericana di Otto e Novecento. E che a Fante serve, come nota Giovanna Di Lello in Dalla parte di John Fante (Carocci, 2020) a «differenziare lo sguardo del narratore da quello dell’autore»: acuta osservazione che segnala come in fondo il disincanto del primo non sia che il contraltare del sentimento tragico del secondo. Si può anche parlare di distacco, di presa di distanza dai fatti e loro delegittimazione, per modo che «l’umorismo – nota Elisa Bordin – permette a Fante di salvarsi da possibili accuse di buonismo ascrivibili alle forme di lieto fine che quasi sempre accompagnano la scrittura».
La seconda sfera, quella italiana, avvicina Fante a Vittorini e Tondelli, peraltro suoi traduttori e ammirati esegeti, anzi unisce lo scrittore siciliano e quello emiliano entro un quadrante nel quale le ragioni del privato si trasfondono nel pubblico: in Vittorini le ragioni politiche, in Tondelli quelle culturali e in Fante le ragioni sociali. Talché l’opera di Fante sottende nel complesso proprio un’indagine sociale portata nel ventre dell’America degli emarginati in forma autodiegetica, in realtà autobiografica, e perciò fastidiosa e urticante alla cultura dominante e benpensante. Fante non ha che reiterato in più versioni e aspetti lo stesso romanzo, talmente ossessionato dalla propria Weltanschauung (il cui significato il pedante e supponente Bandini di La strada per Los Angeles chiede al rozzo titolare del conservificio) da avere dettato a distanza di oltre quarant’anni, già cieco e malato, un nuovo episodio della saga che celebra se stesso ragazzo. Lo spirito prevalente è quello della denuncia intesa alla sconfessione dell’american dream le cui lusinghe di successo devono scontare in individui come lui posizioni di svantaggio incolmabili, create da dinamiche sociali frutto di pregiudizi razziali anche quando l’aspirante self-made man sia un giovane ambizioso certamente dotato ma sfortunato e avversato dalle circostanze, un intellettuale e non un manovale.
Perdippiù, nel ciclo di Arturo Bandini, Fante affianca al giovane di talento proprio un muratore immigrato che come padre gli fa soprattutto da freno, riflettendo dopotutto la propria condizione inesorabile di déraciné e di escluso. Nella tetralogia a suo nome Arturo Bandini, il suo alter ego, è infatti un giovane scrittore dai grandi sogni inappagati che è in cerca di fortuna nel mondo ostile dove gli unici contatti per un immigrato sono possibili con altri dropouts, filippini, messicani, italiani: in Chiedi alla polvere con Camilla Lopez, cameriera; in La strada per Los Angeles con operai filippini di un conservificio; in Aspetta primavera, Bandini con Rosa Pinelli, italiana e figlia di un minatore; e in Sogni di Bunker Hill con Helen Brownell, una provinciale ultracinquantenne del Kansas diversamente emarginata, a riprova di un processo di espulsione sociale che non risparmia gli stessi americani del Midwest.
Fante racconta conflitti sociali e drammi intimi facendone un tout de même di commedie che però tali non sono. Di qui l’equivoco che ha pesato sulla figura e l’opera. I suoi romanzi sono come il riso di un clown che piange dentro, un controvangelo dello sconforto e dello scontento intonato sull’eco di un urlo di rabbia e dolore. In questa veste Fante è un autore caro ai giovani nerd e neet, solitari e disimpegnati di qua e di là dell’oceano in lotta contro la vita, le convenzioni e i pregiudizi. Il suo personaggio più frequentato, Arturo Bandini, è consapevole dei propri mezzi e degli ostacoli che gli impediscono di farli valere. Nella sua veste di italoamericano incarna le differenze razziali, le diverse nazionalità, le tante marginalizzazioni spinte fino alle difformità di specie: come nel romanzo breve Il mio cane Stupido, struggente, malinconico e sentito lamento di un uomo maturo, Henry Molise, che cerca in un molosso gli affetti persi in famiglia e nella società, presentato però come l’esilarante rappresentazione delle capacità di un cane di conquistare e disordinare una casa, una famiglia e un quartiere. Il romanzo, considerato minore e uscito in Italia insieme con un racconto breve in A ovest di Roma (Einaudi), è il segno distintivo di Fante, autore capace di fare ridere con le lacrime dell’amarezza e incapace di farsi capire in vita. Il mio cane Stupido, piaciuto a Peter Sellers che voleva farne un film appunto comico, fu rifiutato da ogni editore ed è uscito solo nel 1986, come altri titoli fantiani, tutti in debito di riconoscenza verso la vedova Fante, che ha raccolto e curato gli inediti aspettando tenacemente che arrivasse il tempo della riscoperta e della valorizzazione di un autore frainteso e di un solo, vasto e articolato romanzo.
L’insistenza percussiva su un unico tema, che miscela bildungsroman e integrazione razziale nell’impossibile progetto di un’affermazione dell’elemento multietnico e non già di un’assimilazione di esso nella coscienza nazionale americana, ha portato Pier Vittorio Tondelli a spiegare la marginalità di Fante dentro una “soggettività etnica” che fissa una certa autoreferenzialità risultata sgradita e che Elio Vittorini, richiamando un proprio attributo, l’utopia, ha precisato in una propensione di Fante a vedere nella vita una “serie di prodigi”: dove prodigi sono anche le illusioni e i sogni infranti. L’uso pressoché generalizzato dell’io narrante, che perpetua vicende e vicissitudini di una famiglia e di una classe, testimonia un’implicazione diretta mentre allo stesso tempo tradisce la difficoltà a forbire storie finzionali, di pura invenzione letteraria. Il suo è un realismo immaginativo che guarda senz’altro a Steinbeck, ma che si nutre di apporti autobiografici dove il dato fattuale, il principio di realtà, ben facilmente si piega alle dovizie dell’irrelato.
Fante infatti non si preoccupa di dare sistematicità alla sua opera, difetto che anche Emanuele Trevi, uno dei suoi principali studiosi, gli oppone ricordando alcune contraddizioni tra fatti e personaggi di un romanzo rispetto a un altro. Contraddizioni che non sono poche. In Chiedi alla polvere un evento del tutto inatteso come un terremoto (un vero e proprio trauma narrativo, peraltro non isolato giacché nel racconto L’orgia la trama prende uno sviluppo a sorpresa dopo l’improbabile donazione di una miniera) cade sull’intreccio come un dato reale e senza conseguenze per la fabula: Arturo si trova a Long Beach quando un violento sisma lo coglie per strada. Il sisma è quello del 10 marzo 1933, elemento certo che permette di stabilire il tempo della narrazione rispetto a quello della scrittura, che è successivo almeno di cinque anni, visto che il romanzo esce nel 1939. Senonché Fante parla di guerra in Europa, discorsi di Hitler e disordini in Polonia, mettendo così a conoscenza l’io narrante di avvenimenti ancora da venire. Di più. In Sogni di Bunker Hill, ambientato nel 1934, Bandini è aiuto-cameriere e del tutto sprovvisto di ogni mezzo, mentre un anno prima, in Chiedi alla polvere, è stato uno scrittore con all’attivo un romanzo e un racconto di successo, “Il cagnolino rise”. Ancora in Sogni di Bunker Hill (dove peraltro il primo racconto è pubblicato dalla rivista “The American Phoenix” e non da “The American Mercury” come in Chiedi alla polvere, mentre l’editore Hackmuth diventa Muller) Arturo Bandini confessa di aver sognato per tutta la vita di prendere un taxi, dimenticando di averlo già fatto più volte in Chiedi alla polvere. E se la Soyo Company di La strada per Los Angeles diventa la Toyo Company in La confraternita dell’uva, una presenza ricorrente e arcana è quella dei granchi.
Fante li mette dappertutto: in Chiedi alla polvere Arturo e Camilla li vedono a centinaia, attaccati dai gabbiani, a Terminal Island, «un’isola artificiale, un lungo dito di terra puntato verso Catalina»; in La confraternita dell’uva Henry Molise si vede assalito al porto sul ponte sul Tucker; in La strada per Los Angeles Arturo Bandini ne uccide in gran quantità sotto il ponte sul canale delle Pacific Coast Fisheries. I granchi appaiono sempre in luoghi periferici, disforici, desolati, a segnare un cedimento, che è fisico della natura e morale degli uomini, un cattivo presagio mortifero che in La strada per Los Angeles sottende nell’immaginazione di Arturo la fine delle sue donne di famiglia e delle donnine dei ritagli dei giornali, destinate attraverso gli scarichi a raggiungere sulla riva i granchi morti.
Ma ancora più dei granchi, è pressante in tutta l’opera, con un significato al contrario vivificante e soterico, la figura del padre, che per Fante rappresenta il ponte che lo riporta alle origini, a Torricella Peligna in Abruzzo da dove era partito il nonno e dove lo scrittore solo una volta provò ad andare, fermandosi però all’ingresso del paese, perché deciso a conservarne il ricordo mediato dai racconti del padre e mantenerne dunque la natura letteraria. L’Italia è per Fante quella che, come ha scritto, ha conosciuto nei libri in aggiunta all’idea ereditata dai genitori. Non l’ha mai sconfessata o rimossa, anzi ne ha fatto la fonte di ispirazione dei suoi romanzi, tutti così italiani da farlo apparire uno straniero nel suo Paese natale e da decretarne la scarsa fortuna in vita come pure la grande ammirazione che oggi riscuote.