La Rai ha girato un totale di 37 film della serie Montalbano e dal 1999 non fa ogni anno che sceglierne un pacchetto e replicarli. Il criterio di selezione è dato dal successo nel tempo delle puntate e dal numero delle repliche, mai da un fil rouge – tematico, cronologico, compositivo – che segua le vicende del commissario. Che forse è il solo personaggio letterario seriale che invecchia, si ammala, muta personalità, mentre a vederlo e rivederlo in televisione appare sempre uguale al suo modello iniziale: un calco che non si rinnova, ma si ripete immancabilmente il lunedì e sempre con un indice di ascolto elevato per una produzione ormai da Techetecheté.
Quest’anno, in occasione del centesimo anniversario della nascita di Camilleri, sono stati programmati 15 titoli partiti già da settembre. Nessuna serie Tv, nemmeno quella leggendaria del commissario Cattani con Michele Placido, “La Piovra”, ha registrato nel tempo tanto seguito: sicché si può parlare, dopo più di un quarto di secolo, di long-running series dovuta a un complesso di motivi non previsti né dalla produzione televisiva né dallo stesso Camilleri, che meno di tutti ha creduto nel suo personaggio. Sicuramente non lo ha amato.
Parlando di Simenon, una volta gli dissi in vista del mio libro Tutto Camilleri: “Sicuramente in una futura storia della letteratura lei sarà ricordato come il padre di Montalbano”. E lui: “Non c’è dubbio. Ma pazienza. Anche Simenon è il padre di Maigret, eppure ne ha scritti tanti di romanzi diversi”. Io: “Lei soffre forse della sindrome appunto di Simenon che fu uno scrittore lettissimo ma mai riconosciuto dalla critica ufficiale?”. Risposta: “Sì, probabilmente, soprattutto leggendo le lettere di Simenon a Gide e viceversa; e pensando ai traumi che Simenon ebbe nel momento in cui venne preso da Gastone Gallimard, quando finì che per sei anni non scrisse più un Maigret perché quasi si vergognava. Io non ho di queste preoccupazioni. Non so perché. Forse perché mi sono rassegnato all’idea che i recensori facciano di ogni erba un fascio, cioè non distinguano più per esempio nelle mie opere tra quelli che sono i romanzi che gialli non sono e quelli che sono esplicitamente gialli. Mi definiscono giallista italiano, pazienza. Per loro sono diventato solo uno scrittore di gialli, ma non mi ritengo tale”.
Camilleri non amava Montalbano, perché ha rappresentato per lui ciò che Sandokan fu per Kabir Bedi: un personaggio di cui l’attore si fece ipostasi suo malgrado. Eppure Camilleri deve il suo successo, anche oggi, sei anni dopo la scomparsa, esclusivamente a Montalbano e in particolare a quello televisivo. Non lo ammise mai, anzi lo negò sempre con decisione, tuttavia i suoi gialli montalbaniani, a ben leggerli, da un certo momento in poi, in coincidenza con il crescente successo della serie Tv, e per un certo arco di tempo, presero il passo prima di soggetti cinematografici e poi di vere e proprie sceneggiature, tradendo la prevalenza di dialoghi e scene di azione sulla riflessione e i processi mentali.
Nei primi anni Duemila il Montalbano di carta ha però ancora una sua spiccata identità, senonché Camilleri, reduce da una lunga esperienza di produttore esecutivo di sceneggiati televisivi, è consapevole della differente forza di penetrazione della televisione rispetto ai libri – la diversità di grandezza stando in un rapporto di milioni di telespettatori contro centinaia di migliaia di lettori – e nel 2001, con L’odore della notte, ridisegna il personaggio al fine di scongiurare che venga presto fagocitato da quello televisivo, benché sin dalla prima puntata, Il ladro di merendine, cooperi come co-sceneggiatore alla fiction. O meglio ancora come consigliere e testimone.
Sa bene che in Tv pensieri e coscienza non possono avere posto, quindi lavora sul carattere del commissario, che ha già dato avviso di certe fobie, come la vista dei moribondi, una voce al telefono che non risponda, rivedere il padre, per modo che lo mette a tu per tu con la paura della morte, che quando arriva manda un suo odore come fa appunto la notte. Il tratto è segnato: in un racconto dell’anno successivo, “La paura di Montalbano” il commissario, come gli dice Livia, ha paura di scrutare gli abissi dell’animo umano.
Camilleri pone così i presupposti per la svolta che arriva nel 2003 con Il giro di boa, titolo calembour perché integra sottotesto l’intenzione di Camilleri di azzardare una manovra letteraria dell’audacia di quella operata nel 1997 (appena tre anni dopo la nascita del commissario avvenuta con La forma dell’acqua), quando ha rivoluzionato la squadra in campo, intendendo isolare ancora di più Montalbano nella sfera di una controfisica del potere che lo legittimi come antieroe popolare. Allora sono cambiati infatti il questore, il capo della mobile, il capo di gabinetto, il sostituto procuratore, il capo della Scientifica, tutti rischierati perché si creassero le condizioni per l’insorgenza di un fronte ostile al commissario isolato e assediato. Una scelta coraggiosa e vincente.
Ora, in Il giro di boa Camilleri è ancora più temerario. Il prode commissario si sente male nuotando di notte durante un’operazione di polizia e va così incontro al primo attacco di panico, che lo porterà via via a un aggravamento progressivo con ripetute crisi, stati di depressione e turbe ansiogene che minacceranno nei romanzi a seguire di cronicizzarsi e di relegarlo, come lo vedrà il medico legale Pasquano in Il gioco degli specchi, nella condizione di un uomo avulso dal suo tempo.
Ma Camilleri non si sente ancora sicuro di aver messo distanza tra il suo commissario e quello televisivo e nel 2005, con La luna di carta, compie un’operazione che potrebbe costargli il personaggio. Sono ancora lontani i boom di ascolto di oltre dieci anni dopo e i record nel 2018 di dodici milioni di telespettatori, ma capisce che deve scavare il fossato ancora più profondo, benché i due personaggi siano già molto diversi, essendo Zingaretti il contrario, anche nell’aspetto fisico, dell’originale camilleriano che è pacioso, pingue, molle, antiquato, pantofolaio e malinconico.
Introduce perciò in La luna di carta – e consolida un anno dopo in Le ali della sfinge – un elemento che davvero non può avere in televisione un doppio, che la produzione comunque non proverà nemmeno a immaginare neppure nello spin off “Il giovane Montalbano”. Si tratta di una figura, “Montalbano Secunnu”, che funge da coscienza morale, doppio di sé, destinata a crescere sempre più e quindi a rimarcare lo stato di disadattamento psichico che rende Montalbano, vittima peraltro delle prime “vecchiaglie”, di una fragilità che in televisione esiterebbe una capitolazione.
Camilleri riesce così a tenere il nerbo del romanzo, dove il protagonista non agisce ma pensa. Egli sa bene che Montalbano, nato sulla scia di Maigret e, alla distanza, di Sherlock Holmes, fa parte degli investigatori che invece delle gambe usano la testa e amano ragionare anziché sudare, capaci come sono di arrivare alla soluzione del caso per via di successioni intuitive e standosene magari in una stanza o su un molo. Il genio di Montalbano è dunque la serendipità, la circostanza nella quale si arriva a un’illuminazione mentale mentre si è impegnati a fare qualcos’altro.
Il commissario è un logico che arriva allo scioglimento del giallo quasi sempre grazie a una rivelazione, una sorta di flash che lo illumina improvvisamente. Si potrebbe dire che è il caso a regolare il poliziesco, che quindi ha poco di holmesiano e maigretiano, se non fosse per la stessa natura psicomachica del commissario, di uomo dall’io lacerato che deve molto a Lacan e a Greimas: il Lacan dell’immaginario simbolico per il quale una scena si crea nell’inconscio prima che nella conoscenza reale attraverso segni che possono essere il sogno, il lapsus e anche il “lampo”; e il Greimas della saisie esthétique, la “presa estetica” che ci permette di ricevere una luce abbagliante, derivata anche da uno spot pubblicitario o da qualsiasi altra occasione, in forza della quale maturiamo un giudizio solo quando la luce è svanita, lasciandoci la rappresentazione di un nuovo stato di cose: proprio quello che succede al commissario di fronte a un’incognita, che risolve infatti con “una presa estetica”.
Si tratta della percezione, tema sul quale Camilleri ha polemizzato con Borges per il quale la percezione coincide sempre con l’oggetto percepito mentre secondo lo scrittore siciliano prima si ha la percezione dell’oggetto, che rimane però amorfa, soprattutto in un’indagine di polizia, fino a quando non invalga il ragionamento a darle consistenza di realtà.
Prima del maggiore successo televisivo è stata ricorrente la classica lampadina che si accendeva nel cervello abbagliando il commissario di un ricordo, una cosa vista, un particolare senza importanza, e consentendogli di vedere chiaramente lo scenario dei fatti, tant’è che altrettanto puntuale era il consequenziale cosiddetto “saltafosso”: trovata l’ipotesi realistica, Montalbano la verificava interrogando il colpevole e rappresentandogli prove che in realtà non aveva e che contava di ottenere attraverso la sua confessione, che infatti arrivava immancabile. Dopo il boom televisivo, lampadine e saltafossi lasciano spazio all’azione sul campo così che Maigret si muta in Marlowe, l’intelligenza e l’intuito sono avvicendati da un dippiù di indagini, dalla necessità di maggiori personaggi, da trame più complesse e da sforzi di deduzione oggettiva e realistica. Basta pensare, bisogna operare.
Questo modello narrativo ha in qualche modo tradito l’originario, che comunque ha conservato la sua ragione d’essere e la sua riconoscibilità, ancora di più perché il Montalbano saturnino, malmostoso e atrabiliare dei romanzi nulla ha trasmesso, come si è detto, a quello elettrico, vispeggiante e lallatario interpretato da Zingaretti, mai minacciato da sindromi depressive di alcun genere e se via via divenuto sempre meno fermo sulle gambe e con energia fisica ridotta è stato solo perché gli anni sono passati anche per Zingaretti.
Ma davvero Camilleri riesce alla fine a tutelare il suo Montalbano? Nel 2018, l’anno di maggiore fortuna della serie televisiva, un semiologo di un certo nome, Gianfranco Marrone, pubblica un libro, Storia di Montalbano, intendendo tra l’altro dimostrare, come dice in un’intervista, che “Camilleri ha cominciato a cambiare il suo personaggio in funzione di quello televisivo, giocando nei testi ad alludere al personaggio famoso che Montalbano è diventato”. Se è vero, il cambiamento è nato limitatamente al periodo successivo alla stagione nella quale ha più volte fatto apparizione “Montalbano Secunnu” (cioè da La luna di carta del 2005 a La danza del gabbiano del 2009) come spalla inconscia del protagonista, insieme per esempio alla lettera a se stesso, apparizione che è poi andata scemando fino a cedere a un piano di realtà analogica facilmente sceneggiabile, ma intanto lasciando in ipoteca Riccardino, il romanzo finale e postumo (già consegnato a Sellerio) nel quale Montalbano incontrerà un suo doppio particolare, proprio il commissario televisivo nella persona di Luca Zingaretti.
Del resto il primo episodio che nel 1999 va in onda è per Camilleri il quinto del ciclo cartaceo e già sono uscite anche due raccolte di racconti montalbaniani. Camilleri insomma comincia a cambiare il suo personaggio in funzione di quello televisivo (ma questo è tutto da dimostrare e occorre tenere conto della perentoria negazione dell’autore stesso) solo dopo che rientra Montalbano Secunno e quindi dopo il 2011, quando Il gioco degli specchi risente ancora moltissimo della presenza di un alter ego accanto al commissario e di un fondo ancora fortemente psicomachico mai visto nella serie Tv.
Ma nonostante i tentativi di Camilleri di tenere distanti i due Montalbano, catodico e cartaceo (pur facendoli surrealmente incontrare in qualche racconto, in La pazienza del ragno e infine in Riccardino), quello televisivo ha mantenuto e tutt’oggi conserva un vantaggio incolmabile, se è vero che la serie Tv continua a sciorinare puntate mentre i libri non sono più da anni in classifica, benché continuino a uscire nella collezione del Corriere della sera.
Nonostante il distacco, ci sono tuttavia ragioni fondate per giudicare mediocre la trasposizione televisiva: recitazioni troppo teatrali, battute insistite e trovate tirate per solo bell’effetto, dialoghi poveri e scontati, atteggiamenti dei personaggi, da Catarella ad Augello, gesticolanti e affettati, modi di fare che evocano l’espressività formale del cinema anni Sessanta con primi piani voluti per suggerire una reazione muta con un eccesso di smorfie, ambientazioni create per ricercare il pittoresco sempre e ovunque, interpreti che diventano mimi: tutto nel classico solco del cinema italiano che non si è mai liberato dell’ipoteca del bel teatro e che ritiene una recitazione riuscita quanto più sia teatralmente ostentata e meno naturale.
Il successo tuttavia è un dato che zittisce ogni critica ed è così grande da ridurre ogni osservazione a un semplice colpetto di tosse. Montalbano piace ai telespettatori per l’aria di famiglia che si è conquistata in quasi trent’anni di frequentazione, per la semplicità delle trame che non implicano conoscenze tecniche in materie scientifiche o processuali o sociologiche; per la caratterizzazione del personaggio da uomo commune, per una certa assuefazione data dall’enorme tempo di presenza in Tv e soprattutto perché l’uso del parlato siciliano, sebbene circoscritto a poche locuzioni, stabilisce un rapporto diretto con la Sicilia da offrire, con sapienti inquadrature, il sembiante di un luogo esotico, remoto ma italiano, una terra nota per la sua bestiale violenza ma adesso scoperta nei suoi lati bucolici, rasserenante, teatro di crimini comuni, ordinari e di grado minimo, frutto perlopiù di aggrovigliamenti mentali di singoli individui mossi da intenti biechi ma giustificabili.
Ciò ricostruisce con la Sicilia un rapporto di pacificazione e di accostamento ottimistico: se non c’è mai un delitto imputabile a un’associazione a delinquere quale che sia, se la mafia è solo un rumore di fondo e quando appare mostra i panni di un vecchio cascame come don Balduccio, peraltro gravido di una saggezza tutta da condividere, se la Sicilia si propone come campagna verdeggiante, templi e paesaggi virgiliani, paesini di grande suggestione e quasi luoghi dell’anima, piatti da gourmet, senza mai una scena in una grande città, cumuli di spazzatura per le strade, coste devastate dalla speculazione edilizia, pale eoliche sulle colline; e se per girare una scena all’aeroporto di Fontanarossa si preferisce un parcheggio in riva al mare, tutto ciò depone per un’accettazione nel suo complesso di un prodotto d’immaginazione che stimola la fantasia, induce effetti irenici e soterici e fa andare a letto nella supposizione di lasciare il mondo non solo bello, se bella è addirittura la bruttissima e cattivissima Sicilia, ma anche in ordine. A mezzanotte non c’è medicina migliore in un’Italia che da ventisei anni non fa che prendere ansiolitici.