Scritto un romanzo, il desiderio è di pubblicarlo, ciò che significa aspettare a volte anche molti anni – se non si è già affermati – e soprattutto sottoporsi al giudizio altrui, momento nel quale l’autore si alza dalla sua scrivania di solitario artefice e siede al tavolo con altre persone che si dicono più esperte di lui e quindi nel diritto di esercitare un’azione di impossessamento del suo testo fino a dichiarare di conoscerlo meglio.
L’equivoco sta nel ritenere un’opera d’arte qual è il romanzo frutto di abilità e non di ingegno. L’ingegno è creazione e invenzione, l’abilità è produzione e tecnica: il primo non può essere giudicato se non dal gusto soggettivo e dunque non ha regole da rispettare; la seconda risponde a un manuale di requisiti che sono oggettivi e validi per tutti. Ma si ritiene comunemente che anche l’ingegno – l’intelligenza creativa – abbia la struttura di un progetto, com’è per una villa, la cui costruzione può lasciare spazio all’inventiva dell’architetto pur non potendo ignorare leggi invariabili di ingegneria edilizia.
Senonché, per la sua varietà e indeterminatezza, il romanzo quale opera d’arte è fatto di una sostanza le cui parti si comportano come elettroni di un atomo dei quali, si sa, è impossibile prevedere la direzione che prendono. La valutazione da parte di figure diverse dall’autore può essere esercitata su una poesia, quanto al rispetto della metrica di base, su un libro di storia per l’osservanza della verità dei fatti, su un saggio limitatamente alla condivisione dell’editore delle idee espresse, su un trattato scientifico in riferimento alle teorie avanzate, ma su un testo di invenzione letteraria deve fermarsi davanti al libero discernimento dell’autore il quale può arrivare anche a inventare una propria sintassi come Verga e una personale grammatica come Saramago.
E se un manuale di scrittura creativa formula teorie di base, il romanzo per sua natura e nei fatti dimostra che prescinde dalle regole date e risponde a una sola: il gradimento del pubblico. L’esempio più clamoroso è quello di Andrea Camilleri, al quale anche Leonardo Sciascia sconsigliava di servirsi molto dell’argot siciliano, perché incomprensibile Oltrestretto, ma il successo avuto dal padre di Montalbano ha provato che il convincimento di Sciascia, condiviso e osservato da tutti, da Pirandello a Brancati, da Consolo a D’Arrigo, era sbagliato.
L’esperienza di Camilleri (che è stata la stessa di sperimentalisti innovatori come Cervantes, Sterne, Joyce e tanti altri), premiata soprattutto dalla cocciutaggine, non diversa da quella dei primi fisici quantistici che vedevano nuovi orizzonti oltre la fisica meccanica, insegna che un testo narrativo non può essere trattato al pari di uno saggistico per il quale certamente è richiesto il rispetto di cognizioni specifiche se si tratta di argomenti specialistici, tuttavia è prassi che un romanzo, prima della pubblicazione, venga sottoposto al giudizio altrui: e mentre un testo specialistico richiede preparazione tecnica e costringe l’editore o l’agente letterario a entrare in competizione con l’autore, un testo narrativo si offre al parere di chiunque. Del resto se il giudizio di validità fosse ispirato a un canone di princìpi fissi com’è per un saggio, ogni romanzo dovrebbe suscitare lo stesso grado di interesse o di disinteresse, mentre vediamo che così non è affatto.
Chi vuole dunque pubblicare un romanzo deve sottoporsi all’esame di un editore o di un agente letterario, secondo la figura cui si rivolge. E qui cominciano i problemi che costituiscono il male oscuro del settore, perché sia l’uno che l’altro perseguono il profitto economico (com’è ovvio e anche giusto), sicché inseguono il mercato più che perseguire fini culturali: così l’editore punta a pubblicare autori sicuramente vendibili e l’agente letterario a rappresentare autori certamente remunerativi, anche a prescindere da ciò che essi scrivono.
Questi autori di successo costituiscono però la parte di gran lunga minoritaria della vasta platea di scrittori: che si trovano dunque nel bizzarro paradosso per cui non possono pubblicare facilmente perché non sono affermati e non sono affermati perché non pubblicano. Perdippiù, non essendo affermati per non avere pubblicato, il mercato editoriale li affossa perché i librai accettano titoli e fissano il numero di prenotazioni in base proprio al nome dell’autore o ai libri già usciti per poi esporne i volumi seguendo le stesse valutazioni. Dal canto loro i promotori che girano le librerie per prendere le prenotazioni, sulla base delle quali l’editore stabilisce poi la tiratura, sono a corto di argomenti di persuasione nei confronti dei librari se da proporre hanno un autore esordiente, sul quale l’editore si guarderà bene dal mobilitare l’ufficio stampa in cerca di recensioni o riservare budget per pubblicizzarlo. Di conseguenza i distributori, dovendo gestire tirature limitate di un libro fantasma, impiegano ben poche risorse per farlo anche solo trovare.
Pur stando così le cose, sia gli editori che gli agenti letterari ripetono tuttavia che un romanzo di qualità si fa strada da solo, al di là di lunghe attese, valutazioni acribitiche, rifiuti in serie: è vero, ma per farsi strada un libro deve prima uscire, altrimenti un capolavoro come Il Gattopardo non sarebbe mai diventato un successo se Bassani non avesse sconfessato il giudizio negativo di Vittorini e deciso la pubblicazione. Altro esaminatore, altro gusto: a dimostrazione che a contare è più il fiuto del giudizio e che alla fine se un parere conta è quello dei soli lettori. È ben possibile allora che una Storia della letteratura possa farsi, borgesianamente o alla Bolaño, con i romanzi che non sono stati pubblicati, talché nessuno può dirci che non possa essere altrettanto valida se non più vera.
Editori e agenti (che richiamano un po’ nei rapporti reciproci le figure del giudice e dell’avvocato) dividono gli autori tra noti e sconosciuti: corteggiano sfacciatamente i primi e trattano i secondi al pari di stalker, da tenere tuttavia sott’occhio perché tra di loro c’è sicuramente chi emergerà domani. Gli editori non chiudono perciò le porte agli autori sconosciuti, ma si premuniscono come fortezze sotto assedio ponendo sui loro siti web alti propugnacoli contro ogni attacco: limitazione del periodo dell’anno entro il quale inoltrare manoscritti, tassatività dell’inoltro del testo in formato cartaceo o unicamente in formato digitale, diffida a telefonare e scrivere email per sollecitare risposte, obbligo di recapitare solo abstract e di aspettare che sia richiesto il testo integrale, avvertenza che il tempo di valutazione sarà molto lungo. Molte volte la risposta, semmai arrivi, si riduce a un rifiuto contenuto in un modulo prestampato uguale per tutti, la cui motivazione può andare dalla programmazione già stabilita per uno o più anni dei libri da pubblicare alla mancanza di una collana che possa ospitare l’opera in questione.
Generalmente la lettera di rifiuto è costituita da alcuni generici apprezzamenti iniziali seguiti da inoppugnabili riserve che portano alla drastica e gelida decisione di respingere il manoscritto. Ma perché gli apprezzamenti di prammatica e non direttamente un “no, grazie”? Perché gli autori appartengono nella grande maggioranza alla categoria dei lettori forti, quindi le considerazioni positive al romanzo sono rivolte al lettore-acquirente perché non maturi alcuna avversione nei confronti della casa editrice e dei suoi libri.
La premura di rispondere agli autori non la usano invece gli agenti letterari, che però non si conducono in maniera diversa, opponendo le stesse restrizioni di accesso degli editori e in più offrendo in deterrenza un servizio di valutazione a pagamento affidato a “qualificati esperti del settore”, i cui nomi però non vengono mai fatti: se lo fossero potrebbero davvero trovare autori disposti a pagare sapendo di essere letti da scrittori famosi e affermati. Qualche agenzia letteraria offre anche valutazioni gratuite, ma limita il numero di testi a tre al mese, da proporre il primo giorno con un meccanismo di inoltro sui rispettivi siti web che richiede, alla mezzanotte di ogni giorno 1, un’abilità da hacker per riuscire in pochi secondi ad essere tra i fortunati prescelti: cosicché il successo di un romanzo non dipende più dal suo contenuto e dal talento dell’autore ma dall’abilità di chi si mette in gara con altri avversari alla tastiera, ragione per cui l’autore sconosciuto farebbe meglio a iscriversi non a una scuola di scrittura creativa ma a una di uso rapido di internet.
Strana condotta questa delle agenzie letterarie come degli editori che si comportano al pari del talent scout di una società calcistica che chiede a un calciatore in erba di pagarlo per vederlo giocare, quando è nel suo interesse primario scoprire nuovi talenti; né dovrebbe lamentarsi – tutt’altro anzi – se gli aspiranti campioni aumentino tanto da diventare incontenibili: piuttosto che imporre un numero chiuso, semplicemente si attrezzerebbe con dei collaboratori così da valutarli tutti.
Ponendo restrizioni e scoraggiando in tutti i modi l’assalto degli autori, agenzie letterarie ed editori non capiscono che soltanto nella quantità possono trovare la qualità, come cercatori d’oro che certo non protestavano se potevano setacciare quanti più fiumi fossero loro resi disponibili. Molto più comodamente editori e agenti preferiscono invece rincorrere autori già noti, stimolandoli a scrivere di più e magari in fretta, col rischio quindi di avere libri illeggibili e litigare tra di loro, piuttosto che esplorare nuove strade contribuendo peraltro a rinnovare la letteratura.
Significativo, a dare il quadro del sistema editoriale, quanto ha dichiarato un importante direttore editoriale nel motivare un rifiuto: “Quante opere di autori contemporanei meritevoli di essere letti e pubblicabili stiamo valutando? Diciamo venti. Quanti posti abbiamo nel programma editoriale? Diciamo due. Per novità tematica, personalità dell’autore, caratteristiche stilistiche, posizionamento dell’autore nel mondo letterario di adesso, possibilità di promuovere, chi ci conviene pubblicare? Il ragionamento è questo. Non è prendere l’opera, valutarla, capire dove funziona e dove no, e quali deficit abbia. A me piacerebbe ragionare così, ma purtroppo non è in questo modo che funziona. Non è una scelta in assoluto, ma una scelta tra tanti”.
Stando così le cose, se conta l’autore e non il libro (che viene valutato non come nei concorsi in cui è fatto obbligo all’esaminatore di ignorarne l’autore, ma in funzione di lui), per uno scrittore sconosciuto e peggio ancora esordiente (parola che agli agenti e agli editori fa venire l’orticaria da stress) la via della pubblicazione è davvero lastricata di ostacoli. Ma anche di trappole. Oltre agli agenti letterari operano editori a pagamento che per stampare un romanzo chiedono all’autore l’acquisto di un numero di copie che copra almeno le spese. Fra questi editori militano anche importanti testate giornalistiche e importanti editori che propongono a pagamento, evitando ogni rischio, un servizio di stampa – e di spedizione più che di distribuzione – limitato al solo numero di copie acquistate online. Così fanno decine di editori che, come Amazon, mettono a disposizione piattaforme online sulle quali è lo stesso autore a costruire tecnicamente il proprio libro, pubblicarlo e venderlo. Si tratta del self-publishing, un modello editoriale che in Italia ha trovato poca fortuna perché sconta il pregiudizio del lettore che, non vedendo grandi firme ricorrere a questo mezzo, suppone a ragione che l’autore sconosciuto sia stato respinto da tutti gli editori e, pur di togliere il proprio manoscritto dal cassetto e dargli una minima visibilità, abbia preferito ripiegare sull’auto-pubblicazione, digitale e cartacea on demand.
La fretta e la smania di pubblicare non fanno però il bene del romanzo. Stefano D’Arrigo attese quasi trent’anni prima di consegnare all’editore il suo Horcynus Orca e Gesualdo Bufalino per tre lustri non fece che correggere, anche nelle virgole, il suo Diceria dell’untore. L’autore in genere aderisce sempre all’idea che, arrivato alla fine, non deve che pubblicare il suo romanzo, non concependo che sia invece a una prima stesura. Eppure non c’è romanzo, neppure se scritto seguendo un progetto e non di getto o per tappe, che non meriti aggiustamenti e interventi anche minimi. Che più piccoli e circoscritti sono, più scoraggiano i motivi per compierli.
Che fare allora? Meglio lavorare come Sisifo sempre alla stessa opera o passare come Eracle da un’impresa a un’altra, impegnandosi cioè in un nuovo romanzo? L’interrogativo postula un’altra domanda: quando possiamo stabilire che un romanzo è concluso e scrivere la parola fine cercando quindi un editore con l’animo di un costruttore che termini la casa e la metta in vendita? Il self-publishing, che nel caso di Amazon significa anche autogestione, permette di variare il testo a piacimento e dunque incoraggia la pubblicazione immediata, ma offre al pubblico versioni sempre diverse che cancellano le precedenti e creano casi in cui due lettori abbiano lo stesso libro che però è diverso uno dall’altro. Spariscono così le cosiddette varianti sulle quali si esercitano (oggi sempre meno) gli studi filologici – la cui vita attiva è durata un secolo, da quando la Germania li introdusse nelle università, filologicizzando ogni cattedra europea e attirandosi la veemente protesta di Ettore Romagnoli, a quando è arrivato il computer con la possibilità di correggere gli errori eliminandoli.
A parte il self-publishing, una chimera che dà frutti solo in lingua inglese per la vastità del mercato internazionale, pubblicare con un editore a pagamento comporta sacrificare il romanzo a un destino di clandestinità e di anonimato (perché promozione e distribuzione sono assente la prima e deficitaria la seconda), ma soprattutto significa bruciare il proprio nome. Stessa sorte spetta a chi scelga la via del samizdat (la pubblicazione su carta a proprie spese), pensando alla tipografia e alla distribuzione in proprio, metodo che inevitabilmente si traduce in una pubblicazione “sibi et paucis” e in una distribuzione da bancarella. Una via da poco aperta è quella delle piattaforme di crowdfunding che offrono un libro ancora da fare alla generosità di anonimi sottoscrittori che entro un termine perlopiù di cento giorni sono chiamati a prenotare un numero di copie sufficienti a coprire le spese, ma non si tratta che di una nuova forma di autopromozione perché è proprio la stessa piattaforma a spronare l’autore perché convinca amici e parenti, caricandolo dunque di ogni onere circa la riuscita dell’operazione di finanziamento dal basso.
A conti fatti, a un autore col suo romanzo sottobraccio non resta, come del resto un tempo, che cercare di farsi innanzitutto un nome: partecipando ai tanti concorsi letterari, inviando racconti ad antologie, giornali e riviste, provando a collaborare con esse, utilizzando al massimo i social network, attivando un proprio sito web, presenziando a meeting letterari, convegni e seminari per conoscere qualche nome importante e riuscire a fissargli nella mente il proprio, mettendosi infine in attesa di una risposta da parte di un editore o di un agente letterario.
È quello che fa Lucien de Rubempré quando consegna il suo romanzo manoscritto a Doguereau, il libraio-editore dal quale si aspetta un sì mentre sogna milleduecento franchi e la gloria letteraria dopo aver fatto come gli ha detto il signor du Châtelet: “Rifugiatevi in una mansarda, scrivete dei capolavori, impadronitevi di un potere qualsiasi e vedrete il mondo ai vostri piedi”. Ma Doguereau gli offre solo quattrocento franchi e Lucien rifiuta con orgoglio, sicché il libraio gli risponde così, tracciando lo scenario editoriale nella Parigi di inizio Ottocento che è lo stesso del resto di quello di oggi anche in Italia:
“Ci siamo,” fece il vecchio libraio. “Voi non conoscete gli affari, signore. Pubblicando il primo romanzo di un autore, un editore rischia milleseicento franchi fra stampa e carta. E’ più facile scrivere un romanzo che trovare una somma simile. Io ho in bottega cento manoscritti di romanzo, ma non ho in cassa centosessantamila franchi. Ahimè, in vent’anni che faccio il libraio non sono riuscito a mettere insieme una somma simile. Non si fa fortuna stampando romanzi. Vidal e Porchon [due librai-commercianti che hanno appena rifiutato il manoscritto di Lucien] li prendono a condizioni che si fanno di giorno in giorno più onerose per noi. Mentre voi rischiate solo il vostro tempo, io devo sborsare duemila franchi; quanto a voi, potrete consolarvi scrivendo un’ode contro la stupidità del pubblico. Dopo aver riflettuto su ciò che ho avuto l’onore di dirvi, tornerete da me. Tornerete da me”, ripeté il libraio con autorità per rispondere a un gesto pieno di superbia che Lucien si lasciò sfuggire. “Altro che trovare un libraio disposto a rischiare duemila franchi su un giovane sconosciuto! Non troverete nemmeno un commesso che si dia la pena di leggere il vostro scartafaccio. Io, che l’ho letto, posso segnalarvi parecchi errori di francese. Avete scritto osservare per fare osservare e malgrado che. Malgrado vuole una costruzione diretta”. Lucien parve umiliato. “Quando vi rivedrò, avrete perduto cento franchi” continuò Doguereau, “Perché allora vi darò solo cento scudi”. Si alzò, salutò, ma giunto sull’uscio disse: “Se voi non aveste del talento, dell’avvenire, se io non mi interessassi ai giovani studiosi, non vi avrei fatto condizioni così vantaggiose. Cento franchi al mese! Pensateci. Dopo tutto, un romanzo in un cassetto non è come un cavallo in scuderia, non mangia pane. E’ però anche vero che non ne guadagna!”.
Si chiamavano “usignoli” i libri che nella Parigi di Balzac ammuffivano sugli scaffali delle librerie, così chiamati perché sembravano cantare in solitudine la propria morte, ben sapendo che il loro canto è il più armonioso, da costituire un mistero del creato. Un po’ come il romanzo dunque, il genere più difficile da definire, il più misterioso e per questo forse il più cagionevole. Da quando è nato non se ne canta infatti che il de profundis, eppure è ancora lì su tutti gli scaffali del mondo. Per segnarne l’immortalità Bufalino scelse un ex libris che mostra una nave per metà già affondata e in primo piano una mano con un libro che emerge dalle onde. Non sappiamo se è un romanzo, ma poco importa. Andando in fila con altri verso il patibolo, un condannato a morte che aspetta il suo turno legge intanto un libro e, a chi gli chiede perché lo fa, risponde che gli potrà essere utile nella vita.