Negli anni Settanta il calcio in televisione, inesorabilmente in bianco e nero, si limitava a un tempo di una partita di serie A. in onda alle 19 sul primo canale Rai, e ai rudimentali servizi di trasmissioni tutt’oggi in vita come “La Domenica sportiva”. Non si vedevano i giocatori e gli allenatori in primo piano coprirsi la bocca per non fare capire ai telespettatori cosa dicessero, né i calciatori sputare per terra, soffiarsi il naso tappandosi le narici, fare gestacci e dire parolacce, mentre le telecronache erano ispirate ai documentari dell’Istituto Luce e inimmaginabili nelle fiorite metafore di oggi del tipo “storie tese” per indicare diverbi in campo, “mettersi in proprio”, “dai e vai”, “fare il ministro della difesa”, “entrare nel traffico”, “giocare con l’orologio in mano”, “riunirsi in condominio”, “fare il coccodrillo”, “rischiare qualcosa” e l’ossessiva stucchevole espressione “attaccare la profondità”.
Il calcio di allora era elementare e affidato, nella concitazione delle partite, al programma radiofonico “Tutto il calcio minuto per minuto”, dove le azioni si sentivano solo raccontare. La differenza con il binge-watching di oggi era nella capacità di affidarsi alla propria immaginazione, dovendo ricostruire mentalmente i passaggi, i tiri, le parate e i gol. La radiocronaca privilegiava la tecnica individuale e non la tattica delle panchine o le formule in campo, perché sarebbe stato incomprensibile ogni resoconto di tali dinamiche. Allo stesso modo il telespettatore, non potendo mai vedere le partite a colori in televisione, immaginava le squadre in bianco e nero né si poneva la questione se uno schieramento indossasse la prima o la seconda maglia, note perlopiù grazie alle figurine a colori della Panini. Era favorito chi conosceva anche fisicamente i calciatori e chi era stato allo stadio a vederli giocare, potendo immaginarli nei loro ruoli anche quando erano lontani dalla palla. Ed era svantaggiato chi del calcio aveva un’esperienza e una conoscenza tanto più minori.
La fruizione del calcio come spettacolo televisivo, andata sempre più conformandosi all’evoluzione tecnologica, dimostra come ogni epoca vive i fatti in base non ad assolute cognizioni umane valide in ogni tempo, connaturate in ciascuno individuo, ma secondo gli adattamenti generali che si consolidano negli anni per via delle acquisizioni scientifiche e degli sviluppi del senso comune.
Prendiamo l’idea di distanza. Nell’antichità veniva indicata tenendo conto delle stelle, dei giorni e dei tramonti, nell’età classica morfologicamente secondo fiumi da attraversare e montagne da scalare; nel Medioevo era misurata in sentieri, percorsi e mappe, nell’era moderna in leghe, poi in miglia e chilometri e infine, in quella contemporanea, in ore, con riferimento ai viaggi aerei.
Cambiano i costumi e cambia il linguaggio. L’uso del telefonino ha messo fine a storiche liti in famiglia e ingiunzioni di genitori a figli per avere “libero” il telefono di casa, sempre “occupato”. L’Iban ha pensionato l’assegno, l’email ha soppiantato il telegramma e poi il telefax, la Pec ha sostituito la raccomandata, Nel complesso Internet ha determinato un presente permanente nel quale la cronologia degli eventi non distingue il passato prossimo e remoto, Whatsapp ha reso il mondo un villaggio nel quale chiunque può vedere e parlare con un altro come se lo incontrasse, tanto che è nato lo smart working.
La facoltà di immaginazione non è più quella che spingeva due persone al telefono a immaginare l’altra e l’ambiente in cui si trovava nello sforzo di concretizzarla. La lettura del romanzo contemporaneo ha perciò perso uno dei suoi principali elementi costitutivi, la descrizione, tipica del Sette-Ottocento, perché il lettore, abituato a vedere storie al cinema e in televisione, dove figure e ambienti non gli vengono descritti ma mostrati, mal sopporta di dover sostenere uno sforzo di cui non è più capace e che si chiede perché mai gli sia richiesto.
Il lettore divenuto spettatore si comporta come le figlie del principe di Lampedusa, che quando vedono entrare in salotto Tancredi e il conte Caviraghi, personificazioni dei loro eroi romanzeschi, gettano dietro il divano il romanzo d’appendice che stanno leggendo e tra immaginazione e realtà scelgono questa.
In Gradini che non finiscono mai, il premio Nobel 2021 per la Fisica Giorgio Parisi racconta di un sogno insistente fatto da giovane, relativo a un risveglio nel buio: crede di essere diventato cieco fino a quando i fari di un’auto non proiettano nel soffitto una luce che gli fa capire che è si è trattato della mancanza di corrente elettrica in tutto il quartiere. Ma se lo stesso sogno lo avesse avuto un ragazzo del Medioevo, pur preda della stessa sindrome ipocondriaca, sarebbe rimasto ugualmente pietrificato nel suo letto con gli occhi sbarrati nell’oscurità e avrebbe pensato di essere cieco perché destinatario di un castigo divino o di una maledizione: sulla propria minorità individuale avrebbe avuto il sopravvento la superstizione comune, lo spirito del suo tempo.
Ogni persona ha un tempo e ne è figlio e preda. E dal momento che il tempo opera su un numero illimitato di persone unite nello stesso spirito, ne deriva che l’agire umano è dettato dal senso comune, visto come contingente, a differenza del buon senso, principio ordinatore assoluto insensibile al mutare del tempo. Ne I promessi sposi, parlando della peste e degli untori, Manzoni scrive che “il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Il primo implica un’idea di saggezza, il secondo di sapienza. Carlo Michelstaedter pose la differenza in termini di persuasione e di rettorica tra senso della vita e convincimento momentaneo. Schopenhauer distinse la volontà e la rappresentazione, ovvero la cosa in sé e il mondo fenomenico.
Qualunque epoca agisce dunque in base al senso comune, che muta a secondo della latitudine e della cultura, come anche delle istituzioni politiche, reggendosi sull’opinione maggioritaria. Ma esso è sempre un’opinione, una modalità del sapere condiviso. Tutte le epoche invece si ispirano a un immutabile buon senso (oggi divenuta parola sostantivata e perciò univerbale) che è compenetrato nella natura umana. E se dunque la pena di morte risponde al senso comune di una determinata epoca o civiltà, l’omicidio è da sempre e ovunque esecrato perché estraneo naturaliter all’uomo. La prima viene “percepita” come misura di giustizia, il secondo assume il “significato” di abominio.
“Senso” può perciò intendersi come percezione e come significato (nelle locuzioni “senso pratico” e “senza senso”). Quando immaginiamo una scena di romanzo o l’andamento di una partita di calcio che ascoltiamo alla radio ci affidiamo al senso comune, che ha elaborato per ogni tipo di immaginazione collettiva un modello valido per tutti e invariabile, ancorché a termine. La sua lotta non è contro il tempo, ma contro il buonsenso, che gli fa da carabiniere. Nel più banale degli esempi, se vediamo che nessuno fa la raccolta differenziata dei rifiuti siamo spinti a uniformarci al disordine, seguendo il senso comune, ovvero il mainstream, e disobbediamo al buonsenso che ci suggerisce di violare il comportamento comune. Lo stesso buonsenso diventa senso comune in un quartiere dove tutti osservano la differenziata, in un rapporto di scambio entro il quale è più facile che il buonsenso si muti in senso comune che non il contrario, giacché il buonsenso implica rigore morale, coscienza, responsabilità, avvedutezza, mentre il senso comune sottende comodità, opportunità, egoismo, faciloneria.
Il senso comune ci fa vedere film, programmi televisivi, eventi di cronaca instillandoci un unico modo di vedere il mondo, quello di un Grande Fratello che ci fa comprare e usare gli stessi prodotti, ci fa amare le stesse canzoni e ci educa a vivere le stesse emozioni. Le figlie di Salina ne Il Gattopardo smettono di immaginare i loro principi azzurri quando ce l’hanno davanti. Preferiscono in sostanza la serie all’originale, lo stereotipo all’individuo. Il buonsenso le avrebbe tenute legate al mondo del romanzo nel cui spirito sono cresciute, giacché è il padre che lo legge loro. Lo stesso buonsenso avrebbe dovuto convincere subito il piccolo Parisi che mancava la luce piuttosto che indurlo a temere la cecità, frutto del senso comune fatto delle empuse infantili, dei racconti fantastici, dei mostri onirici del suo tempo.
Il senso comune è un acceleratore, mentre il buonsenso un freno. Quello fa agire, questo induce a pensare. Azione e pensiero, pragmatismo e idealismo, ma anche istinto e ragione. Condivisione, globalizzazione, pensiero unico, conformismo, mass-cult sono gli elementi del senso comune. Identità, esclusività, teoricismo, personalità individuale quelli del buonsenso.
Dovendo rinunciare a una delle due qualità umane, l’uomo oggi fa a meno del buonsenso, perché la maggioranza si nutre del primo e vede il secondo come medicina. Con il buonsenso si resta passatisti, mentre con il senso comune si diventa avveniristi. Il calcio come show di massa è un classico vettore del senso comune. Nella velocità del gioco, nella brevità vertiginosa della vita attiva di un calciatore, nei continui muramenti tattici e della lingua più appropriata, nella facilità con cui giocatori e allenatori cambiano maglia e società, nella passione inesausta delle tifoserie che affollano gli stadi cogliamo lo sforzo generale a tenere il passo comune.