Lo studioso francese Georges Minois |
Non c’è libro al mondo che abbia fatto parlare di più pur non essendo forse mai esistito. E non c’è libro al mondo che la Chiesa cattolica di tutti i secoli non abbia cercato con ogni mezzo di cancellare dalla Terra e dalla memoria degli uomini. Non solo la Chiesa cattolica, ma anche quella ebraica e, con minore accanimento, la confessione islamica. E’ il famigerato, maledetto, mostruoso De tribus impostoribus, conosciuto come il Trattato dei tre impostori. Che sarebbero Cristo, Mosè e Maometto.
Un cattedratico francese, Georges Minois, ci ha lavorato a lungo e ha scritto un saggio che in Italia (forse per eccesso di acquiescenza nei confronti del Vaticano) è arrivato con il titolo Il libro maledetto e non con quello, ben più perentorio, con cui è uscito in Francia ed è universalmente noto: “Le traité des trois imposteurs”.
In realtà il libro è conosciuto con il titolo originario in latino, giacché se ne parla già dal XII secolo. Donde è probabile che il libro in questione sia diventato paradossalmente oggetto di discussione prima ancora della polemica che lo ispira circa la natura di rivelazione compenetrata nelle figure di Mosè, Cristo e Maometto.
La blasfemia cristiana, che diventa la bestemmia per antonomasia, si diffonde non tanto e non solo per l’insorgenza lollardista o per iniziative del tipo di quella di un de Tournai che a metà del 1100 suggerisce la tesi dell’impostura dei tre profeti monoteisti, ma proprio a causa di un fantomatico libro che nessuno ha letto, nessuno possiede ma di cui tutti conoscono il contenuto sacrilego. Nei secoli questo accumulo di convincimenti che creano una vera e propria opinione comune, tanto che Papa Gregorio IX accusa l’imperatore Federico II di esserne l’autore, raggiunge il culmine della mistificazione e dell’imbroglio finché, nel Settecento, numerosi speculatori perlopiù francesi reinventano il Traité attribuendolo ad allievi di Spinoza se non proprio a lui, stampandone poche copie per aumentarne il prezzo e ingenerando, con un fitto intreccio di rivelazioni, smentite e attribuzioni, una tale confusione che è arrivata fino ai nostri giorni.
Minois ricostruisce il secolare percorso del libro fantasma e sembra giungere alla stessa conclusione di alcuni intellettuali del Settecento, secondo i quali il libro non è mai esistito nella sua forma originale di opera di un singolo autore e che altro non è stato che un mezzo di ottenebramento delle coscienze in chiave atea. Se il libro è quello che oggi conosciamo quale opera spinoziana, troppo da vicino ne richiama l’Etica per non essere decisamente un falso.
Ma può un falso creare un processo di destabilizzazione così violento? Fatto si è che, come scrive Minois, a metà del XIII secolo, “la Chiesa lo bracca per distruggerlo, gli eretici e gli atei lo inseguono per leggerlo e per servirsene, i cuorisi lo cercano per curiosità. E a ogni speranza delusa la curiosità aumenta”. Non è solo curiosità, ma anche strategia politica. Imporre le tesi del De tribus impostoribus significava brandire un’arma che se nel Rinascimento era tesa a fermare l’ondata di falsi impostori che minava il fondamento della società medievale, nell’età dei Lumi serviva invece a colpire al cuore il cristianesimo che, diversamente dalle altre religioni monoteiste, si regge sullo stretto legame tra fede e ragione.
Ad ogni modo si tratta di un libro che non ha un autore ma che ha un doppio titolo. Quello che nel 1721 esce come Trattato dei tre impostori è lo stesso infatti che nel 1712 era stato pubblicato ad Amsterdam (ma in francese: la lingua internazionale del tempo), in prima edizione, con il titolo La vita e lo spirito di Spinoza. La Piano B di Prato lo ha ripubblicato adesso con entrambi i titoli. Quanto all’autore, nemmeno Piergiorgio Odifreddi, che ha scritto la prefazione, ha saputo indicarne uno. Né tantomeno è riuscito a stabilire l’epoca in cui nacque. Anch’egli nota che il testo risponde al gusto illuministico francese e ricorda che un riferimento alla dottrina di Cartesio non può retrodatarlo al tempo di Pier delle Vigne e di Averroè, due dei nomi più sospettati. Ma è anche vero che una copia del Trattato scritto in latino era stata rinvenuta alla fine del Cinquecento e che del libro inviso alla chiesa cattolica si parlava già al tempo di Federico II, al quale Papa Gregorio IX lo aveva attribuito e che perciò aveva scomunicato. È purtuttavia innegabile che lo stile è decisamente settecentesco e ricorda da vicino trattati analoghi fra cui la Storia naturale della religione di Hume e, prima ancora, il Trattato teologico-politico di Spinoza. Del resto il genere del “trattato”, che figura anche nel titolo, è figlio dei Lumi, il tempo in cui la fede cristiana ha subito i più violenti attacchi. Non a caso il Trattato si concentra essenzialmente sulla figura di Cristo.
"Ciò che rende originale il Trattato dei tre impostori - dice Minois - è che per molti secoli non è esistito che nella immaginazione degli uomini e si è cercato quindi l’autore di un libro che non esisteva. L’idea centrale di questo libro ha cominciato a circolare molto presto. L’idea è che tutte le religioni rivelate sono basate su falsità. E questo è già stato detto da antichi filosofi come Epicuro e Lucrezio. Con le grandi religioni monoteiste, l’accusa di impostura viene incentrata sui tre fondatori, Mosè, Gesù e Maometto, e ciascuna religione accusa le altre di essere ingannevoli. Il tema dei tre impostori appare per la prima volta nel mondo arabo musulmano nel X secolo e, in Europa cristiana, se ne discute nelle università nel XII secolo con l’accusa al filosofo Averroè di essere l’artefice di questa idea. In seguito, nel 1239, l’accusa viene ufficialmente mossa da Papa Gregorio IX contro il suo nemico, l’imperatore Federico II, le cui convinzioni religiose sono molto ortodosse. Da allora, l’idea diventa celebre e, a poco a poco, ci si persuade di uno sviluppo blasfemo di questo tema che viene attribuito a diverse menti sospette, eretiche o troppo indipendenti. Questo trattato mitico, che nessuno ha mai visto, ha affascinato teologi, filosofi, così come semplici collezionisti come la regina Cristina di Svezia nel XVII secolo. A quel tempo, la filosofia più scandalosa agli occhi dei teologi delle tre religioni era quella di Spinoza e non è sorprendente che il libro, alla fine, gli sarà attribuito verso il 1700 con il titolo La Vie et l’ésprit de Spinoza. In effetti, il trattato che esiste oggi ha una doppia origine: da una parte proviene da un testo in francese, attribuito ad autori sconosciuti che hanno utilizzato e rimaneggiato testi di eruditi libertini e pubblicato nel 1709 a L’Aia (La Vie et l’ésprit de Spinoza); dall’altra, da un testo latino, De Tribus Impostoribus, scritto nel 1688 dal tedesco Müller e pubblicato a Vienna nel 1753.
La Chiesa di tutti i tempi ha sempre cercato di fare sparire questo libro. Il colmo è che lo conosciamo grazie alla Chiesa stessa che per confutarlo ne ha riportato, già da Gregorio IX, ricchi brani.
Per secoli il Trattato, considerato come la blasfemia per eccellenza, è ricercato dalla Chiesa, che cerca di rispondere in anticipo agli attacchi che si pensa abbia provocato. Per questo, poiché non si ha il libro, si immagina che contenga tutti gli argomenti possibili contro la fede, come per esempio quelli che si trattavano nel corso di dibattiti nelle università. E in qualche modo, è effettivamente la Chiesa che elabora la teoria della triplice impostura attraverso le proprie teologie.
Si può dire che sia il libro che abbia fatto più male alla fede?
Come spesso accade, le dicerie fanno più danno della realtà. Questo libro è stato più pericoloso per la Chiesa, tanto più perché non esisteva. Di conseguenza ha alimentato tutti i fantasmi e le immaginazioni. S’è pensato che doveva contenere rivelazioni molto pericolose per la fede e questo ha prodotto speculazioni. Non appena il testo è apparso, in ultima analisi si è scoperto che non conteneva che critiche molto banali, rispetto a quelle di cui si era abituati a parlare. E dal XIX secolo il Trattato ha perso ogni efficacia.
Quale delle tre religioni monoteiste ne esce più danneggiata? Forse quella cattolica che tende più delle altre due a dichiararsi esclusiva ed ecumenica.
Non credo che si possa dire che il Trattato dei tre impostori abbia causato danni alle religioni, in quanto si limita a ripetere le critiche convenzionali e le accuse già da tempo utilizzate dagli oppositori del monoteismo, da eruditi libertini, in particolare, nel XVII secolo. Poiché il Trattato era un libro proibito, clandestino, che non si poteva vendere pubblicamente, le uniche persone che riuscirono a procurarselo erano già nemiche delle religioni. Inoltre, gli esemplari erano molto rari e pertanto molto costosi: all’incirca 50 fiorini, un mese di stipendio di un ministro calvinista, per fare un esempio. Il manoscritto e il libro stampato sono circolati soltanto in Europa, soprattutto in Olanda, in Germania del Nord e in Francia. Il Trattato non ha raggiunto affatto il mondo musulmano. Lì non c’è stata nessuna reazione. È stata soprattutto la Chiesa cattolica ad avere reagito dopo la pubblicazione nel 1768 della versione messa a punto dal barone d’Holbach, ma è soltanto nel 1783 che il Trattato viene iscritto ufficialmente nell’Indice dei libri proibiti. Lo ribadisco: non è stato letto che da menti già convinte e quindi non ha senz’altro fatto perdere la fede ad una sola persona.
Tra Mosè, Gesù e Maometto, chi risulterebbe il primo degli impostori?
Per il Trattato dei tre impostori, Mosè, Gesù e Maometto sono tutti e tre colpevoli di avere ingannato gli uomini per dominarli, facendo credere loro che avevano un contatto diretto con Dio. Ma, per come sono affrontati, si evince una gerarchia nella gravità dell’inganno. Il Trattato è più indulgente con Mosè, accusato di essere un mago che ha imparato i suoi trucchi in Egitto, che ha ingannato un popolo molto credulone, gli ebrei. Ciò è accaduto in un’epoca molto lontana, dove le persone erano più facili da raggirare. Per quanto concerne Gesù, egli è stato particolarmente criticato per aver sedotto gli uomini con illusioni, sogni, false speranze. Ma allo stesso tempo, si riconosce la sua abilità: si è definito Figlio di Dio, che nessuno può contraddire; si rivolge alle persone semplici perché sono più numerose e impermeabili alla ragione; pretende di adempiere alla legge di Mosè, contraddicendola. Ma alla fine fallisce, a differenza degli altri due, poiché viene messo a morte. Sarà San Paolo a sviluppare il suo inganno. Colui che è stato trattato con più violenza è Maometto, presentato a sua volta come un uomo violento e sensuale, che unisce la forza e l’astuzia. Secondo il Trattato egli sembra essere il peggiore dei tre e gli autori utilizzano contro di lui tutti gli aneddoti calunniosi che erano stati già diffusi dagli autori cristiani.
Lei scrive che non si tratta di un libro ateo ma deista, che in fondo ammette una trascendenza sia pure “naturale” e spinoziana.
Il Trattato non si presenta, in effetti, come un lavoro ateo. Esso si lega a tutte le religioni, che sono delle creazioni umane, ma conserva l’idea di un Dio. C’è un intero capitolo dal titolo “Che cosa è Dio” e la definizione che viene data corrisponde piuttosto al panteismo spinoziano: “Dio, vale a dire la natura, in quanto principio del movimento. È un essere semplice, o una estensione infinita, che assembla ciò che contiene, cioè esso è materiale, senza essere nondimeno né giusto, né misericordioso, né geloso, né niente di ciò che si possa immaginare e, di conseguenza, né punisce, né ricompensa”. Egli non si occupa degli uomini, non vuole né lodi né preghiere. Non è una persona, è la natura, l’universo. Si può parlare per questo di deismo, di panteismo, ma in realtà è ateismo.
Voltaire si è scagliato contro il Trattato. Una presa di posizione inaspettata. Avrebbe dovuto brandire il libro ritrovato come la sua migliore arma, invece si è schierato dalla parte della fede. Che gli è successo?
La reazione di Voltaire di fronte al Trattato dei tre impostori è interessante e rivelatrice. Nel 1768 ne riceve una copia, che gli viene inviata da Marc-Michel Rey, editore e libraio di Amsterdam. Voltaire ne rimane scioccato, indignato, poiché egli si oppone ferocemente all’ateismo. Sicuramente, egli attacca tutte le religioni, che ritiene fattori di superstizione e di fanatismo, e i fondatori delle religioni sono per lui degli impostori. Ridicolizza Mosè e i suoi giochi di magia e attacca soprattutto Maometto, contro il quale ha scritto nel 1742 una tragedia, Le fanatisme, ou Mahomet le prophéte. A proposito di Gesù, è più discreto, ma lo considera un sempliciotto. Così il Trattato dovrebbe convenirgli. Oppure è totalmente all’opposto. “Libro pericoloso”, scrive nella sua copia. Così Voltaire sostiene che si tratta di un lavoro ateo e per lui l’ateismo è pericoloso poiché la fede in un Dio è necessaria per mantenere il popolo nell’obbedienza e nella sottomissione e per sostenere l’ordine e la morale. È per questo che pubblica nel 1769 una piccola opera, Epître à l’auteur des Trois imposteurs, nella quale scrive: “Io penso che è sempre meglio sostenere la dottrina dell’esistenza di un Dio che premia e punisce, la società ha bisogno di questa opinione”, ed è in questo lavoro che enuncia il suo famoso adagio: “Se Dio non esistesse, si dovrebbe inventare”.
Le tesi che il Trattato sostiene sono secondo lei condivisibili in tutto? Non suona un po’ privo di concessione alcuna alle ragioni della fede?
I fatti e gli argomenti utilizzati nel Trattato evidentemente non hanno più molto valore al giorno d’oggi, ma la tesi centrale ne esprime tutto il suo valore. Mosè, Gesù e Maometto sono stati probabilmente impostori non consapevoli che probabilmente credevano nelle cose che dicevano, come tutti gli appassionati e i fanatici che hanno fondato religioni e sette. Il progresso della storia e l’esegesi permettono di spiegare in modo interamente umano la loro vita e la loro opera. Non sono tre impostori, ma tre illuminati.
Il problema di fondo che pone il Trattato è la questione della separazione o della conciliazione di fede e ragione. Un fervente cattolico potrebbe rispondere all’autore del Trattato che tutte le ragioni contrarie non valgono un solo dogma del suo credo. Insomma credere in Dio significa rifiutare la prova ontologica.
Proprio questo è grave e preoccupante: se si dice che non c’è bisogno di prove per credere in Dio, questo significa che si può credere in qualsiasi cosa senza alcuna garanzia razionale. Al contrario, soltanto la ragione ci può guidare. Altrimenti, perché non credere al primo illuminato venuto, che immagina di avere avuto dei contatti con un Dio?
In Gesù di Nazareth Papa Ratzinger ha inteso storicizzare la figura del Cristo, rendendolo umano e reale. È stato uno sforzo per andare incontro all’ondata scettica circa la natura divina dell’”Uomo di Dio”?
Sì, senza dubbio. La Chiesa ha sempre lottato per mantenere l’equilibrio tra le due nature di Gesù Cristo. È molto difficile non cadere da una parte o dall’altra. E questo, dagli inizi del Cristianesimo, ha provocato distinzioni negli uni che vedono in Gesù prima di tutto un uomo, negli altri che vedono in primo luogo un Dio. Nella seconda metà del XX secolo, la figura di Gesù è stata largamente secolarizzata, riscattata dalle varie correnti come “hippies” o altre, al punto di fare di lui una sorta di eroe di amore e di carità, una “superstar” meramente umana. Il Papa ha tenuto a ricordare la divinità di Cristo.
Si è fatto nemici il Papa con quel libro?
Non credo. Il libro del Papa è rivolto in primo luogo ai cristiani. Per i cristiani, infatti, in Gesù sono presenti due nature. A seconda della sensibilità alcuni sottolineano l’una o l’altra ma non possono negare l’esistenza di queste due nature altrimenti non sarebbero più cristiani. Quanto ai non credenti, continueranno a venerare un personaggio che è innanzitutto un modello di saggezza, e ciò che può dire il Papa non li tocca affatto.